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Predisporre all’ascolto: nuovi paradigmi della comunicazione

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C’è una premessa fondamentale e necessaria, senza la quale la comunicazione non può avvenire e riguarda il ruolo dell’ascoltatore, molto spesso dato per scontato da parte di chi, avendo qualcosa da comunicare, presuppone la predisposizione dell’altro a recepire il messaggio. La predisposizione all’ascolto è la condicio sine qua non della comunicazione, intesa come atteggiamento culturale volto a mettere in comune, condividere, partecipare.

LA CAPACITà DI ASCOLTO
Il professor Alfred Tomatis, otorinolaringoiatra italo-francese (1920-2000), ha sviluppato una complessa teoria dell’ascolto basata sulle funzioni neurofisiologiche dell’apparato uditivo, in cui riconosce all’orecchio il ruolo primario non tanto dell’udito (identificato come processo passivo), quanto proprio dell’ascolto, ovvero il processo attivo tramite cui i suoni uditi sono selezionati in base al nostro interesse e viene loro attribuito un significato, evidenziando la relazione esistente fra orecchio, linguaggio e psiche. L’incapacità di ascolto è spesso causata da fattori di natura non organica, ma emotiva e psicologica e si traduce nell’incapacità di selezionare il segnale che ci interessa (escludendo i non pertinenti) e concentrarsi su di esso per elaborarlo e riorganizzare l’informazione. Il cattivo utilizzo di questa funzione, se non correttamente rieducato, può essere causa di diverse patologie: ritardi dell’apprendimento, dislessia, balbuzie, generali difficoltà di interagire con l’ambiente esterno che possono arrivare all’autismo. Spesso, queste disfunzioni sono di tipo difensivo e hanno lo scopo, più o meno conscio, di interrompere la comunicazione con l’esterno.
Il ruolo dell’ascoltatore è tanto più difficile, quanto più la vita sociale è invasa da rumori. La nostra società è caratterizzata da un eccesso di comunicazione: la somma di tanti messaggi diventa un unico rumore di fondo, nel quale si fa fatica a recuperare comunicazioni di significato. Le persone sono considerate come bersagli da colpire con azioni di marketing sempre più esasperate, la cui unica strategia parrebbe quella di gridare sempre più spesso e sempre più forte. Per di più, le nuove tecnologie hanno consentito, nel tempo, l’utilizzo di strumenti sempre più penetranti, che spesso invadono il territorio privato costringendo le persone a difendersi, sia utilizzando barriere tecnologiche (dalla segreteria telefonica ai filtri per la posta elettronica), che, più o meno consciamente, adottando barriere psicologiche di non ascolto.

IL NUOVO CONSUMATORE
Chi ha qualcosa da comunicare deve prima di tutto recuperare l’ascoltatore, utilizzando una forma di comunicazione diversa, volta a restituire valore all’ascoltatore e a riconoscerne la dignità. Tanto più che, di fatto, l’ascoltatore/consumatore la sua dignità se la sta già riprendendo, nel mondo del web, dove nell’arco di pochi anni sono saltati tutti i paradigmi base dei processi comunicativi. La comunicazione tradizionale, strettamente correlata al ruolo che l’azienda si è ritagliata nel tempo, è sempre stata una comunicazione unidirezionale, in cui l’azienda comunicava e il cliente fungeva da ascoltatore passivo. Su questa gerarchia si è strutturato tutto il rapporto azienda-cliente, dalle politiche di marketing alle strategie manageriali. Nella maggior parte dei casi anche le tecniche di comunicazione più evolute si sono concentrate nel costruire un brand aziendale forte e monolitico, volto a rappresentare una realtà irrealmente perfetta, che il consumatore doveva solo assorbire passivamente. Da qualche anno a questa parte, lo scenario si sta modificando e il consumatore, più consapevole, acquisisce una rinnovata dignità, sostenuta dall’utilizzo di nuovi mezzi di conoscenza. Strumenti non convenzionali, svincolati dall’autorità aziendale e non governabili, che hanno consentito il proliferare in rete di social network, blog e community, tramite cui gli internauti si trasmettono informazioni, comunicano, si scambiano opinioni, diventando improvvisamente interlocutori, a volte scomodi, a volte preziosissimi. Sono in numero sempre maggiore le persone che, dovendo acquistare un prodotto o un servizio, utilizzano la rete per avere informazioni, che ricavano non tanto dai siti ufficiali delle aziende, quanto piuttosto utilizzando i social network, per avere il parere di altri consumatori. Il valore attribuito ai messaggi che passano attraverso queste voci è elevatissimo, ed è sicuramente molto più credibile e seguito rispetto ai messaggi confezionati e distribuiti direttamente dalle aziende. La conseguenza di ciò è che anche i paradigmi del buon vecchio marketing si stanno ribaltando: quello che prima suonava come “suscita i bisogni e poi soddisfali”, ovvero spingi il mercato, Push marketing, ora si sta trasformando in Pull marketing, perché sono le persone che valutano, confrontano e scelgono in un contesto libero da contaminazioni aziendali. Utopia? Sicuramente eccessiva lungimiranza, vista la lentezza con cui il mondo imprenditoriale sta reagendo ai nuovi input del mercato, incapace di cogliere una grande, grandissima opportunità.

RECUPERARE IL MERCATO
A noi è capitato un episodio interessante. Volendo scrivere un articolo su di una multinazionale straniera da poco trapiantata in Italia, abbiamo pensato di realizzare un’intervista con il responsabile per il nostro paese che, ben contento, ci ha dato la sua disponibilità. Per raccogliere in massimo delle informazioni possibile, come spesso succede, abbiamo utilizzato la rete, andando a visitare anche diversi blog per capire quale fosse la percezione da parte degli utenti. Non abbiamo trovato sorprese ma, come immaginavamo, pareri positivi e negativi sul servizio offerto, pareri che spesso, trovando corrispondenza fra loro, creavano un’assonanza tale da fortificare i singoli, dando validità e spessore a tutti gli interventi. Formulando la nostra scaletta per l’intervista, abbiamo inserito anche una parte che riguardava le critiche lette, una piccolissima parte, sicuri del fatto che l’azienda avrebbe colto questa opportunità per giustificare, spiegare, confutare ciò che le veniva contestato. Pensavamo che ne sarebbe uscito un articolo interessante, in cui l’azienda avrebbe fatto la sua solita bella figura, ma utilizzando uno strumento nuovo, tanto più che, avendo una struttura molto organizzata, aveva a propria disposizione responsabili marketing, uffici di comunicazione, addetti alle pubbliche relazioni. Una volta ricevuta la scaletta, l’intervista ci è stata negata. Scusate se abbiamo parlato di noi, ma l’esempio ci è sembrato emblematico: l’atteggiamento della maggior parte delle aziende è ancora legato a vecchi moduli di comunicazione, che vivono con l’unico scopo di lustrare un’immagine patinata che non corrisponde mai alla realtà aziendale né, tanto meno, al percepito del mercato. Così il consumatore gioca d’anticipo, scrive il suo parere, confronta e valuta, in un territorio libero dove, volendo, le aziende avrebbero modo di inserirsi, se solo avessero il coraggio di abbandonare i vecchi paradigmi. Il mercato si organizza da solo, più rapidamente, e cerca da solo i prodotti e i servizi che corrispondono alle sue esigenze: in futuro la comunicazione aziendale rischia di essere totalmente tagliata fuori. È questa sordità aziendale, per tornare all’inizio, che impedisce alle aziende di trovare una propria banda passante, ovvero una lunghezza d’onda che le consenta di parlare e di essere ascoltata dal pubblico. Un autismo aziendale causato dall’autoreferenzialità per cui “il mondo sono io”, senza confronto, senza discussione. Recuperare la capacità di ascolto vuol dire riprendere la percezione del mercato, nella consapevolezza che questo non è più costituito da rigidi segmenti di target, ma da persone che oggi hanno la possibilità di scegliere.

THE CLUETRAIN MANIFESTO: THE END OF BUSINESS AS USUAL
Nel 1999 fu pubblicato sul web, ad opera di un gruppo di “comunicatori” (Christopher Locke, Rick Levine, Doc Searls, David Weinberger), un manifesto per la comunicazione d’impresa nel mondo on line, che diventò presto un vero e proprio fenomeno, riferimento fondamentale per il grande spirito innovativo in esso contenuto. Articolato in 95 tesi, il Cluetrain (letteralmente: treno carico di indizi, idee, suggerimenti) si pone come obiettivo quello di sollecitare una riforma del linguaggio utilizzato dalle aziende per comunicare on line. Di queste ne presentiamo solo qualcuna, ma suggeriamo di leggerle tutte: potete trovarle riassunte in Wikipedia, oppure nella traduzione italiana del testo a cura di Antonio Tombolino (Fazi editore). 1. I mercati sono conversazioni
2. I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici.
3. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana.
4. Sia che fornisca informazioni, opinioni, scenari, argomenti contro o divertenti digressioni, la voce umana è sostanzialmente aperta, naturale, non artificiosa.
5. Le persone si riconoscono l’un l’altra come tali dal suono di questa voce.
6. Internet permette delle conversazioni tra esseri umani che erano semplicemente impossibili nell’era dei mass media.
7. Gli iperlink sovvertono la gerarchia.
9. Queste conversazioni in rete stanno facendo nascere nuove forme di organizzazione sociale e un nuovo scambio della conoscenza.
10. Il risultato è che i mercati stanno diventando più intelligenti, più informati, più organizzati. Partecipare a un mercato in rete cambia profondamente le persone.
11. Le persone nei mercati in rete sono riuscite a capire che possono ottenere informazioni e sostegno più tra di loro, che da chi vende. Lo stesso vale per la retorica aziendale circa il valore aggiunto ai loro prodotti di base.
12. Non ci sono segreti. Il mercato online conosce i prodotti meglio delle aziende che li fanno. E se una cosa è buona o cattiva, comunque lo dicono a tutti.
16. Le aziende che non capiscono che i loro mercati sono ormai una rete tra singoli individui, sempre più intelligenti e coinvolti, stanno perdendo la loro migliore occasione.
17. Le aziende possono ora comunicare direttamente con i loro mercati. Se non lo capiscono, potrebbe essere la loro ultima occasione.
18. Le aziende devono capire che i loro mercati ridono spesso. Di loro.
19. Le aziende dovrebbero rilassarsi e prendersi meno sul serio. Hanno bisogno di un po’ di senso dell’umorismo.
20. Avere senso dell’umorismo non significa mettere le barzellette nel sito web aziendale. Piuttosto, avere dei valori, un po’ di umiltà, parlar chiaro e un onesto punto di vista.
21. Le aziende che cercano di “posizionarsi” devono prendere posizione. Nel migliore dei casi, su qualcosa che interessi davvero il loro mercato.
26. Le Pubbliche Relazioni non si relazionano con il pubblico. Le aziende hanno una paura tremenda dei loro mercati.
27. Parlando con un linguaggio lontano, poco invitante, arrogante, tengono i mercati alla larga. 32. Per parlare con voce umana, le aziende devono condividere i problemi della loro comunità. 33. Ma prima, devono appartenere a una comunità.
39. Le aziende fanno della sicurezza una religione, ma si tratta in gran parte di una manovra diversiva. Più che dai concorrenti, la maggior parte si difende dal mercato e dai suoi stessi dipendenti.
58. Questo è suicidio. I mercati vogliono parlare con le aziende.
62. Vogliamo accedere alle vostre informazioni, ai vostri progetti, alle vostre strategie, ai vostri migliori cervelli, alle vostre vere conoscenze. Non ci accontentiamo delle vostre brochures a 4 colori, né dei vostri siti Internet sovraccarichi di bella grafica ma senza alcuna sostanza.
66. Il linguaggio tronfio e gonfio con cui parlate in giro – nella stampa, ai congressi – cosa ha a che fare con noi?
69. Le vostre vecchie idee di “mercato” ci fanno alzare gli occhi al cielo. Non ci riconosciamo nelle vostre previsioni – forse perché sappiamo di stare già da un’altra parte.
70. Questo nuovo mercato ci piace molto di più. In effetti, lo stiamo creando noi.
75. Siete troppo occupati nel vostro business per rispondere a un’e-mail? Oh, spiacenti, torneremo. Forse.
76. Volete i nostri soldi? Noi vogliamo la vostra attenzione.
78. Niente paura, potete ancora fare soldi. A patto che non sia l’unica cosa che avete in mente. 87. Il nostro potere è reale e lo sappiamo. Se non riuscite a vedere la luce alla fine del tunnel, arriverà qualcuno più attento, più interessante, più divertente con cui giocare.
89. Siamo leali verso noi stessi, – i nostri amici, i nostri nuovi alleati, i nostri conoscenti, persino verso i nostri compagni di battute. Le aziende che non fanno parte di questo mondo non hanno nemmeno un futuro.
95. Ci stiamo svegliando e ci stamo linkando. Stiamo a guardare, ma non ad aspettare.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 6/2007

Il futuro non è più quello di una volta*

 *Lawrence Peter Yogi Berra, giocatore e allenatore di baseball statunitense, famoso anche per i suoi aforismi
ingranaggi cervello

Si chiama “singolarità” ed è il periodo storico in cui stiamo entrando, o meglio, in cui siamo già entrati, ma ancora non lo sappiamo. La sua caratteristica principale è determinata dall’innovazione tecnologica che evolverà in maniera così rapida da modificare radicalmente «i concetti base che utilizziamo per dare significato alla nostra vita, dal modo in cui facciamo affari, al ciclo della vita umana, morte compresa». Parola di Raymond Kurzweil, inventore, tecnologo e futurologo, da molti considerato l’erede di Edison, vincitore di riconoscimenti internazionali e autore di diversi libri, fra cui “La singolarità è vicina”, edito da Apogeo. Secondo Kurzweil, la maggior parte delle previsioni a lungo termine è basata su un’interpretazione storica lineare, inadeguata per capire invece il mondo di domani, in cui i cambiamenti determinati dall’applicazione delle tecnologie avranno una velocità di crescita esponenziale. Insomma, l’accelerazione del progresso sarà tale che non è possibile raffigurarsela con i punti di riferimento attualmente a disposizione, se non con un certo sforzo. L’attuale tasso di progresso è stato quantificato, in media, essere cinque volte superiore a quello che ha caratterizzato il ventesimo secolo e raddoppia ogni decade: di conseguenza, nell’arco di venticinque anni avremo l’equivalente di un secolo di progresso. E via, esponenzialmente. I progressi più rivoluzionari hanno a che fare con le nanotecnologie derivate dall’unione tra biologia e informatica, che consentiranno la manipolazione della realtà fisica a livello molecolare. Incredibile? Eppure qualcosa del genere esiste già: si chiama “Respirocyte” ed è un eritrocita nanomedicale, globulo rosso artificiale disegnato in un istituto americano per duplicare tutte le funzioni della cellula. Allo stesso modo saranno realizzati nanorobot molecolari che assolveranno a diverse funzioni all’interno del corpo umano, fino ad arrivare a contrastare l’invecchiamento cellulare… «La singolarità ci permetterà di superare le limitazioni di corpo e cervello biologico. Otterremo il controllo dei nostri destini. La nostra mortalità sarà nelle nostre mani». Altro passo determinante sarà il “reverse engineering”, ovvero la reingegnerizzazione del cervello, partendo dalla sua completa e totale mappatura, per arrivare alla sua riproduzione, incluse le competenze tipicamente “umane” (capacità di risolvere problemi, intelligenza morale ed emotiva…), naturalmente potenziata e migliorata dalle caratteristiche tipiche dell’intelligenza non umana (memoria, potenza, velocità, condivisione di informazioni). «Nei prossimi 25 anni, l’intelligenza non-biologica eguaglierà la ricchezza e la raffinatezza dell’intelligenza umana per poi superarla abbondantemente grazie a due fattori: la continua accelerazione del progresso dell’informatica e la capacità, delle intelligenze non-biologiche, di condividere rapidamente il proprio sapere… Arriveremo al punto in cui il progresso tecnologico sarà talmente rapido da essere incomprensibile per l’intelletto umano non incrementato. Quel momento contrassegnerà la singolarità». Dunque, questi concetti vi paiono incredibili? Anche questo fa parte del quadro: siamo ancora in fase pre-singolarità e i limiti dell’intelligenza umana possono essere superati solo con una grande capacità di astrazione.

INTERNET: NUMERI CHE CRESCONO
La teoria della singolarità è senza dubbio molto affascinante, anche se, come previsto dallo stesso Kurzweil, si fa un po’ fatica a starle dietro. Eppure, riguardo l’evoluzione delle tecnologie, anche noi, anche adesso, avvertiamo un certo disagio nel percepire una velocità di crescita che già esiste e che contamina e modifica tutta la nostra vita; una sensazione di non essere mai abbastanza “sul pezzo”, di essere sempre un pochino più indietro, unita alla desolante consapevolezza che, appena divenuti padroni di una tecnologia, questa sarà già obsoleta. Pensiamo al salto quantico avvenuto negli ultimi venti anni. Negli anni ottanta nessuno avrebbe detto che internet, costituito allora da qualche migliaia di server, potesse diventare un fenomeno di massa. Quando nel 1995 Sergey Brin e Larry Page, poco più che ventenni, cominciarono a studiare il modo per districarsi fra i contenuti della Rete per sfruttare al meglio quello che già allora era un immenso contenitore di informazioni, nessuno avrebbe detto che in un solo decennio quell’esperimento sarebbe diventato Google, un’impresa con diecimila dipendenti sparsi in tutto il pianeta che in Borsa vale più di Walt Disney, Ford e General Motors messe insieme. Anche se le statistiche che vorrebbero inquadrare il “fenomeno internet” risultano spesso poco obiettive, quando non contraddittorie, risulta evidente che tutto ciò che riguarda la Rete continua a registrare segni positivi. Crescono i naviganti, anche se con proporzioni ancora molto legate al livello d’istruzione, e cresce il tempo dedicato alla navigazione. I dati Istat relativi al 2008 sostengono che il 40,2% della popolazione (dai 6 anni in su) naviga in Internet e il 17,7% di loro lo fa quotidianamente. Il Rapporto annuale Censis, raffrontando un periodo di tempo maggiore (2003 – 2007), può parlare di “balzo in avanti” nell’uso di Internet, soprattutto da parte dei giovani italiani tra 14 e 29 anni, la cui utenza complessiva (uno o due contatti la settimana) è passata dal 61% del 2003 all’83% del 2007 e l’uso abituale (almeno tre volte la settimana) dal 39,8% al 73,8%. Secondo una ricerca condotta da Nielsen Online (il servizio di The Nielsen Company per l’analisi e la misurazione certificata di audience Internet, advertising online, video, consumer-generated media, passaparola digitale, e-commerce e più in generale del comportamento dell’utente online) sono aumentati tutti gli indicatori relativi ai consumi internet. Per esempio, analizzando il mese di dicembre, ogni navigatore ha passato nel web 26 ore al mese contro le 20 di dicembre 2007, collegandosi 33 volte e visitando 82 siti, contro le 29 volte e i 66 siti visitati un anno fa. Secondo i dati riportati da Sedo (il più grande portale internazionale per comprare e vendere domini e pagine web su Internet) nel 2008 il numero di domini venduti è cresciuto del 35% rispetto all’anno precedente, mentre il volume totale delle transazioni ha raggiunto i 53.135.710 euro (per curiosità: il dominio più caro del 2008, venduto attraverso Sedo a un prezzo di 1,17 milioni di dollari americani, è stato Kredit.de).

YES, WEB CAN
Oltre a una crescita quantitativa, è importante evidenziare anche una crescita qualitativa nell’utilizzo degli strumenti del web. Sempre secondo i dati presentati da Nielsen Online, il 2008 è stato l’anno di community, blog e social network, un fenomeno che consente di fare almeno due considerazioni. La prima è che la navigazione in rete rientra ormai nei comportamenti consolidati degli utenti, tanto che il legame tra offline e online ne risulta sempre più rafforzato. La seconda considerazione ha a che fare con la “maturità” di utilizzo degli strumenti web, con la capacità di cogliere nella sua pienezza quel nuovo modo di comunicare che sta generando una vera e propria rivoluzione culturale anche nel mondo delle imprese, ribaltando i paradigmi del marketing. I consumatori diventano, finalmente, persone, che tramite il web si confrontano direttamente sugli acquisti esprimendo opinioni e cercando soluzioni “su misura”, tagliando fuori la voce istituzionale delle aziende. Gli “user generated content” (ovvero i contenuti generati direttamente dagli utenti tramite blog, commenti, forum di discussione) stanno acquisendo sempre più importanza nell’orientare i comportamenti di acquisto, tanto da costringere le imprese a interessarsene, trovando nuove modalità di interazione. Per capire quanta potenzialità sia racchiusa nella rete è sufficiente ricordare cosa è capitato alle ultime elezioni americane, nelle quali Barack Obama si è trasformato in un “consumer brand” attraente, globale, riconoscibile e condivisibile. Ha creduto nel modello partecipativo della rete, ne ha assimilato le modalità di diffusione, si è fatto affiancare da una squadra di collaboratori d’eccellenza, del calibro di Chris Hughes, uno dei quattro fondatori di Facebook (24 anni!). È penetrato nell’universo del web 2.0 rifornendo la rete di informazioni, materiali, video, utilizzando i canali di diffusione più tradizionali per i navigatori (come Facebook e MySpace), stimolando conversazioni, raccogliendo opinioni, ascoltando. Ha definito un sito per il social-networking (www.my.barackobama.com, meglio conosciuto come MyBo), strutturato in modo tale da riuscire a mantenere attivi i contatti con milioni di potenziali elettori, tramite conversazioni telefoniche, SMS, email. È riuscito a entrare in contatto (reale, non virtuale) con un numero di persone impensabile senza la rete, favorendone la partecipazione spontanea e diffondendo il proprio “brand” in maniera virale. Tramite microversamenti individuali ha raccolto una quantità di fondi per il finanziamento della campagna elettorale mai raggiunta da nessun altro candidato (a luglio 2008 più di un milione di sottoscrittori avevano versato oltre 200 milioni di dollari). Nel giro di alcuni mesi da Mister Nessuno è diventato il concorrente democratico prescelto per la corsa alla Casa Bianca, superando Hillary Clinton; ora è il primo afroamericano a diventare presidente degli Stati Uniti. Certo, non che il merito sia solo del web, ma che la comunicazione online sia stata fondamentale per il successo di Obama, nessuno lo mette in discussione. Peraltro, anche gli altri concorrenti hanno utilizzato gli stessi strumenti, ma il modo in cui l’hanno fatto è stato differente. Per questo ora il “modello Obama” è diventato materia d’insegnamento presso diverse Università nel mondo. Beh, se non è futuro questo…

di Mia Dell’Agnello

pubblicato su Professione Fitness 2-2009

Dal termalismo tradizionale a quello del benessere

19L’Italia è fra le nazioni maggiormente ricche di acque termali, fonti distribuite su tutto il territorio, con una concentrazione maggiore in Emilia Romagna, Veneto, Campania e Toscana. Dati riferiti al 2005 parlano di 390 stabilimenti termali, di cui 308 attivi, dislocati in 159 località. Sui 308 stabilimenti attivi, 65 sono società di capitali; di queste, solo 19 hanno un fatturato che supera i 5 milioni di euro, mentre 22 aziende (circa il 34%) presentano un fatturato compreso fra 1 e 2 milioni di euro, per un giro d’affari totale del sistema termale pari a 317,9 milioni di euro che, includendo l’indotto, sale a 2.140 milioni di euro (dati relativi al 2002). Nel secondo Rapporto su sistema termale in Italia 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore), per la prima volta si utilizza il concetto di benessere termale, inteso “come prodotto che trae forte valore aggiunto dall’utilizzo di risorse, di strumenti ed esperienze termali: in altre parole si validano e si ca ratterizzano quei trattamenti benessere, che possono essere praticati solo nei centri termali, distinguendoli dagli altri che possono essere effettuati ovunque. Il benessere termale è inteso come superamento e integrazione della distinzione e contrapposizione, fino a oggi esistente, fra la concezione termale tradizionale e quella del benessere”.

UN CAMBIAMENTO FATICOSO
Attualmente quello del benessere termale è un mercato molto dinamico e in forte rilancio competitivo, che sta mettendo in discussione il concetto stesso di terme, tradizionalmente ancorato quasi esclusivamente alla cura della salute fisica, con un’offerta di tipo terapeutico, preventivo o riabilitativo. In effetti, le aziende termali tradizionali erano imprese che gravitavano nel regime protetto del Sistema Sanitario Nazionale, la cui proprietà demaniale e gestione pubblica spesso rappresentava un vincolo per il loro sviluppo. Nel momento in cui si è vista la possibilità di allargare l’offerta termale per accogliere la crescente richiesta di benessere, un ulteriore freno è stato dato dalla diffidenza di chi voleva difendere il valore terapeutico delle acque termali dalle contaminazioni del mercato emergente, visto come minaccia da evitare più che opportunità da cogliere. Atteggiamento, questo, abbastanza comprensibile, considerata l’ambiguità con cui veniva volontariamente condotta la comunicazione del mercato benessere. Una comunicazione che spesso danneggiava le aziende termali, proponendo un utilizzo improprio delle parole terme, termale, spa, ecc., abuso compiuto sia dai centri erogatori di servizi benessere (fitness, estetici, day spa, e altri) che dagli stessi mass media. La confusione generata portò a emettere una legge di riordino del settore termale (L n° 323 del 2000), nella quale è stabilito che:
- acque termali sono “le acque minerali naturali utilizzate a fini terapeutici”;
- cure termali sono “le cure, che utilizzano acque termali o loro derivati, aventi riconosciuta efficacia terapeutica per la tutela globale della salute nelle fasi della prevenzione, della terapia e della riabilitazione delle patologie erogate negli stabilimenti termali”.
Pertanto: “I termini terme, termale, acqua termale, fango termale, idrotermale, idrominerale, thermae, spa (salus per aquam) sono utilizzati esclusivamente con riferimento alle fattispecie aventi riconosciuta efficacia terapeutica”. Una serie di fattori ha contribuito a modificare l’atteggiamento di chiusura nei confronti del nuovo:
- il forte calo di cure termali tradizionali (oltre il 38% dal 1990 ad oggi), sempre meno prescritte dai medici di base e sempre meno finanziate dal SSN;
- il processo di privatizzazione della gestione delle aziende termali che, a partire dal 1997, sta lentamente coinvolgendo tutto il comparto;
- la domanda sempre più pressante di prodotti e servizi legati al concetto di benessere.

IL NUOVO PRODOTTO TERMALE
In alcuni casi la scelta di ampliare l’offerta è stata “tirata” dalle richieste del mercato, senza che ci fosse un chiaro disegno strategico, senza consapevolezza, con un atteggiamento ancora poco orientato al mercato. In altri casi, invece, si è cercato un vero nuovo posizionamento competitivo, che fosse frutto di idonee scelte gestionali. L’implementazione dell’offerta non è di così facile attuazione, sia dal punto di vista strutturale (razionalizzazione di spazi per collocare i nuovi servizi), che organizzativo e gestionale, in quanto richiede un forte cambiamento del sistema di offerta e di vendita del prodotto termale. Nello schema successivo sono riassunte leSchermata 2013-12-16 alle 15.21.11 principali caratteristiche delle differenti tipologie di clienti termali. Rispetto alle imprese che si stanno riposizionando in funzione del benessere, si possono identificare due differenti tipologie:
- realtà orientate al benessere in senso stretto che, accanto ai trattamenti medici tradizionali, offrono pacchetti diffe renziati di trattamenti estetici, fitness e terapie alternative;
- realtà che interpretano il benessere in senso più ampio, come svago, relax, l’”otium” dei latini, e che pertanto sono molto legate alla ricettività turistica e alla capacità di intrattenimento.

TERME E FITNESS
Esistono senza dubbio dei fenomeni di convergenza intersettoriale che coinvolge i clienti dei centri fitness, estetici e termali, volti alla ricerca di un’offerta di servizi sempre più integrata. L’ampliamento dell’offerta da parte degli operatori termali non può comunque prescindere dalla necessità di proporre un prodotto personalizzato, che dipende dalla peculiarità delle singole strutture, dalla qualità delle acque, dalla tipologia di clientela, dall’integrazione con i servizi esistenti e dalle caratteristiche del territorio, evitando il fenomeno dell’omologazione dell’offerta, che così tanto e male caratterizza il mercato del fitness. Anche l’offerta di servizi fitness non può essere proposta indiscriminatamente da tutte le aziende termali presenti sul territorio e deve essere adeguata alle aspettative della clientela, chiaramente diverse rispetto a quelle del cliente abituale del centro fitness. Innanzitutto, il tempo a disposizione per le attività è limitato alla permanenza del soggiorno, quindi il cliente termale non si aspetta miglioramenti visibili, non è alla ricerca di una maggiore tonificazione muscolare o performance, quanto piuttosto di una migliore forma psicofisica generale, associata a una cosciente percezione del proprio corpo. La pratica del fitness in questi luoghi è quasi sempre “light”, e può essere considerata come l’occasione buona per insegnare ad associare il movimento con sensazioni positive e per favorire la socialità. Altro discorso riguarda le attività di fitness inserite nei programmi di dimagrimento, in cui la programmazione rigorosa di attività cardio è strutturata all’interno di percorsi alimentari e trattamenti estetici che devono rispondere alle chiare aspettative del cliente. Forse più che in altri luoghi, gli istruttori devono essere dotati di grande capacità comunicativa, flessibilità ed empatia, oltre che, naturalmente, avere tutte le capacità tecniche necessarie per affrontare una clientela molto differenziata. Molte aziende termali offrono attività open air, favorite dalla location delle strutture immerse in ambienti naturalmente privilegiati o in luoghi interessanti dal punto di vista artistico, storico e culturale. Le proposte variano da lezioni di yoga, stretching e attività a corpo libero, a semplici passeggiate, trekking, escursioni in mountain bike fino ad attività sportive vere e proprie come tennis e golf. In molte strutture, (Terme di Saturnia, Terme Felsinee) la presenza di piscine termali, sia interne che esterne, favorisce la proposta di attività acquatiche, i cui benefici sono da assommare alle numerose azioni biologiche esercitate dalle diverse acque minerali termali: – vasodilatazione cutanea e conseguente riduzione della pressione arteriosa;
- effetto miorilassante e antinfiammatorio;
- effetto fluidificante sulle secrezioni;
- naturale azione di peeling, con proprietà esfolianti, detergenti ed antisettiche.
I corsi di acquagym svolti in acqua termale sono studiati in funzione di specifici obiettivi di salute e benessere: dal lavoro cardio-vascolare e di tonificazione muscolare generale, al miglioramento della mobilità osteo-articolare e delle capacità di coordinazione, alla ginnastica antalgica, per la cura di dolori posturali, reumatismi, artrosi e decalcificazioni ossee, fino al fitness vascolare per chi ha problemi circolatori. In alcuni casi esiste un vero e proprio fitness club all’interno delle strutture, che può essere frequentato indipendentemente dai servizi termali, oppure può essere incluso in alcuni “pacchetti benessere”. È il caso delle Terme di Bormio, Terme di Merano, Istituto Talassoterapico di Grado, Terme Pompeo. In altre strutture, invece, il centro fitness, in genere di dimensioni più modeste, è a uso esclusivo dei clienti termali, spesso accompagnati dalla presenza di un personal trainer. Alcuni esempi sono le Terme di Saturnia, Adler Thermae di Bagno Vignoni, Regina Beauty Fitness and Thermal Resort di Aqui Terme. Nelle sale corsi le attività “body&mind” sono quelle maggiormente proposte, accessibili a tutti e per loro stessa natura perfettamente integrate e in linea con le altre offerte del centro termale: ginnastica dolce, Pilates, Yoga, Pancafit, attività che abbinano benefici fisici e psichici, accompagnate dal tipico ritmo “slow” dell’ambiente termale, e che possono essere facilmente offerte con un approccio attento e personalizzato.

BIBLIOGRAFIA
Evoluzione del settore termale, Mirella Migliaccio, Franco Angeli 2005 Secondo Rapporto su sistema termale in Italia nel 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore) 
Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Professione Fitness 4/2007

Coltivare talenti. Strumenti di fidelizzazione del personale nei centri fitness

aperturaNel settore fitness, la fidelizzazione del cliente è un tema che conosciamo quasi a memoria. Eletto dai vari “markettari” come l’argomento degli argomenti, su di esso si sfidano a colpi di strategie di successo, campagne mirate, tecniche vincenti… I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con una media di fidelizzazione del cliente dichiarata che oscilla fra il 60 e il 65% (quella reale pare, dico pare, che sia decisamente inferiore…). Che sia poco o tanto in termini assoluti non ci è dato di sapere, ma sicuramente è insufficiente per le esigenze del mercato. Dunque, vista la perseveranza con cui ci si ostina ad affrontare l’argomento, perché non proviamo, se non altro, a cambiare il punto di vista, l’oggetto delle nostre attenzioni? Perché non cominciamo a parlare di fidelizzazione dei collaboratori? Il turnover del personale non è negativo di per sé: esistono ruoli e mansioni che, per loro stessa natura, non prevedono un consolidamento all’interno dell’azienda. Ma il problema si pone quando il continuo ricambio di personale diventa un costo eccessivo, un investimento di tempo e denaro che non riesce più a essere ammortizzato. Inoltre, anche nel settore fitness e sport, per una volta, proviamo a usare il termine “Risorse Umane”: buffo, no? Risorse, si usa dire, ovvero “qualsiasi mezzo che ponga in condizioni di affrontare e superare una difficoltà di ordine materiale o spirituale”. Dunque non un centro di costo, ma una risorsa? Strano, questo punto di vista. Bene, per assurdo, continuando su questo percorso, perché non provare anche a considerare che fra queste Risorse ci possono essere dei Talenti, ovvero persone particolarmente dotate di cui non solo riconosciamo l’utilità per l’azienda nel presente, ma di cui intravediamo anche un possibile vantaggio nel futuro? Collaboratori su cui investire per avere poi al proprio fianco persone preparate, di fiducia e responsabili. Una chimera, in un mercato del lavoro precario come questo? Eppure, qualcosa si può fare, oltre al solito quanto svilente mercanteggiare intorno a una tariffa oraria. Esistono strumenti di fidelizzazione un po’ più “evoluti” ed efficaci, e non per questo “costosi” per l’azienda. Ne abbiamo parlato con Lara Carrese, Responsabile delle Risorse Umane DeAgostini (divisione prodotti collezionabili).

Gestione delle risorse umane: da dove partire?
Presupposto fondamentale per tutti i discorsi che ruotano attorno al management del personale è che l’azienda debba porsi un obiettivo specifico, (ad esempio, diventare entro un triennio leader di zona del settore fitness), per il cui raggiungimento è necessario mettere in atto determinate strategie da cui dipende e cui corrisponde una data struttura organizzativa, caratterizzata da specifiche qualifiche, competenze ed esperienze. Una volta definita la strategia di business, è possibile individuare l’assetto organizzativo migliore e i parametri per la gestione delle risorse umane. Normalmente, la retribuzione si basa sul concetto di Total Rewad, ovvero un modello di retribuzione cui contribuiscono: retribuzione base, retribuzione variabile (MBO) e una serie di fattori meno misurabili, ma assolutamente impattanti (social benefits e intangibles).

Come stabilire la retribuzione base?
La retribuzione base deve essere chiara e definita: a un certo tipo di professionalità deve corrispondere un certo tipo di retribuzione. È necessario che le regole del gioco siano inequivocabili e coerenti, per evitare di creare iniquità di trattamento. Una pratica molto utilizzata dalle aziende è quella di individuare diversi scaglioni di categorie professionali, seguendo determinati parametri di riferimento, come gli anni di esperienza, le competenze acquisite, il titolo di studio, esperienze chiave, certificazioni, conoscenze… All’interno di ogni scaglione si stabiliscono quindi delle forbici di retribuzione minime e massime cui attenersi.

In cosa consiste la quota variabile?
La quota variabile della retribuzione è generalmente rappresentata dai “premi aziendali”. Naturalmente, è più facile e immediato stabilire un sistema di premi per chi è a diretto contatto con il mercato, i venditori, i cui risultati sono più facilmente valutabili. Ciò non esclude la possibilità di applicare questo sistema incentivante anche a posizioni di staff meno di linea, ma ugualmente valutabili. A questo punto, però, diventa fondamentale stabilire con esattezza i termini di valutazione. Nel caso della receptionist, ad esempio, dimostrare una “costumer orientation” alta, attraverso la qualità e la tempistica delle risposte, è sicuramente uno dei parametri validi su cui effettuare una valutazione. Il sistema funziona ma, per poter essere applicato con successo, presuppone un fattore fondamentale: un responsabile che sappia porre gli obiettivi in modo chiaro, preciso, inequivocabile e motivante. In caso contrario, risulterà essere solo un passaggio burocratico privo di significati, piuttosto che un boomerang. I premi per obiettivi devono assolutamente essere condivisi; sia che si tratti di obiettivi quantitativi che qualitativi, devono poter essere misurabili. Soprattutto nel caso di obiettivi qualitativi, il rapporto fra valutatore e valutato è un aspetto chiave, che deve essere caratterizzato da una comunicazione costante e trasparente. Solo in questo modo, sia la fase di attribuzione di un valore agli obiettivi fissati che la valutazione finale, potranno essere svolte da entrambi con serena consapevolezza e onestà intellettuale. Il sistema premiante è valido per due fondamentali ragioni: dal punto di vista puramente gestionale/economico, permette all’azienda di toccare solo in modo marginale la quota fissa della retribuzione, consentendo, dal punto di vista manageriale, un controllo dei costi. Allo stesso tempo, permette di motivare le persone rendendole, in un certo senso, corresponsabili della propria performance. Il sistema premiante MBO (Management By Objective), che si aggiunge alla retribuzione base, rappresenta un cambiamento epocale dello stile manageriale, perché si passa dal concetto puro di “obbedienza” alla condivisione di responsabilità, limitatamente, sia chiaro, al raggiungimento dei propri obiettivi, stabiliti di concerto con il datore di lavoro. Sempre parlando di incentivi monetari, si possono stabilire dei “piani di fidelizzazione” rivolti a determinate professionalità, individuate come particolarmente chiave per l’azienda. Ad esempio, molto banalmente, si può stabilire che, dopo tre anni di servizio, al proprio collaboratore sarà riconosciuto un premio pari a una percentuale della sua retribuzione annua, una cifra fissa che lo invogli a restare in azienda, mettendo a disposizione i propri servizi.

Cosa sono i benefits e gli intangibles?
La leva economica è molto utilizzata dalle aziende, ma da sola può risultare inefficace. Spesso è necessario anche utilizzare delle chiavi più “soft”, che agiscono sulla motivazione a rimanere: i benefit e gli intangibles. I benefits sono degli incentivi non monetari rappresentati da strumenti o da servizi che l’azienda mette a disposizione dei propri collaboratori. Strumenti possono essere il cellulare, il PC portatile, l’auto aziendale o, nel nostro caso, attrezzature per svolgere al meglio le sessioni di personal trainig. Servizi sono da considerare tutti quei benefit che facilitano la vita del proprio collaboratore, mettendolo in condizione di lavorare meglio e di migliorare la propria performance. Si basano sul concetto di “Work-life balance”, ovvero riuscire a conciliare con il giusto equilibrio la vita privata e quella lavorativa. Qualche esempio: convenzioni con servizi di lavanderia, possibilità di utilizzare un “factotum aziendale” cui affidare piccole mansioni (pagare le bollette, effettuare consegne), consulenza fiscale. Altro benefit molto considerato è la possibilità di accedere a pacchetti assicurativi agevolati (assicurazione infortuni, mediche, pensionistiche) sia per il collaboratore che per il suo nucleo familiare. Nel caso dei centri fitness, ad esempio, può essere considerato un benefit la possibilità di offrire un certo numero di abbonamenti open al proprio collaboratore per i suoi familiari. Intangibles sono tutti quei fattori intangibili che agiscono come motivazionali e fidelizzanti sui collaboratori: corsi di formazione, piani di sviluppo e crescita, modalità che contribuiscono a creare il senso di appartenenza all’azienda. Fra queste sottolineo sicuramente l’importanza della pratica di “self assesment”, ovvero di autovalutazione. Può essere proposta a tutti i collaboratori con un alto grado di performance, indipendentemente dal loro inquadramento e ruolo. Base di partenza è una sessione di autovalutazione, che ha lo scopo di identificare le aree in cui quella persona ha bisogno di migliorare, di costruire più competenze, che siano manageriali o tecniche. Sulla base del self assesment e nell’ambito delle proprie esigenze strutturali, l’azienda offre la possibilità di intraprendere un percorso di crescita e apprendimento, che si sviluppa tramite corsi di formazione e aggiornamento, delineando piani di sviluppo e carriera per quella persona all’interno dell’azienda stessa. Si crea così una specie di “patto di fiducia” fra il collaboratore e l’azienda, molto fidelizzante e poco oneroso, perché non impatta direttamente sulla retribuzione, ma è considerato un valore aggiunto molto importante. Altro strumento sicuramente fidelizzante è offrire ampliamenti di responsabilità e di “esposizione”, dichiarando qualcuno totalmente responsabile, “proprietario” è il termine che si usa in gergo manageriale, di una determinata area di attività o competenza. Tipico esempio all’interno del centro fitness è l’istruttore in sala pesi che, dopo un certo tempo e a fronte di buone prestazioni, diventa responsabile di tutto il settore tecnico. È una leva motivazionale molto forte, che rende quella persona consapevole del proprio posto nell’azienda; questo avanzamento di carriera, naturalmente, deve andare di pari passo con un’adeguata crescita retributiva.

Qual è il suo pensiero su meeting, convention riunioni incentivanti?
Innanzitutto, io credo che l’aspetto fondamentale sia rappresentato dalla comunicazione interna, che deve essere il più possibile trasparente e condivisa. Condividere informazioni e dati non ha solo il vantaggio di aumentare il livello di efficienza di tutti i comparti, ma ha anche un riflesso molto positivo sul clima interno di tutta la società. Una comunicazione interna ben gestita rafforza il senso di appartenenza all’azienda e questo è importante anche per aziende di piccole dimensioni. Comunicare obiettivi e progetti strategici, richiedere pareri e sollecitare colloqui: tutto ciò contribuisce a creare un senso di consapevolezza e anche, se vogliamo, di orgoglio aziendale. In questo ambito sono assolutamente positivi anche degli incontri periodici, come meeting e convention, che possono anche diventare momenti di condivisione sociale e culturale. Molte aziende propongono meeting sociali obbligatori, organizzati un paio di volte all’anno, in genere in occasione del Natale e prima dell’estate, il cui scopo fondamentale è quello di favorire la socializzazione. Questo tipo di intervento può avere senso solo se supportato da un messaggio aziendale generale e costante di condivisione di visioni e di comunicazione aperta. I momenti di socializzazione in contesti fertili sono positivi, rappresentano un tassello di supporto a una cultura organizzativa basata sulla condivisione e sulla partecipazione. Se non esistono questi presupposti, è meglio lasciar perdere: la Regola d’oro nella gestione del personale, al di là di tutte le teorie, resta ancora quella del buon senso.

LARA CARRESE
10 anni di esperienza, maturata sia in Italia che all’estero, nell’ambito della gestione del personale presso realtà aziendali multinazionali (Deloitte Consulting, Tenaris). Attualmente HR Manager presso la divisione prodotti collezionabili di DeAgostini, con responsabilità su tutti i Paesi nei quali la divisione è presente.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 3/2007

Visite e certificati: obblighi, novità e proposte

doctor“Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…” (D.M. 13/09/2012, art. 7 comma 11). Il decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. Che differenza c’è fra la pratica agonistica e quella non agonistica? Che cosa è cambiato negli ultimi 30 anni e che cosa dovrebbe cambiare? Breve viaggio nella vecchia e nuova normativa alla ricerca di soluzioni di buon senso, che guardino non solo l’interesse dei medici o delle strutture che richiedono i certificati, ma soprattutto l’interesse degli utenti.

 Il nuovo decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. La bozza del decreto, presentata alla fine di agosto 2012 e successivamente modificata, prevedeva che i certificati di idoneità, sia per l’attività agonistica che per la non agonistica, fossero rilasciati unicamente dai medici dello sport. L’intento doveva essere quello di porre una maggior responsabilità su un atto che molto spesso è vissuto, dai medici di base e dai pediatri, come una pura formalità. Il “certificato di buona salute”, così si definisce quello che attesta l’idoneità per le attività non agonistiche, non prevede indagini strumentali, ma neanche uno standard esecutivo per la visita clinica, svolta il più delle volte con superficialità, quando non del tutto assente, a fronte del rilascio di un documento il cui valore è esclusivamente burocratico. Il certificato medico è il foglio che serve per iscriversi a un corso, per svolgere un’attività tutelati da una copertura assicurativa. Davanti alla proposta di Balduzzi, la federazione dei medici di base e alcuni enti di promozione sportiva, sono insorti, dichiarando che in questo modo ci sarebbe stato un aggravio di spesa per i cittadini. Così Balduzzi fa marcia indietro, e nel decreto legge, pubblicato il 13 settembre, art. 7 (Disposizioni in materia di vendita di prodotti del tabacco, misure di prevenzione per contrastare la ludopatia e per l’attività sportiva non agonistica) comma 11: “Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…”. Mentre attendiamo che siano rese note le “linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari”, possiamo evidenziare che il decreto Balduzzi colma il vuoto legislativo che il precedente decreto (già citato D.M. 28/2/1983) aveva lasciato. Lì infatti si legge che il controllo sanitario per la pratica di attività sportiva non agonistica è obbligatorio solo per coloro che svolgono attività organizzate dal CONI, da società o associazioni affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali o agli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI; escludendo di fatto tutti i praticanti in strutture private non affiliate (centri fitness ecc.). La questione non era da poco, essendoci di mezzo anche problemi di responsabilità e assicurazioni. E infatti negli anni le interpretazioni si sono sprecate, dovendosi confrontare anche con normative regionali diverse fra loro.

ATTIVITÀ SPORTIVA AGONISTICA
Nel D.M. 18 febbraio 1982 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica” nell’art. 1. si legge che “La qualificazione agonistica a chi svolge attività sportiva è demandata alle federazioni sportive nazionali; o agli enti sportivi riconosciuti”. Di fatto, le singole federazioni utilizzano un criterio anagrafico: la differenza fra sport agonistico e non agonistico è dettata dall’età del soggetto rispetto allo sport praticato. La definizione non ha niente a che fare con i livelli di intensità o di competitività espressi. Come esempio riportiamo gli anni di ingresso per alcune attività:
8 anni – pattinaggio su ghiaccio, ginnastica, scherma, nuoto;
9 anni – baseball, canottaggio, sci;
10 anni – pentathlon, tennis;
12 anni – atletica leggera, calcio, judo e arti marziali, rugby, pallacanestro, pallavolo.
La visita per l’idoneità alla pratica di uno sport agonistico include indagini strumentali e può essere effettuata solo da specialisti in Medicina dello sport all’interno di strutture accreditate in specifici albi regionali. L’indagine viene svolta tramite esami clinici e strumentali:
- visita medica completa e anamnesi;
- spirometria, con determinazione della capacità polmonare statica e dinamica e della massima ventilazione volontaria;
- elettrocardiogramma a riposo;
- elettrocardiogramma sotto sforzo, indotto dallo “step test”, eseguito per 3 minuti su un gradino di altezza variabile a un ritmo stabilito (per 120 movimenti al minuto) con calcolo dell’IRI (indice di recupero);
- esame delle urine completo;
- acuità visiva.
Per alcune discipline sono poi previste ulteriori indagini specialistiche (per esempio pugilato, sci alpino, attività subacquee). Ogni certificato è specifico per uno e un solo sport. Il costo nelle strutture pubbliche è fisso a tariffa regionale, considerata la quota minima applicabile nelle strutture private. Per esempio in Lombardia gli atleti minori di 18 anni tesserati a una federazione o a un ente di promozione sportiva hanno diritto alla visita gratuita, se richiesta da una società sportiva. Per tutti gli altri le cifre sono variabili, mantenendosi in una media di 50/60 euro per uno screening completo. Al termine della visita viene rilasciato un certificato di idoneità, inidoneità (assoluta o temporanea) o sospensione (per ulteriori accertamenti).

ATTIVITÀ SPORTIVA NON AGONISTICA
La visita per l’idoneità alla pratica di sport non agonistico è di prassi svolta dal medico di base e dal pediatra, è generica e valida per tutte le attività sportive non agonistiche. Non tutti sanno che ci si può recare anche nei centri di medicina dello sport, dove si avrà lo stesso “trattamento” riservato agli atleti agonisti (esami clinici e strumentali di cui sopra per un costo medio di 50/60 euro). Anche il certificato rilasciato dal medico di base e dal pediatra è a pagamento e il costo medio varia fra i 40 e i 50 euro. Ricordiamo che il Decreto Bersani del 2006 ha abolito le tariffe minime degli ordini; tuttavia i medici si attengono, generalmente, a quelle suggerite per “deontologia professionale” dagli ordini stessi, che hanno pubblicato dei tariffari di riferimento. Come già detto, in questo caso è prevista solo una visita clinica e non esistono linee guida a cui attenersi, partendo dal presupposto che il medico conosca il proprio paziente e le eventuali patologie di cui è portatore che possono limitare la pratica sportiva. Ma non sempre è così. La visita sarebbe molto utile anche per evidenziare possibili alterazioni strutturali, soprattutto nel periodo di accrescimento, individuando atteggiamenti posturali scorretti o alterazioni della schiena, ginocchio e piede. Quanti sono i pediatri che di routine eseguono queste verifiche? Inoltre, in base alla morfologia e a eventuali alterazioni rilevate, il pediatra potrebbe indirizzare il proprio paziente alla pratica di uno sport piuttosto che un altro o fornire direttamente consigli alimentari e per migliorare lo stile di vita. Veniamo quindi al concetto più importante: il senso del certificato medico.

NON SOLO PREVENZIONE
Il senso della visita di idoneità alla pratica sportiva (sia agonistica che non) è prima di tutto preventivo: evidenziare eventuali anomalie che possano controindicare, anche solo temporaneamente, l’attività sportiva. Tuttavia, questa chiave di lettura ci sembra oggi riduttiva. Se fino a qualche anno fa la tendenza era quella di escludere dalla pratica di un’attività fisica la popolazione che non veniva riscontrata “sana”, ora c’è piuttosto la tendenza a includere, anzi caldeggiare, quando non addirittura prescrivere l’attività motoria anche e soprattutto alle persone fragili dal punto di vista della salute, portatori di fattori di rischio anche elevati per la diagnosi della sindrome metabolica. A dire il vero, facendo un’ampia panoramica sulla letteratura scientifica internazionale, possiamo tranquillamente affermare che sono ormai pochissime le patologie in cui si vieta un’attività motoria. Questa buona pratica rende tuttavia necessario un maggior controllo che non deve tradursi in eccessivo monitoraggio strumentale, quanto piuttosto in maggiore cura nell’indagine clinica. Se il movimento è anche terapia, il certificato dovrebbe anche indirizzare la scelta della pratica motoria, fornendo indicazioni rispetto al “cosa, come, quando, per quanto tempo”. Ovviamente la questione interessa proprio le attività non agonistiche, in questo momento affidate alla buona volontà di medici di base e pediatri. Spostare integralmente questa responsabilità sui medici dello sport, così come prevedeva la bozza del decreto Balduzzi poi modificata, sicuramente non rappresenterebbe un aggravio economico per gli utenti (come abbiamo visto, il costo di un certificato rilasciato da un medico di base o pediatra e da un centro di medicina dello sport sono rapportabili), ma probabilmente non risolverebbe il problema, venendo a mancare quella fondamentale conoscenza del paziente di cui può giovare il medico di base. Tuttavia, il certificato di buona salute per lo svolgimento di attività non agonistiche non può rappresentare solo una conferma scritta della situazione sanitaria generale del soggetto (che dovrebbe essere già a conoscenza del medico o del pediatra), ma deve scaturire da indagini più approfondite, quanto meno mirate all’individuazione dei fattori di rischio più direttamente in causa negli incidenti legati all’attività fisico-sportiva. Sarà poi lo stesso medico di base, che conosce i propri pazienti, a prescrivere la visita di un medico dello sport là dove riterrà importante approfondire gli accertamenti con esami di laboratorio o visite specialistiche per la “prescrizione di terapia fisica”. In questo caso la documentazione redatta risulterà fondamentale per l’impostazione del lavoro da parte dell’istruttore sportivo. Invece di battagliare per il mantenimento di 50 euro di privilegio, forse varrebbe la pena mettersi a tavolino e discutere di questo, che poi è la salute delle persone, con beneplacito di Ippocrate.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 10/2012

Amarcord

Immagine 1p Appartengo a quella numerosa popolazione di ex sportivi che ha ceduto al lavoro e alla famiglia il tempo per praticare un po’ di attività fisica, ma ha serbato la coscienza di quanto ci si senta bene in seguito a una sgambata o una nuotata. Dopo aver tergiversato per anni cercando di incanalare i miei sensi di colpa in sedute di pseudo jogging, molto spesso ostacolate dal meteo, dalle cattive condizioni ambientali (Milano!) e dalla generale fatica del vivere, decido di iscrivermi in palestra. Beh, a dire il vero non è stato così immediato: diciamo che un’offerta promozionale e la complicità di un’amica hanno fatto la differenza. La palestra si trova proprio vicino a casa, è molto grande e sulla carta offre tutti i servizi che uno potrebbe desiderare da un moderno centro fitness, pardon wellness (o forse nothingness?): enorme sala pesi, diverse sale corsi con una programmazione fittissima, sauna, bagno turco, vasca idromassaggio, piscina… Il costo dell’abbonamento per 12 mesi è di 499 euro e può anche essere utilizzato da 2 persone, 6 mesi ciascuna. Se a questa cifra aggiungiamo 60 euro di tassa d’iscrizione siamo a 310 euro per un abbonamento semestrale open, dalle 7 di mattina alle 23, sabato e domenica inclusi: wow! Lo start up non è così immediato e infatti passano un paio di settimane dall’acquisto (fatto on line) a quando io e la mia amica ci presentiamo in palestra, con il nostro coupon e il certificato medico. Sono le 11,30 di mattina e c’è già un bel viavai. Noi ci siamo portate tutto l’occorrente per iniziare la nostra nuova attività: scarpe, tuta, asciugamani. Siamo determinate, ma non abbiamo tenuto conto delle procedure burocratiche. Passiamo prima alla reception, consegniamo coupon e documenti, recitiamo i nostri dati anagrafici al diligentissimo boy che, dopo aver sbrigato le sue pratiche, ci fa accomodare sui “divanetti”. Da lì, un altro boy ci invita al tour della palestra e quindi ci prega di seguirlo nel suo ufficio, dove ci attende un’altra compilazione di fogli, con il contratto e il regolamento da firmare. Nel frattempo ci spiega che, se vogliamo, possiamo pagare altri 90 euro, di cui 60 per fare la visita medica e 30 per avere 3 sedute con il personal trainer. Ma noi il certificato medico l’abbiamo già e quindi si volatilizza anche l’offerta del personal trainer. A questo punto mi sorge un dubbio, ma so che è solo uno scrupolo, una domanda oziosa, comunque la faccio lo stesso:
«c’è qualcuno in sala pesi che ci prepara una scheda per cominciare?» 
Il boy numero 2 mi guarda come se gli avessi chiesto se in sala c’è qualcuno che può tagliarmi i peli del naso e mi dice:
«ma certo che no! Voi potete seguire i corsi di gruppo, lì c’è l’istruttore; in sala pesi potete andare, ma la scheda di allenamento la deve preparare un personal trainer!» 
Io insisto, veramente sbigottita:
«ma come… da quando funziona così?» 
«Ma da sempre!»  risponde lui.
Allora mi impunto, perché io in un certo senso sono del mestiere:
«eh no, scusa, ma prima non era così!». E lui:
«allora diciamo che adesso abbiamo deciso che non è più così!»
Appunto. Sconsolante, ma non mi faccio fregare ora che, dopo anni di rimuginio, sono qui, con il mio bel abbonamento attivato! Anzi, sento di dover rincuorare anche la mia amica, così le dico: «non ti preoccupare, te la preparo io una scheda di allenamento!» in fondo dovrò solo rispolverare le mie conoscenze… Ma continuo a pensare a una sala pesi senza istruttori… non mi par vero…
«Scusa, ma se qualcuno fa degli esercizi sbagliati e magari si fa male?» 
«Vabbè, per quello c’è un assistente di sala, che controlla».
Ah ecco, ora è l’assistente di sala, un po’ come quello di volo, che magari ti indica anche le uscite di sicurezza. Nel frattempo il ragazzo finisce di preparare gli incartamenti e io a questo punto fremo di trepidazione, ma lui sorride e dice
«Prego, accomodatevi sui divanetti: una collega sarà presto da voi!».
Maledetti divanetti. Attendiamo ancora 5 minuti, finché la collega ci invita nel suo ufficio. Sta per chiederci di nuovo i dati, ma un moto d’imbarazzo la trattiene e ci confida che ora possiamo dire solo i nostri cognomi. Tutta fiera, verifica il resto dell’anagrafica al computer e ci stampa i tesserini. Ora è il momento dell’offerta strepitosa: solo per qualche giorno un nostro familiare o amico potrà usufruire della nostra stessa agevolazione, ma con uno sconto addizionale di 100 euro, ovvero: 399 euro + 60 di iscrizione per un abbonamento annuale open! Me lo faccio ripetere perché non ci credo, così lei lo scrive sul foglio che ha davanti e che poi mi consegna. Sono basita: ma le cose vanno così male, allora? Eppure non si direbbe: tre persone per completare un’iscrizione già effettuata on line… Mah. Nel frattempo si è fatto tardi, è passata più di un’ora da quando abbiamo varcato la soglia del centro fitness, ovvero il tempo a nostra disposizione per l’allenamento. La mia amica prende la sua borsina fitness, mi saluta e se ne va. Io non mollo: volevo ricominciare oggi e oggi ricomincio, anche se ho poco tempo. Gli spogliatoi sono enormi, con file e file di armadietti a disposizione: peccato che le docce siano fredde! Le signore si lamentano, ma dicono che la caldaia si sia guastata… Pazienza, mi farò la doccia a casa. Mi cambio e vado. Una sala pesi gigante, piena di macchine di ogni tipo. Istruttori: neanche l’ombra. Decido di fare una lezione di gruppo, giusto per partire soft: ce ne sono tre in programma, basta scegliere! Gli istruttori sono in postazione, ognuno nella sua sala corsi, peccato che non ci sia neanche un allievo! E così mi defilo anch’io: una lezione di aerobica o di spinning da sola… te la vedi la tristezza? Bene, non importa! Si è liberato un tapis roulant, quindi mi ci fiondo. Poi ho in mente un programmino interval training leggero, così, poche stazioni, lavoro sui grandi gruppi muscolari, esercizi poliarticolari… E intanto osservo. Una signora in piedi davanti alla lat machine si è appesa alla sbarra e, con le gambe e le braccia belle tese, flette il busto in avanti e ritorna su, soffiando e sbuffando come una locomotiva: ma povera schiena! Un anziano, ma anziano per davvero, ha deciso di farsi tutto il circuito Selection, proprio stamattina, e ora si accanisce sulla shoulder press. Ha selezionato un peso chiaramente esagerato per lui, ma non ne vuole sapere di arrendersi: rosso come un pomodoro, le vene gonfie, il viso contratto in una smorfia di massimo sforzo. Mi sembra di sentire la sua dentiera scricchiolare nella morsa serrata della mandibola. Si aggrappa alle maniglie e spinge con tutto quello che ha a disposizione: inarca la schiena, si solleva dal sedile puntando i piedi. Il pacco pesi viene abbandonato a metà corsa e cade con un rumore orrendo che fa sobbalzare tutti i presenti, ma lui indefesso ricomincia e via! un altro SBAAANG rieccheggia, terribile premonitore di sciagure. Invece niente: il nonnetto è sopravvissuto, anche questa volta. In compenso, l’istruttore non è comparso, neanche al richiamo di un rumore così, diciamo, sospetto. Io ho finito il mio allenamento e me ne vado, scivolando via in quel deserto di corpi, senza neanche sentire il bisogno di salutare qualcuno.

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Anche quando io lavoravo in un centro fitness c’era il nonnetto. Lo chiamavamo Capitan Trombetta, perché ogni volta che si cimentava con gli esercizi addominali scorreggiava rumorosamente. Lui ci rideva e anzi, questa sua ironia aveva portato una nuova confidenza in palestra, che aveva contagiato tutti quanti. Non c’erano hostess, né consulenti di vendita, ma solo la ragazza che stava alla reception: con lei il nuovo cliente faceva “il giro” della palestra e poi compilava il foglio di iscrizione, mentre lei preparava la tessera. Un quarto d’ora al massimo e fine delle pratiche. Gli istruttori in sala pesi c’erano sempre, e il loro numero era in base al numero di frequentatori: al mattino uno, due nella pausa pranzo e nelle ore serali erano quattro, di cui uno era un fisioterapista. Non c’erano personal trainer, né wellness trainer, né assistenti di sala. C’erano le schede prestampate, è vero, ma spesso erano solo un punto di partenza su cui costruire dei moduli personalizzati. Gli istruttori parlavano con le persone, non necessariamente di allenamento, anzi: parlava proprio di tutto. Intessevano relazioni. Peccato che poi qualcuno ha cominciato a chiamarli “centri di costo”. Mi ero ripromessa di non fare l’”amarcord”, la nostalgica, quella che “si stava meglio prima”, che per di più non è proprio nella mia natura. È che proprio non ce la faccio. Perché, fra l’altro, la palestra che ora frequento è la stessa in cui lavoravo, circa vent’anni or sono: mannaggia alla vecchiaia!

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 11/2011