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La supplementazione di vitamina D è più utile alla salute del consumatore o a quella delle case farmaceutiche?

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Euromonitor International, società indipendente leader mondiale nella ricerca strategica per i mercati consumer, ha recentemente pubblicato uno studio interessante relativo al consumo di vitamina D e alle evidenze scientifiche a essa associate.
Il mercato delle vitamine e degli integratori alimentari è quello con il trend maggiormente positivo nel settore dei consumi legati alla salute. Analizzando i diversi prodotti, la vitamina D ha registrato il tasso di crescita più elevato dal 2007, pari a un CAGR (Compounded Annual Growth Rate) del 20%. Il forte aumento di fatturato (US $ 934 milioni/anno) ha permesso di tamponare la riduzione di vendite di supplementi più maturi come i minerali, la vitamina C, gli oli di pesce e acidi grassi omega.

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Consumo globale di vitamine e integratori alimentari al dettaglio: valore delle vendite e crescita , 2007-2012 (Euromonitor International)

L’origine del successo della vitamina D è una reputazione molto positiva, ben radicata negli anni e scaturita da numerosi studi che attribuiscono a questa vitamina (in realtà si tratta di un gruppo di pro-ormoni liposolubili costituito da 5 diverse vitamine), un ruolo fondamentale per il benessere delle ossa, in un delicato meccanismo di equilibrio con il calcio. La vitamina D favorisce il riassorbimento di calcio a livello renale, l’assorbimento intestinale di fosforo e calcio e i processi di mineralizzazione dell’osso. Si ottiene grazie all’esposizione solare e attraverso la dieta: olio di fegato di merluzzo, salmone, aringhe, il latte e i suoi derivati, uova, fegato e le verdure verdi.
La vitamina D è una sostanza nutriente importante per la salute delle ossa e fondamentale nella lotta contro l’osteoporosi, ma recenti ricerche ne indicano la validità anche per altre malattie come il cancro, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson, l’obesità.
Così tanti studi indicano l’importanza di mantenere adeguati livelli di vitamina D nella prevenzione primaria e secondaria, che questo micronutriente è diventato una celebrità: medici ed esperti lo elogiano come un elisir meraviglioso e ne propagandano l’assunzione, come essenziale per la nostra salute.

IL CONTRADDITORIO
Recentemente è stato pubblicato su The Lancet Diabetes & Endocrinology uno studio che mette in discussione le conclusioni suggerite dalle precedenti pubblicazioni sulla vitamina D. Nello studio “Vitamin D status and ill health: a systematic review”, i ricercatori hanno esaminato i dati di 462 studi condotti in precedenza sugli effetti della vitamina D rispetto ai diversi indicatori di salute (a esclusione del sistema scheletrico). Il 63% degli studi esaminati erano di osservazione, mentre gli altri erano d’intervento. I primi hanno evidenziato che esiste una forte associazione tra stato di salute e concentrazione di vitamina D nel sangue: meno vitamina corrisponde a meno salute. Tuttavia, l’altro 37% degli studi analizzati, che erano d’intervento e quindi più affidabili per stabilire una relazione causale, non ha provato nessuna connessione fra aumento di vitamina D e diminuzione della malattia. Il team di ricercatori concorda nell’affermare che la carenza di vitamina D è un indicatore di cattiva salute, conseguenza e non causa, di una vasta gamma di malattie.
Un altro studio pubblicato recentemente su Lancet, “Effects of vitamin D supplements on bone mineral density: a systematic review and meta-analysis”, ha messo in discussione anche la raccomandazione medica di lunga data che le popolazioni più anziane dovrebbero assumere vitamina D per mantenere l’osso e la salute dello scheletro. I ricercatori hanno analizzato 23 studi precedenti e hanno trovato pochissime evidenze sul beneficio complessivo della supplementazione di vitamina D sulla densità ossea. Pertanto la supplementazione di vitamina D non è necessaria in adulti anziani che non presentano rischi specifici correlati alle ossa, che si espongono normalmente alla luce solare e hanno una dieta equilibrata. Il costo associato all’assunzione di questo supplemento, concludono gli studiosi, non è giustificato.

IN ITALIA
L’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) tramite l’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (Osmed) presenta a cadenze semestrali i dati sull’utilizzo dei farmaci in Italia in termini di spesa, volumi e tipologia. I numeri sono anche analizzati e interpretati per correlare la prevalenza delle patologie nel territorio con la corrispondente prescrizione e valutare eventuali modifiche d’indirizzo, anche in un’ottica di spending review.
Presentando l’ultimo rapporto nazionale OsMed il direttore generale dell’Aifa Luca Pani, ha sottolineato la necessità di vigilare sul possibile utilizzo inappropriato della vitamina D, il cui mercato in Italia ammonta a 187 milioni di euro su base annua. «L’AIFA ha guardato con attenzione i dati e ciò che emerge è che ad essere in aumento è il consumo di vitamina D da sola (+17,6% rispetto al 2012), mentre è in riduzione il consumo di farmaci a base di calcio in combinazione con Vitamina D (-3,6% rispetto al 2012) e quello del calcio da solo è costante. In poche parole ci troviamo di fronte a prescrizioni di Vitamina D non appropriate, ad esempio per le diete dimagranti, non sostenuto dalle evidenze scientifiche».

IL FUTURO DELLA VITAMINA D
La spinta per la prevenzione sanitaria e l’attenzione alla salute sono dei volani importanti per il mercato dei supplementi e degli integratori alimentari. Tuttavia la popolarità di questo o di quel prodotto è assai labile e può cambiare in base a nuovi risultati della ricerca, spinta anche e soprattutto da logiche di mercato che nulla hanno a che fare con la salute dei consumatori. Attualmente sono in corso cinque studi clinici controllati randomizzati che stanno testando l’efficacia della vitamina D. I primi risultati non saranno disponibili fino al 2017: nel frattempo il consumo di supplementi di vitamina D crescerà ancora raggiungendo 1,3 miliardi di dollari di vendite globali al dettaglio dentro il 2017 (nel 2007 erano $ 315 milioni).

 

Integrazione alimentare: che Zibaldone!

11617.14425Poco più di un anno fa Federsalus (Federazione Nazionale Produttori Prodotti Salutistici) ha presentato una ricerca, realizzata da Eta Meta Research, dal titolo “Il consumo di integratori alimentari in Italia”, volta a indagare l’universo dei consumatori (abituali o saltuari) di integratori alimentari. I dati emersi indicano innanzitutto che si tratta di un fenomeno consolidato, che trova nella ricerca della salute e del benessere psico-fisico la sua motivazione principale. Gli integratori più utilizzati sono soprattutto a base di vitamine, sali minerali (52,5%) e fermenti lattici (36%), seguiti da crusche e altre fibre/lieviti (15,9%) e prodotti energetici sportivi (14,4%). Questi ultimi sono scelti prevalentemente da un pubblico maschile, anche se, in genere, è il sesso femminile a utilizzare maggiormente gli integratori alimentari. A completare il profilo del consumatore, un livello di istruzione medio-alto, con buona predisposizione allo sport e alla cura dell’alimentazione. La maggioranza degli utilizzatori intervistati ne fa un uso regolare da oltre due anni e per gli acquisti si fa consigliare dal medico o dal farmacista, anche se è molto in uso la pratica del “fai da te” e del “passaparola” (quasi il 36% degli intervistati, percentuale che quasi raddoppia fra gli acquirenti del supermercato).
Dai dati presentati emergono due aspetti fondamentali. Il primo, riguarda l’interesse vivo e in crescita nei confronti degli integratori, interesse che non riguarda solo il target degli sportivi, ma fasce sempre più ampie di popolazione; il secondo aspetto pone in primo piano il valore fondamentale della comunicazione e la conseguente necessità di fornire informazioni corrette. In realtà, indagando sia le informazioni che passano attraverso i mass media, che quelle dei canali scientifici “ufficiali”, se ne ricava un quadro molto confuso, quando non contraddittorio, in cui è spesso difficile orientarsi.

L’AMBIGUO MONDO DEI MICRONUTRIENTI
La ricerca nel campo della nutrizione vanta una produzione vastissima di lavori ed è in continua evoluzione, ma questo può spiegare solo parzialmente la difformità di giudizio che emerge, soprattutto a proposito dell’integrazione alimentare dei micronutrienti, fra cui le vitamine rappresentano le sostanze più dibattute. Sono stati realizzati moltissimi studi che definiscono le vitamine “alimenti miracolosi”, così come altrettanti le dichiarano dannose per la salute. In tutti i casi, gli studi sono sempre suffragati da “evidenze scientifiche”. La Vitamina C, secondo le annate, è stata vilipesa o idolatrata. Diventata famosa quale antidoto per il raffreddore, è stata successivamente definita una vitamina “patetica” per la sua inutilità, quindi accusata di far venire il cancro se presa in dosi eccessive, quindi dichiarata in grado di uccidere le cellule cancerogene, se assunta per endovena in dosi elevate. Stessa sorte per la Vitamina D, che la pelle sintetizza come reazione fotochimica all’esposizione ai raggi di luce ultravioletta provenienti dal sole: dopo il grande interesse suscitato negli anni ‘20 per combattere il rachitismo, e il relativo disinteresse nei decenni successivi, è stata nuovamente riesumata per i suoi sorprendenti effetti anti cancro. Strettamente connessa all’osteoporosi, influenza la capacità dell’organismo di utilizzare il calcio. Anche a proposito dell’integrazione alimentare di calcio gli studi scientifici hanno dato risultati spesso contraddittori. Per anni consigliato per la prevenzione e cura dell’osteoporosi, è stato successivamente messo sul banco degli imputati. Uno studio epidemiologico condotto sulla popolazione femminile americana evidenziava percentuali di osteoporosi da record, nonostante i quantitativi di calcio assunti fossero fra i più alti al mondo. Altri studi rilevarono che il calcio preso in eccesso e non assorbito, poteva avere delle conseguenze anche importanti, come l’artrosi, i calcoli renali fino al favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Dunque, si affermò che il calcio non poteva essere assorbito nelle ossa senza l’aiuto del magnesio, dando il via a una nuova produzione di studi volti a suffragarne i grandi poteri: non solo si dimostrò che rallentava la perdita di massa ossea, ma addirittura invertiva il processo di osteoporosi, oltre ad aiutare la prevenzione delle malattie cardiache. Stessa grande confusione anche per quanto riguarda gli intermedi metabolici carnitina e creatina; basti dire, a proposito di quest’ultima, che in Italia il suo consumo è lecito, mentre in Francia è vietato e punito dalla legge sportiva.

FRA MEDICINA E ALIMENTAZIONE
Nel 2002, per uniformare le differenti leggi nazionali e proteggere la salute dei consumatori, è stata emanata la direttiva europea sugli integratori alimentari. Quando la direttiva è stata approvata, alcune questioni importanti sono state rimandate a decisioni future, fra cui i limiti di dosaggio di vitamine e minerali contenuti negli integratori e le fonti di nutrienti da permettere in questi prodotti. A distanza di sei anni, non è ancora stata presa alcuna decisione in merito, e non è difficile capire il perché. Gli integratori alimentari sono disciplinati dalla legislazione sui prodotti alimentari, perché non è riconosciuto loro nessun effetto terapeutico: eventuali indicazioni relative a cura o prevenzione di malattie farebbero rientrare il prodotto nel quadro legislativo dei medicinali. Dunque, si presuppone che l’alimentazione non abbia niente a che fare con la salute: il quadro legislativo dei medicinali, coerentemente, non ha posto per i nutrienti, quindi non si prevede che una sostanza nutriente, anche in forma concentrata, possa avere qualche effetto su una malattia specifica. Partendo da questi presupposti, è difficile stabilire dei limiti di dosaggio. Il contraddittorio di fondo è che da una parte si riconosce l’importanza di una corretta alimentazione per la salute e la prevenzione di alcune malattie, mentre dall’altra si impedisce qualsiasi informazione sulle proprietà dei nutrienti in questo senso. Inoltre, i limiti di dosaggio dovrebbero presupporre un’evidenza scientifica riguardo la dannosità di un nutriente oltre determinati dosaggi, evidenza che, a oggi, non è ancora stata dimostrata. Trattandosi di alimenti, dunque, la decisione se e in quale dose assumerne dovrebbe rientrare nella sfera delle decisioni personali, non certo imposta da direttive governative o sovranazionali. Anche in Italia gli integratori sono considerati come prodotti appartenenti all’area alimentare. Riguardo i livelli di assunzione massima giornaliera, si fa riferimento all’indicazione orientativa e generica di attenersi entro limiti di sicurezza (upper safe level), tenendo in considerazione le RDA (recommended dietary allowances). Eppure, nonostante siano considerati come prodotti alimentari, gli integratori, se assunti a scopo curativo, sono detraibili (fonte: rivista “Primo Piano Fiscale”), quindi considerati come i medicinali. L’Agenzia delle Entrate, infatti, ha affermato che “i prodotti detti integratori alimentari se prescritti da un medico specialista a scopo curativo possono essere detratti ai sensi dell’art. 15 del TUIR. La stessa cosa vale se a prescriverli è il medico di base”. Per la detrazione fiscale occorre lo scontrino fiscale parlante, ossia lo scontrino che indica il nome del prodotto, la natura e la quantità, e il codice fiscale dell’assistito, allegando preferibilmente la prescrizione medica (come avviene per la detrazione di tutti i prodotti non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale).

INTEGRAZIONE SPORTIVA
Nel 2006 è stata condotta un’indagine su oltre 1500 atleti dalla Commissione di Vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute e delle attività sportive del Ministero della Salute (CVD). Il 64% del campione dichiarò di aver assunto prodotti farmaceutici, compresi omeopatici (soprattutto antinfiammatori), e prodotti salutistici in genere, nelle due settimane antecedenti il prelievo. Il 30% dei prodotti salutistici assunti sono rappresentati prevalentemente da sali minerali, vitamine, aminoacidi e derivati, estratti erboristici e da integratori alimentari, ovvero formulazione di varie associazioni di tutti questi prodotti. A farne largo uso sono atleti e sportivi, professionisti e dilettanti, che alimentano un mercato di dimensioni sempre più importanti e con ottime prospettive di ulteriore espansione. Ma se da una parte l’integrazione può costituire un’effettiva necessità, giustificata ed efficace, dall’altra può anche essere inutile ed eccessiva, se non addirittura illegale: il confine tra integrazione lecita e illecita è molto sottile, tanto che la sola definizione risulta estremamente difficile, a partire dal termine stesso di “integrazione”. Con questa parola ci si riferisce al fatto che, durante l’attività sportiva, si consumano sostanze biologiche che poi devono essere reintegrate, supportando i processi naturali fisiologici con aiuti specifici esterni. Eppure, durante l’attività fisica sono diverse le sostanze consumate, incluse quelle ormonali, e questo non può rappresentare un valido motivo per assumere, per esempio, testosterone o GH. Nelle “Linee Guida su integratori alimentari, alimenti arricchiti e funzionali” pubblicate dal Ministero della Salute, si definiscono integratori o complementi alimentari quei “prodotti che costituiscono una fonte concentrata di nutrienti o sostanze a effetto fisiologico, sia mono che pluricomposti, destinati a integrare o a complementare la dieta. Sono presentati in forma di tavolette, capsule, compresse, flaconcini e simili per fornire un apporto predefinito di nutrienti e/o di sostanze a effetto fisiologico”. Nella denominazione deve figurare la dizione “integratore alimentare” o “complemento alimentare”. Sono suddivisi in:
- integratori di vitamine e/o di minerali;
- integratori di altri “fattori nutrizionali”;
- integratori di aminoacidi;
- derivati di aminoacidi;
- integratori di proteine e/o energetici;
- integratori di acidi grassi;
- integratori a base di probiotici;
- integratori di fibra;
- integratori o complementi alimentari a base di ingredienti costituiti da piante o derivati.
Gli integratori alimentari sono naturalmente acquistabili senza prescrizione medica e sono liberamente venduti in farmacia, supermercati, erboristerie, palestre e negozi specializzati. Questa notevole disponibilità ha contribuito a generare molta confusione rispetto alla loro funzione ed efficacia, oltre che un certo avventato pressappochismo riguardo a posologia e modalità d’uso. Soprattutto in riferimento ad alcune categorie di prodotto ci si trova spesso davanti a scelte insidiose, su una linea borderline fra lecito e illecito difficilmente identificabile. Si tratta di un settore in continua evoluzione, in cui, di fatto, la legittimità si basa più su questioni etiche che scientifiche e per questo risulta difficilmente ingabbiabile in una normativa che non lasci spazio alla libertà d’interpretazione e all’abuso. Appellarsi al buon senso, come spesso accade, risulta la migliore soluzione.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 3/2008 

Disturbi del comportamento alimentare: generalità

introChi soffre di disturbi alimentari molto spesso, nel proprio percorso patologico, approda in un centro fitness: persone in soprappeso, obesi, ma anche anoressiche, bulimici, ortoressici… Tutti con un solo scopo: dimagrire, bruciare calorie. Tutti con un’ossessione, più o meno grave, più o meno consapevole: il proprio corpo, inadeguato, malato, sbagliato, non accettato, spesso soggetto a una visione totalmente distorta.

Tendenzialmente, si individuano tre tipi di disturbo alimentare: Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Anche se a volte si manifestano già a partire dall’infanzia, sicuramente il loro picco riguarda l’età adolescenziale e la prima parte dell’età adulta. Il problema fondamentale è che sono caratterizzate da un esordio in sordina, e per questo insidioso, che spesso ritarda drammaticamente la diagnosi e l’intervento terapeutico. Il più delle volte si ha a che fare con malati invisibili, perché è labile il confine con condizioni di “normalità”: prima di arrivare alla malattia conclamata, infatti, il soggetto vive lunghi periodi di “incubazione” in cui si strutturano tutti i comportamenti che caratterizzeranno poi la malattia. In genere, sono patologie di lunga durata, con un alto tasso di cronicizzazione, caratterizzate da elevati indici di mortalità (dal 5 al 18%, in base alla durata), dovuta a complicazioni (soprattutto a livello del sistema cardiocircolatorio) e non raramente a suicidio. I disturbi del comportamento alimentare rappresentano, per chi ne è affetto, la soluzione, la risposta a un dolore. Si possono individuare alcuni sintomi caratteristici generali:
- irragionevole paura della propria immagine corporea e del giudizio delle altre persone, perché lì tutto è riposto;
- ansia eccessiva riferita al proprio peso, che si manifesta con un utilizzo ossessivo della bilancia, piuttosto che, al contrario, un rifiuto caparbio alla sua misurazione;
- continuo controllo del proprio corpo allo specchio;
- confronto esasperato del proprio aspetto fisico con quello degli altri;
- comportamento nevrotico nei confronti del cibo, caratterizzato da alternanze di digiuni/abbuffate, esagerato utilizzo di prodotti dimagranti e ipocalorici, fino ad arrivare al consumo di diuretici e lassativi; il cibo è il condensato simbolico di tutta la vita affettiva ed emotiva;
- esercizio fisico smodato, anche se non presente in tutti i quadri di DCA.
Non è necessario che tutti questi comportamenti siano manifesti, così come non è detto che rappresentino un DCA in esordio: anzi, molti di questi caratterizzano il periodo puberale e generalmente si risolvono senza conseguenze. La distorsione dell’immagine corporea è centrale nello sviluppo dei DCA, stimolata dai modelli estetici proposti dalla società: il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni si sente soprappeso, mentre il 50% non è soddisfatta del proprio corpo. Inoltre, vale la pena di sottolineare come non tutti i comportamenti considerati “anomali” debbano avere una spiegazione ed essere inquadrati come sintomi preliminari di chissà quale patologia psicotica. Tuttavia, è tendenzialmente vero che i comportamenti sopra descritti sono un segnale di difficoltà, di fronte al quale, senza alcun allarmismo, è bene “drizzare le antenne”.

ANORESSIA E BULIMIA
L’anoressia nervosa è caratterizzata da una profonda paura di aumentare di peso, accompagnata da una visione distorta di sé e da un continuo e progressivo timore di perdere il controllo del proprio corpo. Reprimere lo stimolo della fame innesca un gioco perverso di conferma del proprio potere: più lo stimolo è presente, più si ha soddisfazione nel dominarlo; spesso, questo esercizio di disciplina e capacità di controllo, porta la persona anoressica a sentirsi superiore rispetto agli altri e la spinge a un progressivo allontanamento dagli ambiti sociali. Il disturbo ossessivo-compulsivo, determinato dai continui pensieri sul cibo e sul corpo, spinge la persona anoressica a cercare una propria stabilità instaurando riti e abitudini che caratterizzano giornate e attività. Dal punto di vista clinico, un indice di massa corporea inferiore a 17,5 è sicuramente un segnale molto sospetto, soprattutto se accompagnato da amenorrea (assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi).
La bulimia nervosa è caratterizzata da frequenti abbuffate e dalla totale perdita di controllo sul cibo: le persone bulimiche mangiano per mezz’ora di seguito ingurgitando di tutto, senza scegliere gli alimenti, senza neanche sentirne i sapori. Le abbuffate sono seguite poi da profondi sensi di colpa, e da una grande vergogna per avere perso il controllo. Da qui seguono due comportamenti differenti: nel primo, caratterizzato da condotte di eliminazione, la persona bulimica si induce il vomito per eliminare quello che ha mangiato; nel secondo, senza condotte di eliminazione, l’abbuffata è compensata con periodi di digiuno, attività fisica estrema, utilizzo di diuretici e lassativi. La diagnosi è particolarmente difficile anche perché questi soggetti mantengono un peso normale e spesso riescono a tenere segreti i loro comportamenti. A volte la bulimia è associata a forme di autolesionismo più o meno gravi.
Sia anoressia che bulimia sono disturbi tipicamente femminili (rapporto di 1 a 20) anche se i disturbi alimentari nei maschi rappresentano una realtà epidemiologica in aumento. Mentre nelle donne il tempo medio di latenza è di 4 anni, in genere un maschio entra in terapia dopo 7 anni di malattia, il cui esordio si segnala generalmente intorno all’adolescenza, quando il giovane comincia a strutturare la propria identità adulta. Invece di anoressia, si parla spesso di anoressia inversa, o vigoressia, o dismorfia muscolare, poiché nei maschi la principale causa di dimagrimento è determinata da un eccesso di esercizio fisico; per questo, generalmente, non si arriva mai a perdite di peso gravemente invalidanti. I sintomi maggiormente riconoscibili sono l’assenza di massa grassa e la ricerca, urgente e continuamente insoddisfatta, di incrementare la propria massa muscolare tramite esercizio fisico compulsivo e rigorose diete alimentari fino ad arrivare, talvolta, all’uso di steroidi anabolizzanti.

TRIADE DELL’ATLETA
A volte si ricorre all’attività fisica perché già si soffre di un DCA, alle volte è il praticare un’attività sportiva che può favorire l’insorgenza di un DCA, soprattutto praticando quegli sport in cui il rapporto peso-forma è fondamentale per una prestazione ottimale (ginnastica artistica e ritmica, pattinaggio, danza…). In particolare, in un’atleta di sesso femminile, si parla di “triade dell’atleta” quando compaiono contemporaneamente tre sintomi:
- ridotta disponibilità di energia, che causa un peggioramento della performance;
- irregolarità mestruale;
- fragilità ossea.
Nel tentativo di ridurre al minimo la propria massa grassa, queste atlete diminuiscono eccessivamente l’apporto di cibo, aumentando contemporaneamente le sedute di allenamento e utilizzano lassativi e diuretici in maniera indiscriminata. Il controllo del peso diventa così un’ossessione che, oltre a incidere negativamente sulla performance, predispone l’atleta a fratture, strappi muscolari e a gravi complicanze cardiache e renali.

DISTURBI DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
I sintomi che caratterizzano gli affetti da disturbi da alimentazione incontrollata, in inglese Binge (orgia) Eating Disorder, possono essere paragonati a quelli delle persone bulimiche, con la differenza che i “Binge” non cercano di compensare le calorie introdotte in eccesso. Studi recenti sostengono che a questa categoria appartengano circa il 20% delle persone obese: si abbuffano regolarmente in modo compulsivo e incontrollato, generalmente da soli. Spesso le “crisi” sono precedute da un’emozione o un avvenimento scatenante e sono seguite da disgusto e senso di colpa, una sorta di autopunizione per un disagio interiore che non trova soluzione adeguata, e che si preferisce nascondere con decine di chili di soprappeso. La paura è la condizione cronica che innesca il circolo vizioso: paura di non essere all’altezza, di non essere accettati e rifiutati. Perché si possa inquadrare come un DCA, i soggetti devono avere un indice di massa corporea di almeno il 30% superiore alla normalità, e le crisi di alimentazione incontrollata devono presentarsi con una frequenza di almeno 2 volte alla settimana per 6 mesi.

ORTORESSIA
Consideriamo, infine, un DCA di recente definizione, l’ortoressia, caratterizzato dall’ossessione per un’alimentazione e uno stile di vita salutare, che porta alla selezione esasperata dei cibi e al totale rifiuto di interi gruppi di alimenti, al praticare fitness estremo con un’attenzione psicotica verso il proprio corpo.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Professione Fitness 6/2008

Dieta, fitness e altre prigioni


“In un momento storico di grandi incertezze, in cui l’individuo sente di avere poco controllo sulla  propria esistenza e sente un senso di inefficacia sulle possibilità di cambiare il proprio destino, si avverte la necessità di riportare il controllo sui propri confini corporei. Il progetto corpo è uno dei pochi territori in cui il singolo individuo sente che le proprie azioni hanno ancora una qualche efficacia: dieta, palestra, attività fisica, sono pratiche attraverso cui il corpo può essere oggettivamente modificato. Questo restituisce, in qualche modo, un equilibrio o una falsa idea di controllo. Io credo che l’anoressia (non la patologia primaria declinata dai manuali medici, ma la ‘nuova’ anoressia) sia una metafora del nostro modo di relazionarci al mondo, una sorta di ‘grammatica’ diventata di uso comune, come se la malattia fosse entrata nel nostro modo di pensare, nel discorso, e le persone se ne fossero appropriate per dire altre cose, per difendersi. Da questo punto di vista, tutti i comportamenti di controllo sul proprio corpo possono essere considerati figli di questa declinazione”.

Luisa Stagi

Fitness e body building sono attività fisiche che, a differenza di tutti gli sport, non ambiscono a un risultato prestativo “esterno”, in cui il corpo è il mezzo per ottenere un risultato, ma sono attività in cui il risultato è la stessa costruzione o modifica del corpo. Non è ancora così frequente che una persona si iscriva in un centro fitness “solo” per sentirsi meglio, a meno che non si tratti di un “over 60”. Quasi sempre, il cliente vuole vedersi meglio e cerca di raggiungere un obiettivo specifico: perdere peso, rassodare, definire, aumentare la massa, dando anche specifiche indicazioni dei distretti anatomici che vorrebbe vedere modificati (glutei, addominali, pettorali, gambe ecc.). Quasi tutti già hanno in testa un modello ben preciso a cui puntare, un obiettivo che spesso, nella sua idealizzazione, si preannuncia già come difficilmente raggiungibile; la costruzione di un corpo irreale, che corrisponde a un modello mediatico impossibile da imitare e sempre più estremo nella sua definizione. In questo progetto di costruzione del corpo i centri fitness rappresentano, loro malgrado e più o meno consapevolmente, un luogo di coltura fertile, ideale per la maturazione di modelli comportamentali deviati. Molto spesso, chi si iscrive in un centro fitness coltiva aspettative molto elevate e ambisce a risultati che non sempre corrispondono all’impegno che intende dedicare alla loro realizzazione. Dunque, all’istruttore si pone da subito una questione: lavorare sull’impegno o sull’ambizione del risultato? Sull’accettazione di sé o sull’esasperazione della prestazione? La cura verso il proprio corpo non è di per sé ossessiva, così come il centro fitness non rappresenta necessariamente il tempio di tale ossessione: proprio per questo le palestre non possono più prescindere da un ruolo educativo, seppur rigorosamente definito nei suoi confini. Ne abbiamo parlato con Luisa Stagi, sociologa, esperta in disturbi del comportamento alimentare e autrice del libro “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni”, a cui abbiamo rubato il titolo per questo articolo.

Nel suo libro si legge che l’anoressia è cambiata e sta cambiando da un decennio a questa parte: è maggiormente indotta dal modello sociale, si è diluita nella sua profondità e si è allargata nella sua espansione. Ci spiega meglio questo concetto?
I primi anni in cui si cominciava a diffondere e a studiare, l’anoressia era, in particolari condizioni psicopatologiche, il tentativo di controllare/rifiutare le trasformazioni dell’età puberale. Attraverso il controllo della condotta alimentare si negava la propria femminilità. La nuova anoressia, invece, è maggiormente indotta dal modello sociale, in cui la ricerca non è tanto dell’identità quanto dell’omologazione. L’anoressia maschile o vigoressia è un fenomeno in grande espansione che si inquadra bene con questo nuovo modello, così come anche l’ortoressia. L’anoressia maschile può sviluppare due modelli di comportamento differenti: l’annullamento del corpo, oppure lo sviluppo esagerato della massa muscolare (anoressia inversa). L’incertezza trasmessa da una società che non lancia più segnali precisi di identificazione, una società in cui alcuni attributi maschili non sono più riconosciuti importanti o, per lo meno, in cui gli uomini sentono di non avere messaggi chiari rispetto a ciò che ci si aspetta da loro, determina una grande fragilità e la necessità, in qualche modo, di esercitare un controllo: lavorando sul proprio corpo, annullando, togliendo pezzi, oppure aggiungendo e rinforzando. Il corpo diventa un territorio in cui riusciamo a lavorare e a vedere degli effetti, in cui, finalmente, riusciamo a verificare la validità e l’efficacia delle nostre azioni.

“Controllo” mi pare una parola chiave: un comportamento, una necessità, una pratica che, se sfugge di mano, può diventare ossessione. Nelle palestre molto spesso si praticano e si inducono comportamenti di controllo sul corpo: controllo del peso, della taglia, del battito cardiaco, dei risultati dell’allenamento, controllo della modalità di frequenza della palestra, controllo delle calorie ingerite e di quelle spese…
La dimensione del controllo è diffusa in tutto ciò che ci circonda, perché è un po’ quello che ci manca: le pratiche che aiutano ad avere controllo, aiutano a sentirsi meglio. Se, tuttavia, queste pratiche aiutano a stare meglio, senza entrare nel patologico, io credo che possano andare bene. Avere qualcuno che ci dice cosa è bene e cosa è male alle volte aiuta a mantenere un sottile, ma fondamentale, equilibrio: l’importante è averne consapevolezza. Il controllo diventa ossessione quando è presente una fragilità personale, in chi ha determinate caratteristiche cognitive e in persone che sono più fragili socialmente, perché l’insoddisfazione li rende più vulnerabili. La pressione sociale verso la magrezza, la bellezza, verso l’espiazione, è talmente forte che non è facile liberarsene: starci dentro con consapevolezza mi sembra già un passo importante.

Non crede che anche questo modo di comunicare il problema dell’obesità in termini di pandemia e trasferendo esclusivamente sulla sfera individuale le responsabilità, puntando sul senso di colpa, possa essere un’anticipazione di queste tendenze, una degenerazione anche del modello adottato da molti in cui l’attività fisica viene prescritta in modo rigido e doveristico?
L’individuo sente la necessità di dimostrare di aver capito come è giusto stare all’interno della società e lo deve dimostrare con pratiche che lo manifestino con evidenza. La nostra è una società in cui la malattia viene fatta passare innanzitutto come un peso per il “welfare state”: il concetto di fondo di questo nuovo salutismo è che tutti dobbiamo guadagnarci quel poco rimasto del “welfare state” comportandoci bene, sotto ogni aspetto. L’obeso sfugge al controllo sociale, in una socializzazione che non passa più per istituzioni forti e ferme, ma passa attraverso i corpi. Noi interiorizziamo come è giusto comportarsi e attraverso il corpo dobbiamo dimostrare agli altri che lo abbiamo capito: chi non lo fa, sta dicendo che non accetta queste regole, sfugge al controllo sociale e quindi dà fastidio, come danno fastidio tutti i devianti. In realtà, né l’anoressico né l’obeso sono i modelli giusti e conformi per la nostra società. Chi davvero risponde in toto alle richieste della nostra società è il bulimico, che da un lato consuma e dall’altro rimane magro. Per questo, la bulimia è la forma di disturbo del comportamento alimentare più diffusa e anche la meno riconoscibile.

Sempre nel suo libro si legge “L’attenzione ossessiva per l’immagine corporea, il culto della magrezza, non sono la causa dei disturbi alimentari; piuttosto la loro funzione sembra quella di fornire una strada, un contenitore in cui un malessere più profondo riesce a incanalarsi e a esprimersi”. Quale ruolo può avere, in questo contesto, il centro fitness?
Io credo che istruttori, personal trainer, preparatori atletici siano figure veramente importanti per il ruolo educativo che potrebbero assumere, anche perché spesso rappresentano dei modelli di riferimento, ma dovrebbero avere maggiore coscienza del proprio ruolo. Per la stesura del mio lavoro ho parlato con molti gestori, proprietari e responsabili di centri fitness e ho rilevato grande sensibilità a questi argomenti: si tratta, ora, di cominciare a mettere dei “semini di consapevolezza” in chi ha, di fatto, grandi responsabilità.

LUISA STAGIstagi027
Insegna Sociologia e Metodologia e tecniche della ricerca sociale presso l’Università degli Studi di Genova. Nella stessa città collabora con il Centro per la cura dei disturbi alimentari e con il centro interdisciplinare per la ricerca in sessuologia. Per FrancoAngeli ha pubblicato “La società bulimica” (2002) e “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni” (2008). “Il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore”.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 5/2012

Il cioccolato aiuta a ridurre la pressione sanguigna?

I flavanoli sono un tipo di fitonutrienti appartenenti al più ampio gruppo dei flavonoidi, 24FY03MFcomposti idrosolubili presenti nelle piante, il cui nome deriva dal latino flavus (giallo). Vari studi controllati condotti sull’uomo hanno dimostrato che la loro principale caratteristica è la funzione antiossidante, ma i flavonoidi contribuiscono anche a combattere la fragilità capillare, migliorando la funzione endoteliale, riducono l’ossidazione del colesterolo LDL e svolgono una funzione antinfiammatoria e antibatterica. I polifenoli, in particolare i flavanoli del cacao, hanno dimostrato di aumentare la biodisponibilità di ossido nitrico, che contribuisce alla riparazione dell’endotelio danneggiato a seguito dell’insulto vascolare. Oltre che in frutta e verdura, i flavonoidi sono presenti anche nel tè (soprattutto verde) e nel cacao, anche se sono in gran parte persi nel processo di lavorazione per la produzione del cioccolato. Il cioccolato fondente e i flavanoli contenuti in prodotti ricchi di cacao hanno attirato l’interesse della comunità scientifica come trattamento alternativo per l’ipertensione, un fattore di rischio noto per le malattie cardiovascolari. Precedenti meta-analisi hanno concluso che alimenti ricchi di cacao possono ridurre la pressione sanguigna, ma diversi studi recenti hanno dato risultati contrastanti; questo studio riassume le attuali evidenze sugli effetti dei flavanoli sulla pressione sanguigna nei soggetti ipertesi e normotesi. Sono stati analizzati tutti gli studi pubblicati su Medline e altri portali internazionali tra il 1955 e il 2009 che valutavano l’effetto del cacao sulla pressione sistolica e diastolica (PAS/PAD) rispetto al placebo, per una durata minima di 2 settimane. Sono stati considerati dosaggi giornalieri di flavanoli variabili da 30 mg a 1000 mg e la significatività statistica è stata fissata a P <0,05. Di tutti gli studi valutati, 15 hanno incontrato i criteri di inclusione. È da rilevare che vi è una certa confusione nella letteratura sulla corretta etichettatura dei componenti chimici vasoattivi presenti nel cacao (polifenoli, flavanoli, proantocianidine, epicatechina e catechina), e le definizioni sono spesso utilizzate in modo intercambiabile e talvolta non correttamente. Nonostante ciò, gli studi inclusi in questa meta analisi presentavano dosaggi di polifenoli totali paragonabili. Sono state inoltre raccolte informazioni su età, peso e BMI dei soggetti, perché l’età e l’indice di massa corporea possono influenzare la risposta al trattamento della pressione arteriosa (2, 3). La meta-analisi suggerisce che il cioccolato fondente è superiore al placebo nel ridurre la pressione sistolica e diastolica nel gruppo degli ipertesi e pre-ipertesi (con pressione sistolica <140 mmHg e pressione diastolica < 80 mmHg). I flavanoli del cioccolato non riducono invece la pressione arteriosa dei soggetti con la pressione sanguigna nella norma (media sistolica inferiore a 140 mmHg o diastolica 80 mmHg). Questi risultati sono in linea con meta-analisi di altri integratori alimentari sul sangue pressione, che analogamente trovato che la pressione era significativamente ridotta in sottogruppi ipertesi ma non nei sottogruppi normotesi (4, 5). L’eterogeneità nel sottogruppo di normotesi è stata ridotta in modo soddisfacente, tanto da far ritenere i risultati validi e certi. Nel sottogruppo di ipertesi, invece, è rimasta un’elevata eterogeneità, che ha influenzato notevolmente i risultati, visto il numero relativamente esiguo di studi introdotti nell’analisi. Pertanto, l’entità e il significato degli effetti sul sottogruppo di soggetti ipertesi deve essere interpretato con cautela. Ulteriori studi sulle popolazioni di ipertesi sono necessari per chiarire se le abitudini alimentari locali o i fattori genetici possono influenzare l’effetto del cacao sulla riduzione della pressione arteriosa. Premesso che i dati fin qui disponibili non permettono alcune raccomandazioni per quanto riguarda dosaggio ottimale, si evidenzia che il cioccolato fondente contiene la percentuale maggiore di flavanoli del cacao, il cioccolato al latte ne contiene importi minori, mentre il cioccolato bianco non ne contiene affatto. In ogni caso, la comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che anche piccole riduzioni della pressione sanguigna possono ridurre sostanzialmente il rischio cardiovascolare (6, 7): un calo di 5 mmHg in pressione arteriosa sistolica può ridurre il rischio di un evento cardiovascolare di circa il 20% in 5 anni. A questo si può aggiungere che le linee guida attuali raccomandano di modificare il proprio stile di vita come trattamento complementare all’uso dei farmaci convenzionali per il controllo della pressione sanguigna: integrando con una moderata attività fisica (30 min/die) si può ridurre la pressione arteriosa sistolica di 4 – 9 mmHg (8)

REFERENCES
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Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 12/2012

 

Caffeina, bevande energetiche e prestazione sportiva

Coffee beans - Stimulant drug for home and officeBevande energetiche contenenti caffeina sono supplementi popolari che hanno usi variabile sia fra gli atleti che fra i non atleti. Questo studio, condotto da William P. McCormack e Jay R. Hoffman, dimostra che tali bevande sono efficaci nel migliorare le prestazioni di resistenza, ma non lo sono altrettanto nelle prestazioni di forza e potenza. La review, presentata sull’ultimo numero di “Strength & Conditioning Journal”, si concentra sull’efficacia di tali prodotti (caffeina da sola o in combinazione con altri ingredienti) sulla performance nei tempi di reazione, durante un’attività prolungata e il loro ruolo durante le prestazioni di potenza.  La popolarità delle bevande energetiche sembra essere in costante aumento. Recenti evidenze suggeriscono che le bevande energetiche sono disponibili in più di 140 paesi e le vendite nel 2011 hanno superato i 9 miliardi di euro (1). Le strategie di marketing sono rivolte a giovani popolazioni sportive, le aziende produttrici sono spesso sponsor di manifestazioni sportive e utilizzano atleti agonisti come testimonial; la metà delle bevande energetiche è venduta a persone di 25 anni e più giovani. L’ingrediente principale nelle bevande energetiche è la caffeina, addizionata, per migliorarne l’effetto, con vari ingredienti aggiuntivi per fornire un effetto sinergico o additivo. Nella letteratura scientifica l’efficacia della caffeina, da sola e con varie combinazioni di ingredienti, è stata accertata in relazione alle prestazioni di resistenza. Gli studi hanno dimostrato che la caffeina migliora le prestazioni negli sport a lunga distanza come corsa, bicicletta (2, 3, 4, 5, 6, 7), canottaggio (8), e nuoto (9). Tuttavia, la ricerca è stata equivoca quando esamina l’effetto della caffeina sulle prestazioni di forza e potenza. L’obiettivo di questa review è di fornire una migliore comprensione del ruolo ergogenico che le bevande energetiche a base di caffeina hanno sulla forza, la potenza e le prestazioni nell’esercizio anaerobico.

MECCANISMO D’AZIONE
La caffeina è uno stimolante del sistema nervoso centrale (SNC) e i suoi effetti sono simili, ma ovviamente più deboli, a quelli associati alle anfetamine. La caffeina è utilizzata come ausilio ergogenico dagli atleti che svolgono sia attività aerobiche che anaerobiche. Tuttavia, i meccanismi di azione possono essere molto diversi. Nell’attività aerobica si pensa che la caffeina prolunghi l’esercizio di resistenza grazie all’aumento dell’ossidazione dei grassi per la mobilitazione degli acidi grassi liberati dal tessuto adiposo o depositi di grasso intramuscolare (10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17). Il maggior uso di grassi come fonte di energia primaria rallenta la carenza di glicogeno e ritarda l’affaticamento. Tuttavia, alcuni ricercatori hanno messo in discussione questo meccanismo (18, 19, 20, 21). Nell’esercizio di breve durata ad alta intensità, l’effetto ergogenico primario attribuito alla supplementazione di caffeina è di aumentare la produzione di energia. Gli studi analizzati riportano un certo numero di possibili meccanismi per spiegare l’effetto della caffeina sulle prestazioni di forza-potenza; questi meccanismi comprendono azioni sia sul SNC che sui sistemi neuromuscolari. Uno degli effetti più significativi della caffeina sul SNC è la sua azione di antagonista selettivo dei recettori dell’adenosina, essendo le due molecole strutturalmente simili fra loro. L’adenosina è una sostanza chimica, prodotta in modo naturale, che agisce da messaggero nella regolazione dell’attività cerebrale e modulando lo stato di veglia e di sonno. La caffeina quindi agisce come un inibitore competitivo, ritardando la sensazione di stanchezza e riducendo gli effetti inibitori dell’adenosina (22, 23). In una meta-analisi di Warren et al. (24), è stato suggerito che l’effetto della caffeina sul SNC porterebbe a un miglioramento dell’attivazione muscolare (unità motore). Inoltre, è stato provato che la caffeina ha qualche effetto analgesico, abbassando la soglia di dolore e il rating di sforzo percepito (25, 26, 27). Alcuni studi suggeriscono che l’assunzione di caffeina migliori la relazione eccitazione/contrazione muscolare, interessando sia la trasmissione neuromuscolare che la mobilitazione di ioni calcio intracellulari del reticolo sarcoplasmatico (28). Infine, è stato anche ipotizzato cha la caffeina determini un miglioramento della cinetica degli enzimi regolatori della glicolisi, come la fosforilasi (29).

EFFETTO DELLA CAFFEINA SU PRESTAZIONI DI FORZA E POTENZA
Non vi sono evidenze scientifiche sufficienti a sostenere l’effetto della caffeina come ausilio ergogenico nelle attività anaerobiche di forza e potenza. Diversi studi hanno esaminato l’effetto del consumo di energy drink prima dell’esercizio e hanno dimostrato un aumento significativo del volume della performance (numero di ripetizioni effettuate) nelle prestazioni di potenza (30, 31, 32, 33). Queste bevande energetiche spesso hanno una “matrice energetica” che può contenere caffeina, taurina e glucuronolattone, ma contengono anche ingredienti aggiuntivi come aminoacidi, creatina e betaalanina. Questi ingredienti non sono progettati per fornire una carica d’energia, ma per migliorare il recupero e fornire l’apporto giornaliero necessario per aumentare la resistenza e le prestazioni di potenza. Per quanto riguarda l’effetto di questi mix di sostanze energetiche sull’aumento del volume di allenamento, i risultati di molti studi ne hanno confermato l’efficacia, così come sono stati registrati significativi aumenti di picco e potenza media espressa per ripetizione (34). L’uso di bevande energetiche può anche avere efficacia nel mantenere le prestazioni di forza dopo l’esercizio esaustivo, mentre sembra essere ininfluente sull’espressione di potenza anaerobica durante l’esercizio ad alta intensità.

CAFFEINA E SPRINT, AGILITÀ E TEMPI DI REAZIONE
È stato dimostrato che l’ingestione di caffeina fornisce un effetto ergogenico sulle prestazioni di sprint ripetuti. Schneiker et al. (35) nel loro studio hanno simulato le esigenze fisiologiche richieste in uno sport di squadra in un contesto competitivo; dopo l’ingestione di caffeina hanno riportato miglioramenti significativi nelle prestazioni di sprint. L’ingestione in dosi importanti di bevande energetiche contenenti caffeina sembra anche avere alcuni potenziali effetti benefici sulle prestazioni di agilità e velocità di reazione. Diversi studi hanno dimostrato che le bevande energetiche possono avere un effetto significativo sulla capacità reattiva e aumentare la concentrazione, l’attenzione e la memoria (36, 37).

DOSE-RISPOSTA
La dose utilizzata nella maggior parte degli studi che dimostrano un effetto positivo della supplementazione di caffeina è di 5-6 mg/kg di peso corporeo. Ciò significa che la dose media per una persona di 80 kg sarebbe approssimativamente di 400 mg di caffeina. Per confronto, una tazza di caffè filtrato contiene tra 110 e 150 mg di caffeina (per circa 23 cl); la classica lattina di Coca Cola o Pepsi (33 cl) ne contiene tra i 30 e i 40 mg. Le bevande energetiche in genere contengono tra 75 e 80 mg di caffeina per 23 cl, anche se alcune ne contengono fino al 174 mg per dose. Nessun effetto significativo è stato rilevato per l’assunzione di dosi minori di caffeina.

LA CAFFEINA È DOPING?
Prima del 2004 la World Anti- Doping Agency (WADA) aveva stabilito uno specifico livello di soglia per considerare doping l’assunzione di caffeina, ma questa restrizione fu in seguito eliminata. Attualmente la caffeina non è contemplata nella lista delle sostanze proibite, sia perché fa parte della dieta abituale della popolazione (sportiva e non), sia perché ha tempi di metabolizzazione molto diversi da soggetto a soggetto. La WADA l’ha invece inserita nel suo “programma di monitoraggio”, che comprende le sostanze che non sono vietate nello sport, ma che sono controllate al fine di individuare eventuali modelli di abuso nello sport. Quindi i livelli di caffeina sono ancora testati e riportati nel test delle urine, ma non ne è vietato l’uso. Negli anni 2010 e 2011 non sono stati rilevati modelli specifici di abuso di caffeina nello sport, anche se ne è stato osservato un aumento significativo nella popolazione atletica.

APPLICAZIONI PRATICHE
La caffeina e le bevande energetiche sembrano avere un effetto ergogenico sulla resistenza nelle prestazioni di potenza. In particolare, l’integrazione con caffeina o una bevanda energetica che contiene caffeina e altri ingredienti può migliorare la qualità di un allenamento aumentando il numero di ripetizioni eseguite e la potenza espressa per ripetizione: ciò può avere importanti implicazioni per la resistenza a lungo termine e le possibilità di sviluppo muscolare. L’uso di un integratore ad “alta energia” può influire sulle prestazioni atletiche ritardando fatica e migliorando il tempo di reazione. Così, la caffeina da sola e in combinazione con altri ingredienti sinergici, può fornire un vantaggio competitivo per gli atleti, pur rispettando la dose minima di 5-6 mg/kg di peso corporeo. Non vi è prova convincente che suggerisca che la caffeina abbia una qualche influenza sul SNC e sul sistema neuromuscolare: sono necessarie ulteriori ricerche in questo campo per definire chiaramente i meccanismi di lavoro. Come tutti gli integratori, le bevande energetiche e la supplementazione di caffeina devono essere assunte con cautela. Gli effetti avversi riportati dopo il consumo di energy drink includono insonnia, nervosismo, mal di testa, tachicardia (38). Se si è in presenza di un problema cardiovascolare, la supplementazione con bevande energetiche o caffeina deve essere discussa con il medico.

CARTA D’IDENTITÀ
La caffeina è una xantina, un alcaloide che si trova in diverse piante come i chicchi di caffé e i semi di cacao, le foglie di tè, le bacche di guaranà e le noci di cola. Il contenuto medio di caffeina è di circa 85 mg per 150 ml (1 tazza) nel caffé tostato macinato, di 60 mg nel caffé istantaneo, di 3 mg nel caffé decaffeinato, di 30 mg nella foglia o nella busta di tè, di 20 mg nel tè istantaneo e di 4 mg nel cacao o nella cioccolata calda. Un bicchiere (200 ml) di una bevanda analcolica che contiene caffeina, ha un contenuto medio di caffeina di circa 20-60 mg. La presenza di caffeina, in accordo con la Direttiva Europea 2002/67/CE, deve chiaramente figurare sull’etichetta delle bevande che contengono più di 150 mg/L. Questa norma si applica ad alcune bevande analcoliche e alle bevande energetiche che contengono caffeina, ma non al tè, al caffé, e ai prodotti che ne derivano, supponendo che i consumatori ne siano a conoscenza.

di Mia Dell’Agnello

Pubblicato in Fitmed online 10/2012

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Bilancio energetico e regolazione del peso corporeo

The American Journal of Clinical Nutrition ha recentemente pubblicato i risultati di un weightconfronto fra esperti in gestione del peso, metabolismo energetico, attività fisica e psicologia comportamentale di Stati Uniti e Regno Unito, rispetto al ruolo del bilancio energetico nella regolazione del peso corporeo. L’equazione che esprime il bilancio energetico include da una parte l’energia netta ricavata dall’ingestione di cibo e bevande, ovvero la frazione disponibile per essere utilizzata dal corpo (energia metabolizzabile: EI), e dall’altra tutta l’energia utilizzata dal corpo per mantenere la vita e svolgere attività fisica (energia emessa: EO). Per quanto riguarda EI, è corretto considerare una perdita di energia attraverso feci e urine fra il 2 e il 10% dell’energia totale. EO può essere invece suddiviso in dispendio energetico a riposo (REE), o metabolismo basale, effetto termico del cibo (TEF), ed energia spesa in attività (AEE). REE, che rappresenta circa i due terzi di EO, varia tra gli individui in base alla dimensione del corpo, alla composizione corporea (il tessuto magro consuma più energia rispetto al tessuto grasso) e a squilibri metabolici. Il TEF è associato ai processi digestivi e alla trasformazione metabolica del cibo, e AEE è costituito dalla spesa energetica per l’attività fisica sportiva e non sportiva (lavoro, gioco, ma anche stati di irrequietezza). Ovviamente, quando EI supera EO, il surplus di energia (ES) viene immagazzinato nel corpo umano, soprattutto come grasso nel tessuto adiposo, ma anche come glicogeno (dai carboidrati) nel fegato e nei muscoli. L’obesità si sviluppa quando c’è un lungo periodo surplus energetico che determina un eccessivo accumulo di grasso corporeo. Al contrario, quando EO è maggiore di EI per lunghi periodi di tempo, il corpo sfrutta le sue riserve energetiche e perde peso. La comprensione del meccanismo che sta alla base del bilancio energetico, incluse le interazioni e le regolazioni che influenzano reciprocamente le diverse componenti del bilancio energetico, non è ancora chiara: assimilazione e spesa energetica possono variare ampiamente da un giorno con l’altro ed è solo facendo un’analisi a lungo termine che si può stabilire un bilancio energetico (per esempio per le diete di mantenimento). Inoltre, tutti i componenti del bilancio energetico (EI, EO e ES) interagiscono reciprocamente tra loro determinando infinite variabili. Per esempio, il ruolo svolto da AEE in relazione alle altre componenti ancora non è chiaro: se un bilancio energetico è negativo per aumento di esercizio fisico, viene poi compensato da una maggiore assunzione di cibo? Gli studi a riguardo mostrano una grande variabilità di risposta, influenzata sia dalla modalità di esercizio che dalla misura del comportamento compensativo, cioè la risposta alla fame dopo l’esercizio. Si è sempre creduto che, oltre all’utilizzo di energia durante l’attività fisica, si dovesse contabilizzare anche una componente di energia post esercizio che oscillava dal 6 al 15% di energia spesa durante tutta la sessione di allenamento: eppure diversi studi rivelano che l’aumento creduto in REE a causa di un regolare esercizio fisico e le successive modifiche nella composizione corporea siano in realtà trascurabili. Un altro fattore importante è che non sempre l’attività fisica organizzata introdotta nella vita di un soggetto porta a un aumento di EO, a causa di condotte compensatorie più sedentarie nelle ore successive alle sedute di allenamento. In altre parole, per stimare più accuratamente l’EO giornaliera devono essere prese in considerazione tutte le attività svolte, tenendo presente che la somma di molte piccole attività può raggiungere un dispendio energetico significativo. In conclusione, la misurazione precisa dei fattori che determinano il bilancio energetico è estremamente difficile, perché si tratta di un sistema interattivo e complesso. Per colmare queste lacune sarà necessario impostare studi longitudinali a lungo termine che indaghino le relazioni tra i diversi componenti del bilancio energetico e il loro effetto sul peso corporeo e sulla composizione e approfondiscano il ruolo dell’attività fisica soprattutto in riferimento alla quantità di EO quotidiana.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 11/2012

 

Attività sportive e disidratazione secondo l’American College of Sports Medicine

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Gli atleti che partecipano a sport di resistenza o ad allenamenti intensi a temperature elevate, possono essere soggetti a fenomeni di disidratazione. In generale, una persona è considerata disidratata quando ha perso più del 2 per cento del suo peso corporeo. L’American College of Sports Medicine  ha pubblicato una review della letteratura scientifica che riassume le attuali conoscenze riguardo alle esigenze di liquidi ed elettroliti durante l’esercizio fisico e l’impatto dei loro squilibri sulla prestazione e la salute. Un adeguato apporto di liquidi è essenziale per gli atleti prima, durante e dopo l’esercizio. Obiettivo della pre-idratazione è di iniziare l’attività sportiva con livelli normali di elettroliti plasmatici. La pre-idratazione con bevande, in aggiunta ai pasti normali e alla normale assunzione di liquidi, deve essere iniziata, quando necessario, alcune ore prima dell’attività per permettere l’assorbimento del liquido e consentire che la diuresi si stabilizzi a livelli normali. Assumere bevande durante l’esercizio fisico ha lo scopo di prevenire disidratazione (una perdita superiore al 2% di peso corporeo da deficit idrico) e anormale disequilibrio elettrolitico, per evitare prestazioni compromesse. Dopo l’esercizio, l’obiettivo è quello di sostituire il liquido e riequilibrare il deficit elettrolitico. L’esercizio fisico può indurre un significativo aumento di temperatura nel corpo (cuore e pelle) in base a condizioni ambientali (temperatura, umidità, sole, vento esposizione), variabili metaboliche e abbigliamento indossato. Innalzamenti della temperatura corporea rendono necessaria la dispersione del calore con un aumento di secrezione di sudore, favorito da un maggiore flusso sanguigno nell’epitelio. L’evaporazione del sudore rappresenta la via principale di perdita di calore durante l’esercizio fisico vigoroso a temperature elevate, quindi le perdite di sudore possono essere anche considerevoli. Oltre a contenere acqua, il sudore contiene elettroliti che, se non adeguatamente sostituiti, possono sviluppare e incidere negativamente sulla prestazione fisica individuale e, a volte, sulla salute (disidratazione e iponatriemia). La variabilità individuale del tasso di sudorazione e di elettroliti contenuti nel sudore rende necessaria una programmazione personalizzata. I tassi di sudore individuali possono essere stimati misurando il peso corporeo prima e dopo l’esercizio.

SUDORAZIONE E VARIABILI INDIVIDUALI
Il termine “euhydration” si riferisce allo stato di idratazione “normale”, mentre i termini “ipoidratazione” e “iperidratazione” si riferiscono rispettivamente a deficit e a eccessi di acqua contenuta nel corpo, al di là della normale fluttuazione di contenuto idrico. Il termine “disidratazione” si riferisce al processo di perdita di acqua corporea. L’ipoidratazione che si verifica durante l’esercizio fisico è di solito caratterizzata da ipovolemia iperosmotica (perché il sudore è ipotonico rispetto al plasma), sebbene l’ipovolemia iso osmotica possa verificarsi durante l’assunzione di alcuni farmaci (per esempio diuretici) o l’esposizione al freddo e ipossia. Diversi sono i fattori che influenzano le perdite di sudore, come la durata e l’intensità dell’esercizio, le condizioni ambientali, il tipo di abbigliamento o equipaggiamento indossato. A volte, questi fattori sono standardizzati per una specifica attività (per esempio, la temperatura di uno stadio al coperto con aria condizionata o la divisa della squadra sportiva). In altri casi, questi fattori si verificano in modo prevedibile (le condizioni climatiche durante l’esecuzione di una gara a lunga distanza). Tuttavia, nella maggior parte delle attività, vi è una considerevole variabilità individuale nell’esposizione ai fattori che determinano i tassi di sudorazione, come il peso corporeo, la predisposizione genetica, lo stato di acclimatazione al calore e l’efficienza metabolica (l’economia nello svolgere uno specifico di esercizio). In una partita di calcio, i tassi di sudorazione variano tra i giocatori in base alla loro posizione e allo stile di gioco, così come al tempo totale trascorso sul campo. Allo stesso modo, i giocatori di football americano (caratterizzati da un BMI elevato e che indossano indumenti protettivi) accuseranno perdite di sudore maggiori rispetti ai fondisti a parità di caratteristiche ambientali e di durata dell’attività. Questi dati dimostrano che gli individui spesso raggiungono tassi di sudorazione pari a 0,5 – 2 litri all’ora. Le contrazioni muscolari producono calore metabolico che viene trasferito dal sangue ai muscoli attivi e quindi al corpo. Successivamente il rialzo della temperatura interna suscita aggiustamenti fisiologici che facilitano il trasferimento di calore dall’interno del corpo verso la pelle, dove può essere dissipata nell’ambiente. Lo scambio termico tra la pelle e l’ambiente è governato da proprietà biofisiche dettate dalla temperatura, umidità, radiazioni solari e dall’abbigliamento. In un ambiente temperato e fresco, l’elevata capacità di dispersione di calore secco (radiazione e convezione) riduce i requisiti di raffreddamento per evaporazione, per cui le perdite di sudore sono piuttosto piccole. Con l’aumento dello stress da calore ambientale, vi è una maggiore dipendenza dal meccanismo della sudorazione per raggiungere il raffreddamento necessario. Indossare abiti pesanti o impermeabili, come una divisa da calcio, aumenta notevolmente lo stress termico e di raffreddamento per evaporazione durante l’esercizio in ambienti caldi. Allo stesso modo, indossare abiti pesanti o impermeabili durante l’attività fisica nella stagione fredda può provocare tassi di sudore inaspettatamente alti. Se l’ambiente è più fresco e consente una maggiore perdita di calore secco, il tasso richiesto di sudorazione risulterà minore; se il sudore secreto non evapora subito e resta a “gocciolare” sul corpo, sarà necessario un tasso di sudorazione maggiore per raggiungere i requisiti di raffreddamento per evaporazione. Al contrario, un maggiore movimento d’aria (vento, velocità del movimento) faciliterà l’evaporazione e ridurrà al minimo gli sprechi (gocciolamento) di sudore. L’acclimatazione al calore aumenta la capacità di un individuo di ottenere una maggiore sudorazione, mentre l’esercizio fisico aerobico ha un effetto modesto sul rafforzamento della reazione di sudorazione. Altri fattori, come l’umidità e la disidratazione iniziale, possono influire negativamente portando alla totale soppressione della sudorazione. Le perdite di elettroliti dipendono dalla perdita di sudore totale e dalle concentrazioni di elettroliti nel sudore. In media, il sudore ha una concentrazione di sodio di circa 35 milliequivalenti (mEq)  per litro e varia in base alla predisposizione genetica, alla dieta, al tasso di sudorazione e allo stato di acclimatazione al calore. Le concentrazioni medie di potassio sono di circa 5 milliequivalenti per litro, il calcio di circa 1 mEq, il magnesio in media 0,8 mEq e il cloruro 30 mEq. Le ghiandole sudoripare possono riassorbire sodio e cloro, ma questa loro capacità non aumenta proporzionalmente con il tasso di sudorazione; di conseguenza, la concentrazione di sodio cloruro nel sudore aumenta in funzione del tasso di sudorazione. L’acclimatazione al calore migliora la capacità di riassorbire cloruro di sodio, che nel sudore di individui acclimatati di solito si presenta in concentrazioni più basse (anche del 50%).

VALUTARE L’IDRATAZIONE
Il bilancio idrico giornaliero dipende dalla differenza tra il guadagno e la perdita di acqua. Il guadagno si ottiene per consumo (liquidi e cibo) e produzione (acqua metabolica), mentre la perdita si verifica con la respirazione, perdite gastrointestinali, renali e sudorazione. Il volume di acqua metabolica prodotto durante il metabolismo cellulare (circa 0,13 g x 1 kcal) è approssimativamente uguale alla perdita di acqua delle vie respiratorie (circa 0,12 g x 1 kcal), quindi non si hanno variazioni di acqua corporea totale; le perdite del tratto gastrointestinale sono normalmente esigue. La sudorazione fornisce la via principale di perdita di acqua durante l’esercizio- stress da calore. I reni regolano l’equilibrio idrico con la produzione di urina, da un minimo di circa 20 ml a un massimo di 1000 ml circa ora; durante l’esercizio fisico e lo stress da calore, sia la filtrazione glomerulare che il flusso ematico renale sono marcatamente ridotti, con conseguente diminuzione della diuresi. Pertanto, quando sono consumati liquidi in eccesso durante l’esercizio fisico (iperidratazione), la capacità di produrre l’urina per espellere il volume in eccesso può essere ridotta. L’acqua corporea totale (TBW) rappresenta circa il 60% della massa corporea, con un range fra il 45 e il 75%; queste differenze sono dovute essenzialmente alla composizione corporea (la massa magra è costituita dal 70-80% di acqua, mentre nel tessuto adiposo l’acqua rappresenta circa il 10%). Atleti allenati, con una grande massa muscolare e un indice di grasso corporeo basso, hanno valori relativamente elevati di TBW. Idealmente, il biomarcatore di idratazione dovrebbe essere abbastanza sensibile e preciso; in realtà, evitando esami di laboratorio, è possibile determinare lo stato di idratazione utilizzando dei biomarcatori semplici, come il colore. Questi biomarcatori, se presi da soli, hanno dei limiti oggettivi, ma contestualizzati e utilizzati insieme ad altri parametri possono fornire informazioni preziose.

DISIDRATAZIONE E IPERIDRATAZIONE
Gli individui spesso iniziano un’attività fisica con un livello normale di acqua corporea totale; tuttavia, può capitare che si cominci l’attività in una situazione di disidrazione, come quando l’intervallo tra le sessioni di allenamento è inadeguato per completare la reidratazione o quando il peso corporeo dell’atleta rappresenta un vincolo. Per esempio, in alcuni sport organizzati in categorie di peso (pugilato, powerlifting, wrestling), gli individui possono disidratarsi appositamente per competere nelle classi di peso inferiore. Inoltre, le persone che utilizzano diuretici possono essere disidratate prima di iniziare l’esercizio. Un deficit idrico senza perdita proporzionale di cloruro di sodio è la forma più comune di disidratazione durante l’attività fisica al caldo; se si ha un grande deficit di cloruro di sodio, il volume del liquido extracellulare subirà una contrazione. Indipendentemente dal tipo di disidratazione, per qualsiasi deficit idrico, le alterazioni della funzione fisiologica sono simili, così come le conseguenze a livello prestativo. I sintomi di disidratazione sono:
- secchezza delle fauci;
- produzione di urina minima o assente, di colore molto scuro, concentrata;
- impossibilità a produrre lacrime;
- debolezza e vertigini;
- perdita di elasticità della pelle (effetto “tenda”).
La disidratazione aumenta la temperatura corporea, la frequenza cardiaca e le risposte allo sforzo percepito durante l’esercizio fisico, lo stress da calore; quanto maggiore è il deficit idrico, tanto maggiore è l’aumento della tensione fisiologica per un determinato esercizio. Una disidratazione entro il 2% del peso corporeo degrada l’attività aerobica e la performance cognitivo/mentale, ma il livello di deficit è anche correlato alle caratteristiche biologiche dell’individuo (la tolleranza alla disidratazione). Fattori fisiologici che contribuiscono al decremento delle prestazioni dell’esercizio aerobico includono un aumento della temperatura corporea, aumento della tensione cardiovascolari, l’utilizzo maggiore di glicogeno, alterata funzione metabolica, e forse alterata funzione del sistema nervoso centrale. L’evidenza suggerisce che questi fattori interagiscono per contribuire in concerto, piuttosto che isolatamente, al degrado delle prestazioni nell’esercizio aerobico. Il contributo relativo di ciascun fattore può variare a seconda della specifica attività, delle condizioni ambientali, dello stato di acclimatazione di calore e della bravura dell’atleta, ma l’elevata ipertermia agisce probabilmente per accentuare il decremento delle prestazioni. Anche la performance cognitiva/mentale è degradata da disidratazione e ipertermia. L’iperidratazione può essere ottenuta combinando un agente che “lega” l’acqua all’interno del corpo, come il glicerolo e le bevande ipertoniche. Un’iperidratazione semplice di solito stimola la produzione di urina per tornare rapidamente a euhydration entro alcune ore; tuttavia, come già descritto, questo meccanismo compensatorio (produzione di urina) è meno efficace durante l’esercizio e c’è il rischio di iponatriemia da diluizione. L’iperidratazione non fornisce alcun vantaggio nella termoregolazione, ma può ritardare l’insorgenza della disidratazione. In generale, la disidratazione è più comune, ma l’iperidratazione con iponatriemia sintomatica è più pericolosa. La disidratazione può compromettere la prestazione atletica e contribuisce a gravi patologie da calore, mentre l’esercizio associato a iponatriemia può produrre grave malattia o morte. La disidratazione aumenta il rischio di esaurimento da calore e rappresenta un fattore di rischio per il colpo di calore. Il colpo di calore è anche associato ad altri fattori, come la mancanza di acclimatazione, l’assunzione di alcuni farmaci, la predisposizione genetica, e la malattia. Inoltre, la disidratazione è stata associata a una ridotta stabilità cardiaca, a un alterato volume intracranico e a un ridotto flusso ematico cerebrale. Crampi muscolari scheletrici si ritengono associati a disidratazione, deficit di elettroliti e affaticamento muscolare, e sono comuni fra atleti non acclimatati al calore (sport estivi all’aria aperta come tennis, gare ciclistiche, calcetto e beach volley). I crampi da calore si verificano solitamente dopo diverse ore di sforzo e sudorazione eccessiva. La causa esatta non è nota, ma le teorie più comuni si riferiscono a un alterato controllo neuromuscolare, a disidratazione con deplezione di sali ed elettroliti, inappropriato condizionamento muscolare. Sono molto comuni tra gli atleti di resistenza e le persone anziane che svolgono intensa attività fisica. Le persone anziane sono più suscettibili a crampi muscolari a causa della perdita di massa muscolare normale (atrofia) che inizia verso i 45 anni e accelera con l’inattività. Inoltre, con l’età, il corpo perde parte del suo senso della sete e della sua capacità di percepire e rispondere ai cambiamenti di temperatura. L’iponatriemia riflette un eccesso di TBW rispetto al contenuto totale corporeo di Na. I sintomi includono mal di testa, vomito, gonfiore a mani e piedi, irrequietezza, stanchezza eccessiva, confusione e disorientamento (a causa di encefalopatia progressiva), e respirazione ansimante (a causa dell’edema polmonare). Quando il sodio plasmatico scende eccessivamente, aumenta il rischio di grave edema cerebrale associato a convulsioni, coma, ernia del tronco cerebrale, arresto respiratorio e morte. I fattori che contribuiscono alla patologia comprendono l’iperidratazione e la perdita eccessiva di sodio totale tramite i fluidi corporei.

IDRATAZIONE: QUANDO E QUANTO PRIMA DELL’ATTIVITÀ
L’obiettivo della preidratazione è di iniziare l’attività fisica in stato di euhydration e con livelli normali di elettroliti plasmatici. Se sono consumati liquidi a sufficienza durante i pasti e se c’è stato un periodo di recupero prolungato (8-12 ore) dall’ultima sessione di allenamento, la persona dovrebbe essere già in uno stato di equilibrio idrico salino. Tuttavia, se il deficit di fluido è stato notevole e non c’è stato tempo sufficiente per ristabilire la euhydration, può essere il caso di considerare un programma di pre-idratazione specifico, che contribuirà a garantire la correzione del deficit fluido-elettrolita. L’individuo dovrebbe assumere lentamente liquidi (per esempio, circa ml 5-7 per peso corporeo) almeno 4 ore prima dell’attività fisica, in modo che vi sia tempo sufficiente per la produzione di urina e il ritorno a uno stato di normalità. Consumare bevande a base di sodio e/o piccole quantità di snack salati o cibi contenenti sodio ai pasti può contribuire a stimolare la sete e a mantenere il consumo di liquidi.

DURANTE L’ALLENAMENTO Bygreenfinger
La quantità di liquido da ingerire dipende dall’indice di sudorazione del soggetto, dalla durata dell’allenamento e dalla possibilità di bere. Si deve prestare attenzione nel determinare i tassi di sostituzione dei fluidi, in particolare nell’esercizio di durata superiore a 3 ore. La composizione dei liquidi da assumere (carboidrati ed elettroliti) può essere importante, in base alla specifica attività, intensità, durata e condizioni meteorologiche. Sodio e potassio devono contribuire a sostituire le perdite di elettroliti nel sudore, mentre il sodio aiuta anche a stimolare la sete e i carboidrati forniscono energia. Il consumo di carboidrati può essere utile per sostenere attività ad alta intensità che durano più di un’ora. Se si affidano il reintegro dei liquidi e l’integrazione di carboidrati a un’unica bevanda, la concentrazione di carboidrati non deve superare l’8%, perché a una concentrazione maggiore riducono lo svuotamento gastrico.

DOPO L’ALLENAMENTO
Le perdite di liquidi ed elettroliti contenuti nel sudore devono essere rimpiazzate per ristabilire l’equilibrio idrico totale e per la maggior parte delle persone questo può essere realizzato consumando un pasto normale e bevendo acqua naturale. Dato che l’alcol può agire come un diuretico (specialmente ad alti dosaggi) e aumentare la produzione di urina, deve essere consumato con moderazione, soprattutto dopo l’esercizio fisico. Se la disidratazione è notevole e il tempo di recupero relativamente breve (12 h), si può inserire un programma di reidratazione specifico. Le perdite di sodio sono più difficili da valutare rispetto alle perdite d’acqua, e presentano un’alta variabilità individuale. Un po’ di sale in eccesso può essere inserito durante i pasti quando la sudorazione è stata particolarmente abbondante. Per raggiungere un rapido e completo recupero da disidratazione è necessario bere circa 1,5 litri di liquido per ogni chilogrammo di peso corporeo perduto: il rapporto non è di 1:1 perché è necessario un volume maggiore di liquidi per compensare l’aumento di produzione delle urine che accompagna il rapido consumo di grandi volumi di liquido. La sostituzione dei liquidi per via endovenosa può essere necessaria in soggetti con grave disidratazione, nausea, vomito o diarrea, o che per qualche ragione non riescono a ingerire liquidi per via orale. Nella maggior parte delle situazioni, la sostituzione di liquidi per via endovenosa non fornisce un vantaggio rispetto all’assunzione normale.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 6-7/2011 

Probiotici: una review dalla letteratura

Sull’ultimo numero della rivista trimestrale Nutrition Bulletindella British Nutrition Yogurt and berriesFoundation (BNF) è stata pubblicata una review dal titolo “Probiotics and health: a review of the evidence”. I probiotici sono microrganismi vivi, principalmente batteri, che in teoria, se somministrati in quantità adeguate, danno benefici di vario tipo alla persona che li assume. In realtà, all’aumentato interesse verso queste sostanze non corrisponde una maggiore chiarezza nella comunicazione: l’obiettivo di questa revisione è quello di esaminare le prove attuali sugli effetti dei probiotici sulla salute, concentrandosi in particolare sul sistema immunitario, con l’obiettivo di fornire un quadro più chiaro possibile. Sono stati analizzati più di 100 studi originali, meta-analisi e revisioni sistematiche in cui si utilizzavano varietà di diversi ceppi (è importante ricordare che l’efficacia dei probiotici è ceppo-specifico, il che significa che ogni singolo ceppo probiotico deve essere sottoposto a test per valutare i benefici potenziali per la salute). Nel complesso, nonostante la diversità dei ceppi utilizzati negli studi inclusi in questa revisione, non vi è prova che i probiotici siano genericamente benefici per la salute, anche se esistono benefici in situazioni specifiche. Studi condotti su pazienti con sindrome dell’intestino irritabile mostrano una riduzione dei sintomi, quando trattati con selezionati ceppi probiotici, pur sottolineando che anche nel gruppo placebo sono stati registrati effetti positivi. L’evidenza dell’efficacia dei probiotici in pazienti affetti da costipazione è limitata, anche se alcuni studi hanno provato che specifici ceppi possono portare sollievo ai pazienti che soffrono di stitichezza. Un buon numero di ceppi probiotici sono invece efficaci nel prevenire la diarrea associata ad antibiotici e, in genere, hanno effetto positivo in caso di diarrea acuta, in particolare nei bambini. Studi che hanno valutato l’effetto preventivo dei probiotici nel contesto del comune raffreddore e infezioni influenzali mostrano che i ceppi studiati non hanno abbassato l’incidenza degli episodi, ma ne hanno ridotto la durata, il che suggerisce che ci possa essere un contributo all’efficienza del sistema immunitario nella lotta contro il comune raffreddore. Le prove finora non suggeriscono che i probiotici siano efficaci nel prevenire o curare le allergie o nel trattamento di eczema. Tuttavia, alcuni ceppi probiotici sembrano ridurre il rischio di sviluppare eczema, se assunti da donne in gravidanza e nei loro bambini nei primi anni di vita.

di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 2/10

La prevenzione dell’osteoporosi comincia in gravidanza

È noto che la robustezza delle ossa sia correlata al metabolismo del calcio. I fattori gravidanza cibomodmaggiormente coinvolti sono da una parte la quantità di calcio assunta con l’alimentazione e dall’altra la quantità di vitamina D metabolizzata a livello di vari organi quali il fegato, il rene e la pelle nella quale, grazie all’assorbimento delle radiazioni ultraviolette, la vitamina D viene chimicamente perfezionata. Alle nostre latitudini, l’esposizione alla luce del sole e agli UV non è un problema, invece carenze nell’assunzione di calcio e vitamina D sono spesso sottovalutate ed estremamente frequenti. Nella maggior parte dei casi il problema non si pone fino alla terza età, quando la riduzione della massa ossea, che normalmente si accompagna all’invecchiamento, può configurare un quadro di vera e propria osteoporosi: ciò condiziona una maggiore fragilità dello scheletro, più soggetto a micro e macrofratture spesso gravemente invalidanti. Avere immagazzinato più calcio nelle ossa durante lo sviluppo e fino all’età giovane-adulta costituisce un vantaggio nel momento in cui la massa ossea stessa comincerà a decrescere. Un interessante studio inglese, pubblicato sulla rinomata rivista Lancet, ha seguito poco meno di duecento donne durante la gravidanza: le variabili prese in esame erano la costituzione corporea, la loro alimentazione e i livelli di vitamina D nelle ultime fasi della gravidanza. Da queste osservazioni è nato uno studio longitudinale, cioè i figli di queste donne sono stati seguiti fino all’età di 9 anni. Ebbene nel 31% delle madri in gravidanza risultavano concentrazioni di vitamina D insufficienti e nel 18% deficitarie: il dato più significativo è che tale carenza di vitamina D nelle madri si correla a una minore massa ossea nei figli all’età di 9 anni. Inoltre, in base alla stima dell’esposizione alla luce solare e all’assunzione di vitamina D delle madri, si poteva prevedere la massa ossea dei figli. Altro dato che si correlava alla massa ossea dei figli era la concentrazione di calcio nel sangue venoso raccolto dal cordone ombelicale: meno calcio assunto in gravidanza, minore la massa ossea a 9 anni. Quindi la prevenzione dell’osteoporosi non solo viene spesso trascurata e inizia solo con la terza età, ma potrebbe essere indicata, grazie alla supplementazione con vitamina D e calcio, soprattutto nei mesi in cui scarseggia la luce solare, addirittura a partire dalla gravidanza.

di Mia Dell’Agnello
Titolo: Maternal vitamin D status during pregnancy and childhood bone mass at age 9 years: a longitudinal study. 
Autori: Javaid MK, Crozier SR, Harvey NC, Gale CR, Dennison EM, Boucher BJ, Arden NK, Godfrey KM, Cooper C.
Pubblicato: Lancet, Gennaio 2006

Pubblicato su Fitmed online7-8/2010