Archivio della categoria: salute

Doping: ora lo xenon nella lista Wada delle sostanze proibite

Lo xenon (o xeno) è un gas nobile presente a tracce nell’atmosfera terrestre. Tramite scarica xenonelettrica produce una luce azzurra e questa sua proprietà l’ha reso famoso per la fabbricazione di lampade, flash per la fotografia, luci stroboscopiche, laser ecc.
Lo xenon è dotato anche di proprietà biologiche grazie alle quali viene utilizzato come anestetico, ma non è tutto. Pare, infatti, che funzioni anche come attivatore di una proteina (HIF-1 alfa) che a sua volta attiva la produzione di altre proteine, fra cui l’epo. Un documento del 2010 redatto dal Research Institute del Ministero della Difesa russo definisce le linee guida per la gestione del gas negli atleti. Lo xenon deve essere utilizzato prima delle gare per migliorare le prestazioni e, successivamente, per accelerare il recupero fisico. La dose raccomandata è una miscela 50:50 di xeno e ossigeno, inalato per pochi minuti, preferibilmente prima di andare a dormire. L’azione del gas continua per 48-72 ore.
I benefici verificati sono: il miglioramento delle capacità cardiache e polmonari, la riduzione dell’affaticamento muscolare, l’aumento di testosterone e il miglioramento dell’umore.
Alle olimpiadi invernali di Sochi, l’emittente tedesca WDR accusò la Russia di utilizzare inalazioni di xenon per favorire la produzione di epo negli atleti. Vladimir Uiba, il capo dell’agenzia federale biomedica russa, si difese allora dichiarando che in realtà le inalazioni di xenon non erano vietate dalla Wada e che non c’era nessuna prova scientifica che attestasse la validità dello xenon rispetto alla produzione di epo negli esseri umani (gli studi sono stati effettuati solo sui topi). Inoltre, l’inalazione di xenon pare avere gli stessi effetti fisiologici che si possono ottenere tramite l’allenamento in quota, pratica legale e mai contestata.
Di fatto, dal momento che lo xenon viene inalato per potenziare artificialmente l’assorbimento, il trasporto e la consegna di ossigeno, è difficile pensare che non si tratti di una pratica di dubbia legalità. E infatti il presidente dell’agenzia mondiale anti-doping, Craig Reedie, al termine delle olimpiadi di Sochi aveva promesso di analizzare la situazione e prendere relativi provvedimenti. Così è stato fatto e il 17 maggio il Comitato Esecutivo Wada ha approvato la modifica della lista delle sostanze proibite introducendo lo xenon fra gli stabilizzanti e attivatori dell’eritropoiesi. Le modifiche entreranno in vigore fra tre mesi e tutti i risultati precedentemente ottenuti sono da considerarsi legali.

 

La supplementazione di vitamina D è più utile alla salute del consumatore o a quella delle case farmaceutiche?

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Euromonitor International, società indipendente leader mondiale nella ricerca strategica per i mercati consumer, ha recentemente pubblicato uno studio interessante relativo al consumo di vitamina D e alle evidenze scientifiche a essa associate.
Il mercato delle vitamine e degli integratori alimentari è quello con il trend maggiormente positivo nel settore dei consumi legati alla salute. Analizzando i diversi prodotti, la vitamina D ha registrato il tasso di crescita più elevato dal 2007, pari a un CAGR (Compounded Annual Growth Rate) del 20%. Il forte aumento di fatturato (US $ 934 milioni/anno) ha permesso di tamponare la riduzione di vendite di supplementi più maturi come i minerali, la vitamina C, gli oli di pesce e acidi grassi omega.

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Consumo globale di vitamine e integratori alimentari al dettaglio: valore delle vendite e crescita , 2007-2012 (Euromonitor International)

L’origine del successo della vitamina D è una reputazione molto positiva, ben radicata negli anni e scaturita da numerosi studi che attribuiscono a questa vitamina (in realtà si tratta di un gruppo di pro-ormoni liposolubili costituito da 5 diverse vitamine), un ruolo fondamentale per il benessere delle ossa, in un delicato meccanismo di equilibrio con il calcio. La vitamina D favorisce il riassorbimento di calcio a livello renale, l’assorbimento intestinale di fosforo e calcio e i processi di mineralizzazione dell’osso. Si ottiene grazie all’esposizione solare e attraverso la dieta: olio di fegato di merluzzo, salmone, aringhe, il latte e i suoi derivati, uova, fegato e le verdure verdi.
La vitamina D è una sostanza nutriente importante per la salute delle ossa e fondamentale nella lotta contro l’osteoporosi, ma recenti ricerche ne indicano la validità anche per altre malattie come il cancro, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson, l’obesità.
Così tanti studi indicano l’importanza di mantenere adeguati livelli di vitamina D nella prevenzione primaria e secondaria, che questo micronutriente è diventato una celebrità: medici ed esperti lo elogiano come un elisir meraviglioso e ne propagandano l’assunzione, come essenziale per la nostra salute.

IL CONTRADDITORIO
Recentemente è stato pubblicato su The Lancet Diabetes & Endocrinology uno studio che mette in discussione le conclusioni suggerite dalle precedenti pubblicazioni sulla vitamina D. Nello studio “Vitamin D status and ill health: a systematic review”, i ricercatori hanno esaminato i dati di 462 studi condotti in precedenza sugli effetti della vitamina D rispetto ai diversi indicatori di salute (a esclusione del sistema scheletrico). Il 63% degli studi esaminati erano di osservazione, mentre gli altri erano d’intervento. I primi hanno evidenziato che esiste una forte associazione tra stato di salute e concentrazione di vitamina D nel sangue: meno vitamina corrisponde a meno salute. Tuttavia, l’altro 37% degli studi analizzati, che erano d’intervento e quindi più affidabili per stabilire una relazione causale, non ha provato nessuna connessione fra aumento di vitamina D e diminuzione della malattia. Il team di ricercatori concorda nell’affermare che la carenza di vitamina D è un indicatore di cattiva salute, conseguenza e non causa, di una vasta gamma di malattie.
Un altro studio pubblicato recentemente su Lancet, “Effects of vitamin D supplements on bone mineral density: a systematic review and meta-analysis”, ha messo in discussione anche la raccomandazione medica di lunga data che le popolazioni più anziane dovrebbero assumere vitamina D per mantenere l’osso e la salute dello scheletro. I ricercatori hanno analizzato 23 studi precedenti e hanno trovato pochissime evidenze sul beneficio complessivo della supplementazione di vitamina D sulla densità ossea. Pertanto la supplementazione di vitamina D non è necessaria in adulti anziani che non presentano rischi specifici correlati alle ossa, che si espongono normalmente alla luce solare e hanno una dieta equilibrata. Il costo associato all’assunzione di questo supplemento, concludono gli studiosi, non è giustificato.

IN ITALIA
L’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) tramite l’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (Osmed) presenta a cadenze semestrali i dati sull’utilizzo dei farmaci in Italia in termini di spesa, volumi e tipologia. I numeri sono anche analizzati e interpretati per correlare la prevalenza delle patologie nel territorio con la corrispondente prescrizione e valutare eventuali modifiche d’indirizzo, anche in un’ottica di spending review.
Presentando l’ultimo rapporto nazionale OsMed il direttore generale dell’Aifa Luca Pani, ha sottolineato la necessità di vigilare sul possibile utilizzo inappropriato della vitamina D, il cui mercato in Italia ammonta a 187 milioni di euro su base annua. «L’AIFA ha guardato con attenzione i dati e ciò che emerge è che ad essere in aumento è il consumo di vitamina D da sola (+17,6% rispetto al 2012), mentre è in riduzione il consumo di farmaci a base di calcio in combinazione con Vitamina D (-3,6% rispetto al 2012) e quello del calcio da solo è costante. In poche parole ci troviamo di fronte a prescrizioni di Vitamina D non appropriate, ad esempio per le diete dimagranti, non sostenuto dalle evidenze scientifiche».

IL FUTURO DELLA VITAMINA D
La spinta per la prevenzione sanitaria e l’attenzione alla salute sono dei volani importanti per il mercato dei supplementi e degli integratori alimentari. Tuttavia la popolarità di questo o di quel prodotto è assai labile e può cambiare in base a nuovi risultati della ricerca, spinta anche e soprattutto da logiche di mercato che nulla hanno a che fare con la salute dei consumatori. Attualmente sono in corso cinque studi clinici controllati randomizzati che stanno testando l’efficacia della vitamina D. I primi risultati non saranno disponibili fino al 2017: nel frattempo il consumo di supplementi di vitamina D crescerà ancora raggiungendo 1,3 miliardi di dollari di vendite globali al dettaglio dentro il 2017 (nel 2007 erano $ 315 milioni).

 

Integrazione alimentare: che Zibaldone!

11617.14425Poco più di un anno fa Federsalus (Federazione Nazionale Produttori Prodotti Salutistici) ha presentato una ricerca, realizzata da Eta Meta Research, dal titolo “Il consumo di integratori alimentari in Italia”, volta a indagare l’universo dei consumatori (abituali o saltuari) di integratori alimentari. I dati emersi indicano innanzitutto che si tratta di un fenomeno consolidato, che trova nella ricerca della salute e del benessere psico-fisico la sua motivazione principale. Gli integratori più utilizzati sono soprattutto a base di vitamine, sali minerali (52,5%) e fermenti lattici (36%), seguiti da crusche e altre fibre/lieviti (15,9%) e prodotti energetici sportivi (14,4%). Questi ultimi sono scelti prevalentemente da un pubblico maschile, anche se, in genere, è il sesso femminile a utilizzare maggiormente gli integratori alimentari. A completare il profilo del consumatore, un livello di istruzione medio-alto, con buona predisposizione allo sport e alla cura dell’alimentazione. La maggioranza degli utilizzatori intervistati ne fa un uso regolare da oltre due anni e per gli acquisti si fa consigliare dal medico o dal farmacista, anche se è molto in uso la pratica del “fai da te” e del “passaparola” (quasi il 36% degli intervistati, percentuale che quasi raddoppia fra gli acquirenti del supermercato).
Dai dati presentati emergono due aspetti fondamentali. Il primo, riguarda l’interesse vivo e in crescita nei confronti degli integratori, interesse che non riguarda solo il target degli sportivi, ma fasce sempre più ampie di popolazione; il secondo aspetto pone in primo piano il valore fondamentale della comunicazione e la conseguente necessità di fornire informazioni corrette. In realtà, indagando sia le informazioni che passano attraverso i mass media, che quelle dei canali scientifici “ufficiali”, se ne ricava un quadro molto confuso, quando non contraddittorio, in cui è spesso difficile orientarsi.

L’AMBIGUO MONDO DEI MICRONUTRIENTI
La ricerca nel campo della nutrizione vanta una produzione vastissima di lavori ed è in continua evoluzione, ma questo può spiegare solo parzialmente la difformità di giudizio che emerge, soprattutto a proposito dell’integrazione alimentare dei micronutrienti, fra cui le vitamine rappresentano le sostanze più dibattute. Sono stati realizzati moltissimi studi che definiscono le vitamine “alimenti miracolosi”, così come altrettanti le dichiarano dannose per la salute. In tutti i casi, gli studi sono sempre suffragati da “evidenze scientifiche”. La Vitamina C, secondo le annate, è stata vilipesa o idolatrata. Diventata famosa quale antidoto per il raffreddore, è stata successivamente definita una vitamina “patetica” per la sua inutilità, quindi accusata di far venire il cancro se presa in dosi eccessive, quindi dichiarata in grado di uccidere le cellule cancerogene, se assunta per endovena in dosi elevate. Stessa sorte per la Vitamina D, che la pelle sintetizza come reazione fotochimica all’esposizione ai raggi di luce ultravioletta provenienti dal sole: dopo il grande interesse suscitato negli anni ‘20 per combattere il rachitismo, e il relativo disinteresse nei decenni successivi, è stata nuovamente riesumata per i suoi sorprendenti effetti anti cancro. Strettamente connessa all’osteoporosi, influenza la capacità dell’organismo di utilizzare il calcio. Anche a proposito dell’integrazione alimentare di calcio gli studi scientifici hanno dato risultati spesso contraddittori. Per anni consigliato per la prevenzione e cura dell’osteoporosi, è stato successivamente messo sul banco degli imputati. Uno studio epidemiologico condotto sulla popolazione femminile americana evidenziava percentuali di osteoporosi da record, nonostante i quantitativi di calcio assunti fossero fra i più alti al mondo. Altri studi rilevarono che il calcio preso in eccesso e non assorbito, poteva avere delle conseguenze anche importanti, come l’artrosi, i calcoli renali fino al favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Dunque, si affermò che il calcio non poteva essere assorbito nelle ossa senza l’aiuto del magnesio, dando il via a una nuova produzione di studi volti a suffragarne i grandi poteri: non solo si dimostrò che rallentava la perdita di massa ossea, ma addirittura invertiva il processo di osteoporosi, oltre ad aiutare la prevenzione delle malattie cardiache. Stessa grande confusione anche per quanto riguarda gli intermedi metabolici carnitina e creatina; basti dire, a proposito di quest’ultima, che in Italia il suo consumo è lecito, mentre in Francia è vietato e punito dalla legge sportiva.

FRA MEDICINA E ALIMENTAZIONE
Nel 2002, per uniformare le differenti leggi nazionali e proteggere la salute dei consumatori, è stata emanata la direttiva europea sugli integratori alimentari. Quando la direttiva è stata approvata, alcune questioni importanti sono state rimandate a decisioni future, fra cui i limiti di dosaggio di vitamine e minerali contenuti negli integratori e le fonti di nutrienti da permettere in questi prodotti. A distanza di sei anni, non è ancora stata presa alcuna decisione in merito, e non è difficile capire il perché. Gli integratori alimentari sono disciplinati dalla legislazione sui prodotti alimentari, perché non è riconosciuto loro nessun effetto terapeutico: eventuali indicazioni relative a cura o prevenzione di malattie farebbero rientrare il prodotto nel quadro legislativo dei medicinali. Dunque, si presuppone che l’alimentazione non abbia niente a che fare con la salute: il quadro legislativo dei medicinali, coerentemente, non ha posto per i nutrienti, quindi non si prevede che una sostanza nutriente, anche in forma concentrata, possa avere qualche effetto su una malattia specifica. Partendo da questi presupposti, è difficile stabilire dei limiti di dosaggio. Il contraddittorio di fondo è che da una parte si riconosce l’importanza di una corretta alimentazione per la salute e la prevenzione di alcune malattie, mentre dall’altra si impedisce qualsiasi informazione sulle proprietà dei nutrienti in questo senso. Inoltre, i limiti di dosaggio dovrebbero presupporre un’evidenza scientifica riguardo la dannosità di un nutriente oltre determinati dosaggi, evidenza che, a oggi, non è ancora stata dimostrata. Trattandosi di alimenti, dunque, la decisione se e in quale dose assumerne dovrebbe rientrare nella sfera delle decisioni personali, non certo imposta da direttive governative o sovranazionali. Anche in Italia gli integratori sono considerati come prodotti appartenenti all’area alimentare. Riguardo i livelli di assunzione massima giornaliera, si fa riferimento all’indicazione orientativa e generica di attenersi entro limiti di sicurezza (upper safe level), tenendo in considerazione le RDA (recommended dietary allowances). Eppure, nonostante siano considerati come prodotti alimentari, gli integratori, se assunti a scopo curativo, sono detraibili (fonte: rivista “Primo Piano Fiscale”), quindi considerati come i medicinali. L’Agenzia delle Entrate, infatti, ha affermato che “i prodotti detti integratori alimentari se prescritti da un medico specialista a scopo curativo possono essere detratti ai sensi dell’art. 15 del TUIR. La stessa cosa vale se a prescriverli è il medico di base”. Per la detrazione fiscale occorre lo scontrino fiscale parlante, ossia lo scontrino che indica il nome del prodotto, la natura e la quantità, e il codice fiscale dell’assistito, allegando preferibilmente la prescrizione medica (come avviene per la detrazione di tutti i prodotti non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale).

INTEGRAZIONE SPORTIVA
Nel 2006 è stata condotta un’indagine su oltre 1500 atleti dalla Commissione di Vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute e delle attività sportive del Ministero della Salute (CVD). Il 64% del campione dichiarò di aver assunto prodotti farmaceutici, compresi omeopatici (soprattutto antinfiammatori), e prodotti salutistici in genere, nelle due settimane antecedenti il prelievo. Il 30% dei prodotti salutistici assunti sono rappresentati prevalentemente da sali minerali, vitamine, aminoacidi e derivati, estratti erboristici e da integratori alimentari, ovvero formulazione di varie associazioni di tutti questi prodotti. A farne largo uso sono atleti e sportivi, professionisti e dilettanti, che alimentano un mercato di dimensioni sempre più importanti e con ottime prospettive di ulteriore espansione. Ma se da una parte l’integrazione può costituire un’effettiva necessità, giustificata ed efficace, dall’altra può anche essere inutile ed eccessiva, se non addirittura illegale: il confine tra integrazione lecita e illecita è molto sottile, tanto che la sola definizione risulta estremamente difficile, a partire dal termine stesso di “integrazione”. Con questa parola ci si riferisce al fatto che, durante l’attività sportiva, si consumano sostanze biologiche che poi devono essere reintegrate, supportando i processi naturali fisiologici con aiuti specifici esterni. Eppure, durante l’attività fisica sono diverse le sostanze consumate, incluse quelle ormonali, e questo non può rappresentare un valido motivo per assumere, per esempio, testosterone o GH. Nelle “Linee Guida su integratori alimentari, alimenti arricchiti e funzionali” pubblicate dal Ministero della Salute, si definiscono integratori o complementi alimentari quei “prodotti che costituiscono una fonte concentrata di nutrienti o sostanze a effetto fisiologico, sia mono che pluricomposti, destinati a integrare o a complementare la dieta. Sono presentati in forma di tavolette, capsule, compresse, flaconcini e simili per fornire un apporto predefinito di nutrienti e/o di sostanze a effetto fisiologico”. Nella denominazione deve figurare la dizione “integratore alimentare” o “complemento alimentare”. Sono suddivisi in:
- integratori di vitamine e/o di minerali;
- integratori di altri “fattori nutrizionali”;
- integratori di aminoacidi;
- derivati di aminoacidi;
- integratori di proteine e/o energetici;
- integratori di acidi grassi;
- integratori a base di probiotici;
- integratori di fibra;
- integratori o complementi alimentari a base di ingredienti costituiti da piante o derivati.
Gli integratori alimentari sono naturalmente acquistabili senza prescrizione medica e sono liberamente venduti in farmacia, supermercati, erboristerie, palestre e negozi specializzati. Questa notevole disponibilità ha contribuito a generare molta confusione rispetto alla loro funzione ed efficacia, oltre che un certo avventato pressappochismo riguardo a posologia e modalità d’uso. Soprattutto in riferimento ad alcune categorie di prodotto ci si trova spesso davanti a scelte insidiose, su una linea borderline fra lecito e illecito difficilmente identificabile. Si tratta di un settore in continua evoluzione, in cui, di fatto, la legittimità si basa più su questioni etiche che scientifiche e per questo risulta difficilmente ingabbiabile in una normativa che non lasci spazio alla libertà d’interpretazione e all’abuso. Appellarsi al buon senso, come spesso accade, risulta la migliore soluzione.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 3/2008 

Quando il corpo e la prestazione diventano un’ossessione

Immagine 1Il corpo è diventato un campo di battaglia: non riusciamo più ad accettarne il naturale sviluppo, ognuno con il suo bagaglio genetico, ognuno secondo i propri limiti. Il corpo perde il suo valore nel presente e diventa un progetto su cui perseverare, inseguendo un’idea, una rappresentazione che nulla ha a che fare con la materia che abbiamo a disposizione. Il corpo è diventato il centro di tutto, occupa lo spazio dei pensieri anche perché, dicono i sociologi, rappresenta l’unico punto fermo in una realtà “liquida” che di punti fermi non ne ha più. Il corpo viene tatuato, schiarito, scurito, ridisegnato, gonfiato, sgonfiato, tagliato e ricucito, sottoposto a regimi alimentari che stenta a sopportare, a fatiche fisiche, cure dolorose. Il corpo ingurgita farmaci, per trovare un rimedio chimico a qualsiasi difficoltà, per inseguire un miracolo o solo per alleviare sofferenze da noi stessi provocate. E sarebbe ingenuo non considerare quanto incidano, su questi cambiamenti sociali, gli interessi di Big Pharma, le grandi case farmaceutiche che investono molto più denaro in marketing che in ricerca e sviluppo, i cui guru della comunicazione sono spesso orientati alla creazione di nuove malattie, o all’allargamento dei loro target con l’inclusione di fasce sempre più ampie di popolazione. La timidezza diventa fobia sociale, la tensione premestruale diventa una sindrome. La menopausa, anziché un normale processo fisiologico, è una malattia da deficienza ormonale. Osteoporosi, ipertensione, colesterolo alto: i fattori di rischio si sono trasformati essi stessi in malattie, ovviamente croniche, e per questo molto remunerative. Nelle linee guida, spesso scritte con le penne delle case farmaceutiche, il confine della normalità di alcuni parametri si sposta sempre più, in modo da aumentare il numero di malati e quindi il bacino d’utenza dei farmaci. Secondo le ultime classificazioni dei livelli di colesterolo, sarebbero circa 40 milioni gli americani che necessitano di cure, mentre il 90% degli anziani sarebbe colpito dall’ipertensione. Normalissime esperienze umane sono vendute come sintomi evidenti di qualche malattia: essere sovrappeso, perdere i capelli, essere timidi, tristi, insoddisfatti delle proprie prestazioni sessuali… le case farmaceutiche sono sempre a caccia di nuove malattie, e noi siamo ben disposti al gioco, pur di avere una facile soluzione per tutto ciò che non ci soddisfa. È la nuova tossicodipendenza, fatta di psicofarmaci, perché la medicalizzazione del disagio è socialmente accettata e la sostanza viene assunta non per fuggire (come nel caso degli stupefacenti), ma per “guarire” il disagio stesso. Quando la ricerca della salute giunge a livelli estremi e ossessivi, diventa essa stessa fonte di malattia.
ragazza schiena 2Anche nello sport stiamo assistendo a un fenomeno di medicalizzazione pericoloso, non solo nella sostanza, ma anche nella forma, come approccio comportamentale, perché suggerisce l’assunzione di “altro” e coinvolge anche e sempre più lo sport non agonistico e gli atleti di giovane età. Si fa spesso ricorso ad aiuti esterni per un corpo che non ce la fa a rispondere ad aspettative elevate: dagli integratori ai farmaci fino ad arrivare al doping, la priorità non è la salute di quel corpo, quanto il risultato che quel corpo può raggiungere. Così il corpo è un terreno su cui esercitare il proprio controllo: un corpo che deve diventare indifferentemente più veloce, più muscoloso, più resistente, più magro, più bello. Impossibile non individuare un filo conduttore comune fra queste diverse espressioni di “eccesso”, che qualcuno definisce “patologie dell’immagine” in cui, dai disturbi alimentari per arrivare al doping, si delinea una dinamica psicologia analoga, ove la dipendenza da un oggetto esterno, sia esso cibo o sostanza chimica, porta con sé una valenza distruttiva, vissuta in modo compulsivo. Una dinamica psicologica che trae sostentamento e forza dagli stessi input sociali e dai medesimi modelli comunicativi. In tutto questo pensiamo che il fitness giochi un ruolo fondamentale. Per discostarsi da quel modello, e per non contribuire a questo gioco al massacro è importante, crediamo, una presa di posizione netta, che mira ancora una volta al riconoscimento del centro fitness come luogo dove si va per stare meglio, partendo dal corpo per arrivare alla testa. Il ruolo educativo è, a questo punto, inevitabile nei confronti di tutti coloro che vi approdano, attirati come mosche al miele. Anoressiche, bulimiche, ortoressici, body builder estremi, malati della forma a tutti i costi, atleti, che dal loro corpo pretendono ciò che naturalmente non riusciranno mai a ottenere, impantanati in un gioco perverso di cui spesso chiedono al professionista del fitness di tracciare le regole: consigli alimentari, supplementazioni, tabelle di allenamento, tutto può diventare strumento atto allo scopo. Da questo gioco è bene prendere le distanze, prima che qualcuno possa trasformare il fitness in una malattia e le palestre in luoghi di perdizione.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Professione Fitness 4/2009

Dal termalismo tradizionale a quello del benessere

19L’Italia è fra le nazioni maggiormente ricche di acque termali, fonti distribuite su tutto il territorio, con una concentrazione maggiore in Emilia Romagna, Veneto, Campania e Toscana. Dati riferiti al 2005 parlano di 390 stabilimenti termali, di cui 308 attivi, dislocati in 159 località. Sui 308 stabilimenti attivi, 65 sono società di capitali; di queste, solo 19 hanno un fatturato che supera i 5 milioni di euro, mentre 22 aziende (circa il 34%) presentano un fatturato compreso fra 1 e 2 milioni di euro, per un giro d’affari totale del sistema termale pari a 317,9 milioni di euro che, includendo l’indotto, sale a 2.140 milioni di euro (dati relativi al 2002). Nel secondo Rapporto su sistema termale in Italia 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore), per la prima volta si utilizza il concetto di benessere termale, inteso “come prodotto che trae forte valore aggiunto dall’utilizzo di risorse, di strumenti ed esperienze termali: in altre parole si validano e si ca ratterizzano quei trattamenti benessere, che possono essere praticati solo nei centri termali, distinguendoli dagli altri che possono essere effettuati ovunque. Il benessere termale è inteso come superamento e integrazione della distinzione e contrapposizione, fino a oggi esistente, fra la concezione termale tradizionale e quella del benessere”.

UN CAMBIAMENTO FATICOSO
Attualmente quello del benessere termale è un mercato molto dinamico e in forte rilancio competitivo, che sta mettendo in discussione il concetto stesso di terme, tradizionalmente ancorato quasi esclusivamente alla cura della salute fisica, con un’offerta di tipo terapeutico, preventivo o riabilitativo. In effetti, le aziende termali tradizionali erano imprese che gravitavano nel regime protetto del Sistema Sanitario Nazionale, la cui proprietà demaniale e gestione pubblica spesso rappresentava un vincolo per il loro sviluppo. Nel momento in cui si è vista la possibilità di allargare l’offerta termale per accogliere la crescente richiesta di benessere, un ulteriore freno è stato dato dalla diffidenza di chi voleva difendere il valore terapeutico delle acque termali dalle contaminazioni del mercato emergente, visto come minaccia da evitare più che opportunità da cogliere. Atteggiamento, questo, abbastanza comprensibile, considerata l’ambiguità con cui veniva volontariamente condotta la comunicazione del mercato benessere. Una comunicazione che spesso danneggiava le aziende termali, proponendo un utilizzo improprio delle parole terme, termale, spa, ecc., abuso compiuto sia dai centri erogatori di servizi benessere (fitness, estetici, day spa, e altri) che dagli stessi mass media. La confusione generata portò a emettere una legge di riordino del settore termale (L n° 323 del 2000), nella quale è stabilito che:
- acque termali sono “le acque minerali naturali utilizzate a fini terapeutici”;
- cure termali sono “le cure, che utilizzano acque termali o loro derivati, aventi riconosciuta efficacia terapeutica per la tutela globale della salute nelle fasi della prevenzione, della terapia e della riabilitazione delle patologie erogate negli stabilimenti termali”.
Pertanto: “I termini terme, termale, acqua termale, fango termale, idrotermale, idrominerale, thermae, spa (salus per aquam) sono utilizzati esclusivamente con riferimento alle fattispecie aventi riconosciuta efficacia terapeutica”. Una serie di fattori ha contribuito a modificare l’atteggiamento di chiusura nei confronti del nuovo:
- il forte calo di cure termali tradizionali (oltre il 38% dal 1990 ad oggi), sempre meno prescritte dai medici di base e sempre meno finanziate dal SSN;
- il processo di privatizzazione della gestione delle aziende termali che, a partire dal 1997, sta lentamente coinvolgendo tutto il comparto;
- la domanda sempre più pressante di prodotti e servizi legati al concetto di benessere.

IL NUOVO PRODOTTO TERMALE
In alcuni casi la scelta di ampliare l’offerta è stata “tirata” dalle richieste del mercato, senza che ci fosse un chiaro disegno strategico, senza consapevolezza, con un atteggiamento ancora poco orientato al mercato. In altri casi, invece, si è cercato un vero nuovo posizionamento competitivo, che fosse frutto di idonee scelte gestionali. L’implementazione dell’offerta non è di così facile attuazione, sia dal punto di vista strutturale (razionalizzazione di spazi per collocare i nuovi servizi), che organizzativo e gestionale, in quanto richiede un forte cambiamento del sistema di offerta e di vendita del prodotto termale. Nello schema successivo sono riassunte leSchermata 2013-12-16 alle 15.21.11 principali caratteristiche delle differenti tipologie di clienti termali. Rispetto alle imprese che si stanno riposizionando in funzione del benessere, si possono identificare due differenti tipologie:
- realtà orientate al benessere in senso stretto che, accanto ai trattamenti medici tradizionali, offrono pacchetti diffe renziati di trattamenti estetici, fitness e terapie alternative;
- realtà che interpretano il benessere in senso più ampio, come svago, relax, l’”otium” dei latini, e che pertanto sono molto legate alla ricettività turistica e alla capacità di intrattenimento.

TERME E FITNESS
Esistono senza dubbio dei fenomeni di convergenza intersettoriale che coinvolge i clienti dei centri fitness, estetici e termali, volti alla ricerca di un’offerta di servizi sempre più integrata. L’ampliamento dell’offerta da parte degli operatori termali non può comunque prescindere dalla necessità di proporre un prodotto personalizzato, che dipende dalla peculiarità delle singole strutture, dalla qualità delle acque, dalla tipologia di clientela, dall’integrazione con i servizi esistenti e dalle caratteristiche del territorio, evitando il fenomeno dell’omologazione dell’offerta, che così tanto e male caratterizza il mercato del fitness. Anche l’offerta di servizi fitness non può essere proposta indiscriminatamente da tutte le aziende termali presenti sul territorio e deve essere adeguata alle aspettative della clientela, chiaramente diverse rispetto a quelle del cliente abituale del centro fitness. Innanzitutto, il tempo a disposizione per le attività è limitato alla permanenza del soggiorno, quindi il cliente termale non si aspetta miglioramenti visibili, non è alla ricerca di una maggiore tonificazione muscolare o performance, quanto piuttosto di una migliore forma psicofisica generale, associata a una cosciente percezione del proprio corpo. La pratica del fitness in questi luoghi è quasi sempre “light”, e può essere considerata come l’occasione buona per insegnare ad associare il movimento con sensazioni positive e per favorire la socialità. Altro discorso riguarda le attività di fitness inserite nei programmi di dimagrimento, in cui la programmazione rigorosa di attività cardio è strutturata all’interno di percorsi alimentari e trattamenti estetici che devono rispondere alle chiare aspettative del cliente. Forse più che in altri luoghi, gli istruttori devono essere dotati di grande capacità comunicativa, flessibilità ed empatia, oltre che, naturalmente, avere tutte le capacità tecniche necessarie per affrontare una clientela molto differenziata. Molte aziende termali offrono attività open air, favorite dalla location delle strutture immerse in ambienti naturalmente privilegiati o in luoghi interessanti dal punto di vista artistico, storico e culturale. Le proposte variano da lezioni di yoga, stretching e attività a corpo libero, a semplici passeggiate, trekking, escursioni in mountain bike fino ad attività sportive vere e proprie come tennis e golf. In molte strutture, (Terme di Saturnia, Terme Felsinee) la presenza di piscine termali, sia interne che esterne, favorisce la proposta di attività acquatiche, i cui benefici sono da assommare alle numerose azioni biologiche esercitate dalle diverse acque minerali termali: – vasodilatazione cutanea e conseguente riduzione della pressione arteriosa;
- effetto miorilassante e antinfiammatorio;
- effetto fluidificante sulle secrezioni;
- naturale azione di peeling, con proprietà esfolianti, detergenti ed antisettiche.
I corsi di acquagym svolti in acqua termale sono studiati in funzione di specifici obiettivi di salute e benessere: dal lavoro cardio-vascolare e di tonificazione muscolare generale, al miglioramento della mobilità osteo-articolare e delle capacità di coordinazione, alla ginnastica antalgica, per la cura di dolori posturali, reumatismi, artrosi e decalcificazioni ossee, fino al fitness vascolare per chi ha problemi circolatori. In alcuni casi esiste un vero e proprio fitness club all’interno delle strutture, che può essere frequentato indipendentemente dai servizi termali, oppure può essere incluso in alcuni “pacchetti benessere”. È il caso delle Terme di Bormio, Terme di Merano, Istituto Talassoterapico di Grado, Terme Pompeo. In altre strutture, invece, il centro fitness, in genere di dimensioni più modeste, è a uso esclusivo dei clienti termali, spesso accompagnati dalla presenza di un personal trainer. Alcuni esempi sono le Terme di Saturnia, Adler Thermae di Bagno Vignoni, Regina Beauty Fitness and Thermal Resort di Aqui Terme. Nelle sale corsi le attività “body&mind” sono quelle maggiormente proposte, accessibili a tutti e per loro stessa natura perfettamente integrate e in linea con le altre offerte del centro termale: ginnastica dolce, Pilates, Yoga, Pancafit, attività che abbinano benefici fisici e psichici, accompagnate dal tipico ritmo “slow” dell’ambiente termale, e che possono essere facilmente offerte con un approccio attento e personalizzato.

BIBLIOGRAFIA
Evoluzione del settore termale, Mirella Migliaccio, Franco Angeli 2005 Secondo Rapporto su sistema termale in Italia nel 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore) 
Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Professione Fitness 4/2007

Disturbi del comportamento alimentare: generalità

introChi soffre di disturbi alimentari molto spesso, nel proprio percorso patologico, approda in un centro fitness: persone in soprappeso, obesi, ma anche anoressiche, bulimici, ortoressici… Tutti con un solo scopo: dimagrire, bruciare calorie. Tutti con un’ossessione, più o meno grave, più o meno consapevole: il proprio corpo, inadeguato, malato, sbagliato, non accettato, spesso soggetto a una visione totalmente distorta.

Tendenzialmente, si individuano tre tipi di disturbo alimentare: Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Anche se a volte si manifestano già a partire dall’infanzia, sicuramente il loro picco riguarda l’età adolescenziale e la prima parte dell’età adulta. Il problema fondamentale è che sono caratterizzate da un esordio in sordina, e per questo insidioso, che spesso ritarda drammaticamente la diagnosi e l’intervento terapeutico. Il più delle volte si ha a che fare con malati invisibili, perché è labile il confine con condizioni di “normalità”: prima di arrivare alla malattia conclamata, infatti, il soggetto vive lunghi periodi di “incubazione” in cui si strutturano tutti i comportamenti che caratterizzeranno poi la malattia. In genere, sono patologie di lunga durata, con un alto tasso di cronicizzazione, caratterizzate da elevati indici di mortalità (dal 5 al 18%, in base alla durata), dovuta a complicazioni (soprattutto a livello del sistema cardiocircolatorio) e non raramente a suicidio. I disturbi del comportamento alimentare rappresentano, per chi ne è affetto, la soluzione, la risposta a un dolore. Si possono individuare alcuni sintomi caratteristici generali:
- irragionevole paura della propria immagine corporea e del giudizio delle altre persone, perché lì tutto è riposto;
- ansia eccessiva riferita al proprio peso, che si manifesta con un utilizzo ossessivo della bilancia, piuttosto che, al contrario, un rifiuto caparbio alla sua misurazione;
- continuo controllo del proprio corpo allo specchio;
- confronto esasperato del proprio aspetto fisico con quello degli altri;
- comportamento nevrotico nei confronti del cibo, caratterizzato da alternanze di digiuni/abbuffate, esagerato utilizzo di prodotti dimagranti e ipocalorici, fino ad arrivare al consumo di diuretici e lassativi; il cibo è il condensato simbolico di tutta la vita affettiva ed emotiva;
- esercizio fisico smodato, anche se non presente in tutti i quadri di DCA.
Non è necessario che tutti questi comportamenti siano manifesti, così come non è detto che rappresentino un DCA in esordio: anzi, molti di questi caratterizzano il periodo puberale e generalmente si risolvono senza conseguenze. La distorsione dell’immagine corporea è centrale nello sviluppo dei DCA, stimolata dai modelli estetici proposti dalla società: il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni si sente soprappeso, mentre il 50% non è soddisfatta del proprio corpo. Inoltre, vale la pena di sottolineare come non tutti i comportamenti considerati “anomali” debbano avere una spiegazione ed essere inquadrati come sintomi preliminari di chissà quale patologia psicotica. Tuttavia, è tendenzialmente vero che i comportamenti sopra descritti sono un segnale di difficoltà, di fronte al quale, senza alcun allarmismo, è bene “drizzare le antenne”.

ANORESSIA E BULIMIA
L’anoressia nervosa è caratterizzata da una profonda paura di aumentare di peso, accompagnata da una visione distorta di sé e da un continuo e progressivo timore di perdere il controllo del proprio corpo. Reprimere lo stimolo della fame innesca un gioco perverso di conferma del proprio potere: più lo stimolo è presente, più si ha soddisfazione nel dominarlo; spesso, questo esercizio di disciplina e capacità di controllo, porta la persona anoressica a sentirsi superiore rispetto agli altri e la spinge a un progressivo allontanamento dagli ambiti sociali. Il disturbo ossessivo-compulsivo, determinato dai continui pensieri sul cibo e sul corpo, spinge la persona anoressica a cercare una propria stabilità instaurando riti e abitudini che caratterizzano giornate e attività. Dal punto di vista clinico, un indice di massa corporea inferiore a 17,5 è sicuramente un segnale molto sospetto, soprattutto se accompagnato da amenorrea (assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi).
La bulimia nervosa è caratterizzata da frequenti abbuffate e dalla totale perdita di controllo sul cibo: le persone bulimiche mangiano per mezz’ora di seguito ingurgitando di tutto, senza scegliere gli alimenti, senza neanche sentirne i sapori. Le abbuffate sono seguite poi da profondi sensi di colpa, e da una grande vergogna per avere perso il controllo. Da qui seguono due comportamenti differenti: nel primo, caratterizzato da condotte di eliminazione, la persona bulimica si induce il vomito per eliminare quello che ha mangiato; nel secondo, senza condotte di eliminazione, l’abbuffata è compensata con periodi di digiuno, attività fisica estrema, utilizzo di diuretici e lassativi. La diagnosi è particolarmente difficile anche perché questi soggetti mantengono un peso normale e spesso riescono a tenere segreti i loro comportamenti. A volte la bulimia è associata a forme di autolesionismo più o meno gravi.
Sia anoressia che bulimia sono disturbi tipicamente femminili (rapporto di 1 a 20) anche se i disturbi alimentari nei maschi rappresentano una realtà epidemiologica in aumento. Mentre nelle donne il tempo medio di latenza è di 4 anni, in genere un maschio entra in terapia dopo 7 anni di malattia, il cui esordio si segnala generalmente intorno all’adolescenza, quando il giovane comincia a strutturare la propria identità adulta. Invece di anoressia, si parla spesso di anoressia inversa, o vigoressia, o dismorfia muscolare, poiché nei maschi la principale causa di dimagrimento è determinata da un eccesso di esercizio fisico; per questo, generalmente, non si arriva mai a perdite di peso gravemente invalidanti. I sintomi maggiormente riconoscibili sono l’assenza di massa grassa e la ricerca, urgente e continuamente insoddisfatta, di incrementare la propria massa muscolare tramite esercizio fisico compulsivo e rigorose diete alimentari fino ad arrivare, talvolta, all’uso di steroidi anabolizzanti.

TRIADE DELL’ATLETA
A volte si ricorre all’attività fisica perché già si soffre di un DCA, alle volte è il praticare un’attività sportiva che può favorire l’insorgenza di un DCA, soprattutto praticando quegli sport in cui il rapporto peso-forma è fondamentale per una prestazione ottimale (ginnastica artistica e ritmica, pattinaggio, danza…). In particolare, in un’atleta di sesso femminile, si parla di “triade dell’atleta” quando compaiono contemporaneamente tre sintomi:
- ridotta disponibilità di energia, che causa un peggioramento della performance;
- irregolarità mestruale;
- fragilità ossea.
Nel tentativo di ridurre al minimo la propria massa grassa, queste atlete diminuiscono eccessivamente l’apporto di cibo, aumentando contemporaneamente le sedute di allenamento e utilizzano lassativi e diuretici in maniera indiscriminata. Il controllo del peso diventa così un’ossessione che, oltre a incidere negativamente sulla performance, predispone l’atleta a fratture, strappi muscolari e a gravi complicanze cardiache e renali.

DISTURBI DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
I sintomi che caratterizzano gli affetti da disturbi da alimentazione incontrollata, in inglese Binge (orgia) Eating Disorder, possono essere paragonati a quelli delle persone bulimiche, con la differenza che i “Binge” non cercano di compensare le calorie introdotte in eccesso. Studi recenti sostengono che a questa categoria appartengano circa il 20% delle persone obese: si abbuffano regolarmente in modo compulsivo e incontrollato, generalmente da soli. Spesso le “crisi” sono precedute da un’emozione o un avvenimento scatenante e sono seguite da disgusto e senso di colpa, una sorta di autopunizione per un disagio interiore che non trova soluzione adeguata, e che si preferisce nascondere con decine di chili di soprappeso. La paura è la condizione cronica che innesca il circolo vizioso: paura di non essere all’altezza, di non essere accettati e rifiutati. Perché si possa inquadrare come un DCA, i soggetti devono avere un indice di massa corporea di almeno il 30% superiore alla normalità, e le crisi di alimentazione incontrollata devono presentarsi con una frequenza di almeno 2 volte alla settimana per 6 mesi.

ORTORESSIA
Consideriamo, infine, un DCA di recente definizione, l’ortoressia, caratterizzato dall’ossessione per un’alimentazione e uno stile di vita salutare, che porta alla selezione esasperata dei cibi e al totale rifiuto di interi gruppi di alimenti, al praticare fitness estremo con un’attenzione psicotica verso il proprio corpo.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Professione Fitness 6/2008

Visite e certificati: obblighi, novità e proposte

doctor“Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…” (D.M. 13/09/2012, art. 7 comma 11). Il decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. Che differenza c’è fra la pratica agonistica e quella non agonistica? Che cosa è cambiato negli ultimi 30 anni e che cosa dovrebbe cambiare? Breve viaggio nella vecchia e nuova normativa alla ricerca di soluzioni di buon senso, che guardino non solo l’interesse dei medici o delle strutture che richiedono i certificati, ma soprattutto l’interesse degli utenti.

 Il nuovo decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. La bozza del decreto, presentata alla fine di agosto 2012 e successivamente modificata, prevedeva che i certificati di idoneità, sia per l’attività agonistica che per la non agonistica, fossero rilasciati unicamente dai medici dello sport. L’intento doveva essere quello di porre una maggior responsabilità su un atto che molto spesso è vissuto, dai medici di base e dai pediatri, come una pura formalità. Il “certificato di buona salute”, così si definisce quello che attesta l’idoneità per le attività non agonistiche, non prevede indagini strumentali, ma neanche uno standard esecutivo per la visita clinica, svolta il più delle volte con superficialità, quando non del tutto assente, a fronte del rilascio di un documento il cui valore è esclusivamente burocratico. Il certificato medico è il foglio che serve per iscriversi a un corso, per svolgere un’attività tutelati da una copertura assicurativa. Davanti alla proposta di Balduzzi, la federazione dei medici di base e alcuni enti di promozione sportiva, sono insorti, dichiarando che in questo modo ci sarebbe stato un aggravio di spesa per i cittadini. Così Balduzzi fa marcia indietro, e nel decreto legge, pubblicato il 13 settembre, art. 7 (Disposizioni in materia di vendita di prodotti del tabacco, misure di prevenzione per contrastare la ludopatia e per l’attività sportiva non agonistica) comma 11: “Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…”. Mentre attendiamo che siano rese note le “linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari”, possiamo evidenziare che il decreto Balduzzi colma il vuoto legislativo che il precedente decreto (già citato D.M. 28/2/1983) aveva lasciato. Lì infatti si legge che il controllo sanitario per la pratica di attività sportiva non agonistica è obbligatorio solo per coloro che svolgono attività organizzate dal CONI, da società o associazioni affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali o agli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI; escludendo di fatto tutti i praticanti in strutture private non affiliate (centri fitness ecc.). La questione non era da poco, essendoci di mezzo anche problemi di responsabilità e assicurazioni. E infatti negli anni le interpretazioni si sono sprecate, dovendosi confrontare anche con normative regionali diverse fra loro.

ATTIVITÀ SPORTIVA AGONISTICA
Nel D.M. 18 febbraio 1982 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica” nell’art. 1. si legge che “La qualificazione agonistica a chi svolge attività sportiva è demandata alle federazioni sportive nazionali; o agli enti sportivi riconosciuti”. Di fatto, le singole federazioni utilizzano un criterio anagrafico: la differenza fra sport agonistico e non agonistico è dettata dall’età del soggetto rispetto allo sport praticato. La definizione non ha niente a che fare con i livelli di intensità o di competitività espressi. Come esempio riportiamo gli anni di ingresso per alcune attività:
8 anni – pattinaggio su ghiaccio, ginnastica, scherma, nuoto;
9 anni – baseball, canottaggio, sci;
10 anni – pentathlon, tennis;
12 anni – atletica leggera, calcio, judo e arti marziali, rugby, pallacanestro, pallavolo.
La visita per l’idoneità alla pratica di uno sport agonistico include indagini strumentali e può essere effettuata solo da specialisti in Medicina dello sport all’interno di strutture accreditate in specifici albi regionali. L’indagine viene svolta tramite esami clinici e strumentali:
- visita medica completa e anamnesi;
- spirometria, con determinazione della capacità polmonare statica e dinamica e della massima ventilazione volontaria;
- elettrocardiogramma a riposo;
- elettrocardiogramma sotto sforzo, indotto dallo “step test”, eseguito per 3 minuti su un gradino di altezza variabile a un ritmo stabilito (per 120 movimenti al minuto) con calcolo dell’IRI (indice di recupero);
- esame delle urine completo;
- acuità visiva.
Per alcune discipline sono poi previste ulteriori indagini specialistiche (per esempio pugilato, sci alpino, attività subacquee). Ogni certificato è specifico per uno e un solo sport. Il costo nelle strutture pubbliche è fisso a tariffa regionale, considerata la quota minima applicabile nelle strutture private. Per esempio in Lombardia gli atleti minori di 18 anni tesserati a una federazione o a un ente di promozione sportiva hanno diritto alla visita gratuita, se richiesta da una società sportiva. Per tutti gli altri le cifre sono variabili, mantenendosi in una media di 50/60 euro per uno screening completo. Al termine della visita viene rilasciato un certificato di idoneità, inidoneità (assoluta o temporanea) o sospensione (per ulteriori accertamenti).

ATTIVITÀ SPORTIVA NON AGONISTICA
La visita per l’idoneità alla pratica di sport non agonistico è di prassi svolta dal medico di base e dal pediatra, è generica e valida per tutte le attività sportive non agonistiche. Non tutti sanno che ci si può recare anche nei centri di medicina dello sport, dove si avrà lo stesso “trattamento” riservato agli atleti agonisti (esami clinici e strumentali di cui sopra per un costo medio di 50/60 euro). Anche il certificato rilasciato dal medico di base e dal pediatra è a pagamento e il costo medio varia fra i 40 e i 50 euro. Ricordiamo che il Decreto Bersani del 2006 ha abolito le tariffe minime degli ordini; tuttavia i medici si attengono, generalmente, a quelle suggerite per “deontologia professionale” dagli ordini stessi, che hanno pubblicato dei tariffari di riferimento. Come già detto, in questo caso è prevista solo una visita clinica e non esistono linee guida a cui attenersi, partendo dal presupposto che il medico conosca il proprio paziente e le eventuali patologie di cui è portatore che possono limitare la pratica sportiva. Ma non sempre è così. La visita sarebbe molto utile anche per evidenziare possibili alterazioni strutturali, soprattutto nel periodo di accrescimento, individuando atteggiamenti posturali scorretti o alterazioni della schiena, ginocchio e piede. Quanti sono i pediatri che di routine eseguono queste verifiche? Inoltre, in base alla morfologia e a eventuali alterazioni rilevate, il pediatra potrebbe indirizzare il proprio paziente alla pratica di uno sport piuttosto che un altro o fornire direttamente consigli alimentari e per migliorare lo stile di vita. Veniamo quindi al concetto più importante: il senso del certificato medico.

NON SOLO PREVENZIONE
Il senso della visita di idoneità alla pratica sportiva (sia agonistica che non) è prima di tutto preventivo: evidenziare eventuali anomalie che possano controindicare, anche solo temporaneamente, l’attività sportiva. Tuttavia, questa chiave di lettura ci sembra oggi riduttiva. Se fino a qualche anno fa la tendenza era quella di escludere dalla pratica di un’attività fisica la popolazione che non veniva riscontrata “sana”, ora c’è piuttosto la tendenza a includere, anzi caldeggiare, quando non addirittura prescrivere l’attività motoria anche e soprattutto alle persone fragili dal punto di vista della salute, portatori di fattori di rischio anche elevati per la diagnosi della sindrome metabolica. A dire il vero, facendo un’ampia panoramica sulla letteratura scientifica internazionale, possiamo tranquillamente affermare che sono ormai pochissime le patologie in cui si vieta un’attività motoria. Questa buona pratica rende tuttavia necessario un maggior controllo che non deve tradursi in eccessivo monitoraggio strumentale, quanto piuttosto in maggiore cura nell’indagine clinica. Se il movimento è anche terapia, il certificato dovrebbe anche indirizzare la scelta della pratica motoria, fornendo indicazioni rispetto al “cosa, come, quando, per quanto tempo”. Ovviamente la questione interessa proprio le attività non agonistiche, in questo momento affidate alla buona volontà di medici di base e pediatri. Spostare integralmente questa responsabilità sui medici dello sport, così come prevedeva la bozza del decreto Balduzzi poi modificata, sicuramente non rappresenterebbe un aggravio economico per gli utenti (come abbiamo visto, il costo di un certificato rilasciato da un medico di base o pediatra e da un centro di medicina dello sport sono rapportabili), ma probabilmente non risolverebbe il problema, venendo a mancare quella fondamentale conoscenza del paziente di cui può giovare il medico di base. Tuttavia, il certificato di buona salute per lo svolgimento di attività non agonistiche non può rappresentare solo una conferma scritta della situazione sanitaria generale del soggetto (che dovrebbe essere già a conoscenza del medico o del pediatra), ma deve scaturire da indagini più approfondite, quanto meno mirate all’individuazione dei fattori di rischio più direttamente in causa negli incidenti legati all’attività fisico-sportiva. Sarà poi lo stesso medico di base, che conosce i propri pazienti, a prescrivere la visita di un medico dello sport là dove riterrà importante approfondire gli accertamenti con esami di laboratorio o visite specialistiche per la “prescrizione di terapia fisica”. In questo caso la documentazione redatta risulterà fondamentale per l’impostazione del lavoro da parte dell’istruttore sportivo. Invece di battagliare per il mantenimento di 50 euro di privilegio, forse varrebbe la pena mettersi a tavolino e discutere di questo, che poi è la salute delle persone, con beneplacito di Ippocrate.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 10/2012

Visita medico sportiva: valore epidemiologico e preventivo

doctor 2Un tempo c’era il medico scolastico, cui spettavano screening di routine sulla popolazione in via di accrescimento, volti alla prevenzione e alla promozione della salute. Ma c’era anche la visita di leva, il cui valore epidemiologico e preventivo non è mai stato sostituito. Questi “filtri sanitari” importanti sono venuti a mancare, ma la visita medico-sportiva può essere l’occasione per operare uno screening sanitario sulla popolazione e per ottenere dati epidemiologici fondamentali. L’Italia nel mondo è considerata all’avanguardia nel campo della medicina dello sport, intesa soprattutto come medicina di prevenzione volta alla tutela della salute della popolazione. Quali sono le più diffuse cause di inidoneità alla pratica dello sport agonistico? In assenza di screening strumentale, quali sono i parametri più importanti da considerare in una visita di idoneità, in modo da individuare le situazioni più critiche da rimandare a ulteriori approfondimenti e orientare il soggetto alla pratica delle attività più adatte alle eventuali patologie limitanti?

Nella Regione Piemonte è stato condotto uno studio sui risultati delle visite medico sportive agonistiche svolte negli anni 1997-2006, per identificare le cause di inidoneità alla pratica dello sport agonistico (Analisi descrittiva delle non idoneità alla pratica dello sport agonistico in Piemonte: dieci anni di certificazioni M. Gottin, G. P. Ganzit, M. Ottino). Nel decennio considerato ci sono state 2.422 segnalazioni di non idoneità, su circa 130.000 visite annue effettuate. Il calcio, con 522 casi pari al 21,6% del totale, è risultato lo sport con il maggior numero di non idonei, percentuale in realtà legata al maggior numero di praticanti questa disciplina sportiva. Risulta invece con evidenza l’alta percentuale di non idonei a sport di notevole impegno fisico come il ciclismo, classificatosi al secondo posto con 355 atleti (14,69%). In rapporto al tipo di sport bisogna anche rilevare che negli sport individuali a elevato impegno cardiovascolare o ad alto rischio intrinseco (ciclismo, atletica corsa, tennis, sci alpino e nuoto subacqueo) la percentuale di non idonei relativa è risultata maggiore rispetto agli sport di squadra; questo perché sono sport che si praticano anche in età avanzata. L’incidenza di non idoneità è maggiore nella fascia di età inferiore a 11 anni rispetto alla fascia successiva (11-15 anni), ma poi aumenta proporzionalmente all’età. La lettura di questi dati conferma l’importanza della visita all’inizio dell’attività agonistica, per evitare carichi di lavoro intensi su strutture fisiche ancora non adeguate. La maggior parte dei giudizi di non idoneità all’attività sportiva agonistica riporta come causa una patologia cardiocircolatoria: si tratta del 76,5%, dato in accordo con quasi tutte le casistiche riportate in letteratura. Al secondo posto troviamo le patologie dell’apparato urinario (6,6%), seguite da quelle neurologiche (4,2%), ortopediche (3,9%), endocrino metaboliche (2,3%). La suddivisione delle patologie cardiocircolatorie permette di evidenziare come le patologie più comuni siano le aritmie e l’ipertensione arteriosa. L’evidente coinvolgimento dell’apparato cardiocircolatorio nella prestazione sportiva sottolinea ancora una volta l’importanza di un accurato controllo anamnestico, clinico e strumentale. Considerato poi che l’attività fisica è anche un mezzo terapeutico utile per migliorare la qualità di vita del cardiopatico, è compito del medico dello sport dosare l’attività in base alle esigenze del singolo soggetto.

LA MORTE IMPROVVISA NELLO SPORT
La conseguenza più temibile della presenza di una patologia cardiovascolare è la morte cardiaca improvvisa (Sudden Cardiac Death), un evento che, quando colpisce atleti di alto livello, produce un forte impatto emotivo e riceve grande attenzione da parte dei media. In molti paesi si discute se, con uno screening più approfondito, questo genere di accidenti possa essere evitato. In uno studio del 2007 pubblicato sul Netherlands Heart Journal, l’incidenza di SCD è stimata tra 0,5 e 2,0 casi per 100.000 per anno. La maggior parte dei decessi negli atleti con più di 35 anni è causata da malattia coronarica, mentre in atleti più giovani è legata a cardiomiopatia ipertrofica, cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, miocardite, anomalie congenite delle arterie coronarie, sindromi aritmia primaria, con variabili di incidenza da paese a paese. La tipologia di visita medica per attività agonistica effettuata in Italia è riconosciuta fra le eccellenze. Nel 1982, prima dell’approvazione della legge di riferimento, l’incidenza di morte cardiaca improvvisa in Italia è stata di 4,2 per 100.000 atleti; nel 2004, si è drasticamente ridotta a 0,9/100.000. Tuttavia, secondo gli autori, i risultati di questo studio di coorte non sono una prova sufficiente a giustificare l’estensione di questo screening agli atleti di tutto il mondo. L’attuazione di un programma di screening sulla popolazione sana deve rispettare criteri epidemiologici e di efficacia e deve rispondere a valutazioni economiche che in questo caso non sono sufficienti, considerata la bassa incidenza di morte cardiaca improvvisa negli atleti. Inoltre, non si sa se l’esclusione dalla competizione sportiva abbia salvato la vita o preservato la salute di quel 2% di atleti trovati inidonei: non vi è alcuna prova scientifica che l’esclusione da competizioni sportive sia sufficiente a modificare la storia naturale delle anomalie cardiache e impedisca davvero SCD negli atleti. Forse, concludono gli autori nello studio, il modo migliore per prevenire la SCD è educare gli atleti a riconoscere e trattare eventuali sintomi di allarme durante l’esercizio fisico: dispnea e stanchezza inspiegabile, perdite di conoscenza anche lievi, vertigini, palpitazioni e dolore al petto.

I PARAMETRI PIÙ IMPORTANTI
Dal momento che queste patologie sono individuabili solo attraverso uno screening strumentale che non è sostenibile applicare a tutta la popolazione dedita all’attività fisico-sportiva, può essere proponibile uno schema orientativo, che permetta di individuare le situazioni più critiche da rimandare a ulteriori approfondimenti e orientare il soggetto alla pratica delle attività più adatte alle eventuali patologie limitanti. In uno studio statunitense l’analisi statistica delle cause di non idoneità alla pratica sportiva in soggetti di età compresa fra gli 11 e i 18 anni ha portato a identificare i parametri più importanti per condurre la visita di idoneità. In particolare sono emerse sette variabili.
1. Capogiri in corso di esercizio fisico: può essere sintomo di una cardiomiopatia ipertrofica, o aritmia o anomalie coronariche.
2. Storia di asma: è la maggior causa di limitazioni alla pratica sportiva o di controlli ulteriori, anche se l’asma da sforzo in genere non è causa di esclusione dalle attività sportive (negli atleti agonisti si stima una prevalenza di asma da sforzo del 10-15%).
3. Indice di Massa Corporea (IMC): il rapporto fra il peso corporeo in chili e il quadrato della statura espressa in metri costituisce l’indice più utilizzato per valutare l’adiposità del soggetto, anche se variazioni della composizione corporea devono essere tenute in debito conto.
4. Valori elevati di Pressione Arteriosa Sistolica (PAS): un PAS elevata, isolata e persistente nel bambino è un reperto anormale. Non esistono evidenze che le attività aerobiche siano rischiose per i bambini ipertesi, al contrario si tende a considerare che l’attività fisica sia di beneficio, quindi in genere si raccomanda di limitare la partecipazione sportiva solo di quei soggetti affetti da ipertensione grave (con valori di PA sistolica e/o diastolica uguale o superiore al 99° percentile per età e sesso) e che non abbiano ottenuto risposte adeguate alla terapia. In genere, salvo queste rare situazioni si ritiene che i bambini affetti da ipertensione possano praticare un’attività di tipo aerobico.
5. Capacità visiva: la maggior parte degli Autori concorda sulla necessità di una funzione visiva almeno grossolanamente conservata quale garanzia di sicurezza, soprattutto negli sport di collisione o di contatto (l’acuità visiva dovrebbe essere corretta ad almeno 4/10).
6. Soffio cardiaco: un soffio innocente o funzionale è comune in età pediatrica. È importante differenziarlo da soffi connessi a patologie potenzialmente fatali, quali, in particolare, la cardiomiopatia ipertrofica.
7. Esame dell’apparato muscoloscheletrico: è la parte di visita che, nelle casistiche statunitensi, rivela la maggior parte delle cause di inidoneità allo sport. In genere si suggerisce di focalizzare l’attenzione alle aree affette in precedenza da lesioni o traumi e di completare la visita con un esame obiettivo più approfondito di ginocchia e caviglie. Spesso un’anamnesi positiva per traumatismi muscoloscheletrici è motivo di limitazione alla pratica sportiva.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 10/2012

Sightrunning sightjogging sightwalking

Deriva dall’unione della parola sightseeing (visita turistica) e walking, jogging o running ed è un by runandseenuovo modo di visitare le città d’arte, senza auto, pulmann o mezzi pubblici, anche uscendo dai percorsi tradizionali per scoprire i luoghi più affascinanti e caratteristici di ogni città. Per chi vuole cimentarsi in totale autonomia sono sufficienti un paio di scarpe da corsa e una mappa della città, ma chi desidera usufruire di un servizio strutturato, con tanto di personal trainer esperti d’arte, può avvalersi della collaborazione di organizzazionii nate ad hoc, che negli anni hanno raffinato e moltiplicato le loro proposte. L’esordio in Europa (nel 2005) è stato in Germania, che oggi è la regina indiscussa del sightrunning: visite di corsa o a passo veloce sono proposte ormai in quasi tutte le città, con guide professioniste che parlano almeno una lingua straniera. Le agenzie propongono diversi itinerari, in base alle zone che si vogliono visitare, ma anche ai chilometri e alla difficoltà del percorso. Si può inoltre scegliere se partecipare a un gruppo, piuttosto che avere un personal a propria completa disposizione: in questo caso si potrà anche decidere per un itinerario personalizzato. Sono anche molto richiesti i tour notturni e le gite fuori porta. Il costo del servizio per un’ora di sightrunning si aggira sui 20 euro. Oltre che in Germania, è possibile praticare questa forma di turismo anche in altri paesi europei. A Vienna gettonatissimo è il Ring, un percorso di 8 chilometri che passa per i monumenti più importanti del centro storico. A Parigi, decisamente impegnativo, è Le Circuit de la Révolution française, 20 km che si snodano fra il Louvre, Place de la Concorde, gli Champs Elysées, il Bois de Boulogne, il parco di Saint Cloud fino ad arrivare alla reggia di Versailles. Chi vuole visitare Madrid, può scegliere fra tour da 4 fino a 80 km: dalle stradine della Madrid antica fra tapas bar e locali di flamenco, fino ad arrivare ai boschi e alle montagne che circondano la città. L’andatura consigliata è di 5-6 km/h, ma è possibile richiedere sedute individuali più performanti; il costo per un tour breve (3/5 km circa, per 30 – 45 min.) è di 15 euro, per uno lungo (15/22 km circa) è di 45 euro. Anche in Italia il sightjogging comincia a prendere piede. A Firenze è direttamente l’amministrazione comunale a proporre Firenze the walking city, sei percorsi jogging che attraversano i posti più belli e caratteristici del centro storico fino ad arrivare sui colli che circondano la città, differenziati per difficoltà e lunghezza e in grado di soddisfare ogni esigenza. A Verona è possibile appoggiarsi a un’organizzazione che mette a disposizione i propri personal trainer, meglio se prenotati con 24 ore di anticipo, per tour individuali o di piccoli gruppi. A Roma si può scegliere fra diverse opzioni. Il turista fai-da-te può praticare sightrunning in totale autonomia, percorrendo uno dei quindici percorsi che si snodano fra le vie della capitale, tra cui uno strutturato per persone disabili e quindi senza barriere architettoniche. Chi risiede in alberghi di alto livello può scegliere fra quelli che offrono questo servizio ai loro ospiti, come L’Hotel de Russie, che propone percorsi di Art Running o Art Biking. È possibile scegliere fra l’itinerario “green” e il “monumental”, da svolgersi in seduta singola o in piccoli gruppi; dura all’incirca un’ora per i joggers (quota individuale 100 euro) e 2 ore per i bikers (quota individuale 160 euro). Infine, è sempre possibile affidarsi a un’organizzazione specializzata in grado di offrire trainer altamente competenti nel settore del fitness, che parlino almeno una lingua straniera e con le necessarie conoscenze per fornire notizie sui siti di maggiore interesse che si trovano lungo il percorso. Il cliente può scegliere fra diversi itinerari, in base al grado di difficoltà e alla tipologia del percorso (storico, artistico o naturalistico). Una di queste associazioni è la Sightjogging, che fa parte del Global Running Tours, un’organizzazione mondiale che riunisce le aziende di sightrunning di tutto il mondo. Nel sito è possibile vedere dove questo servizio è attivo e prendere contatti con le singole aziende.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 6/2012

Attività fisica e massa ossea

pesini coppiaSi ritiene che il picco di massa ossea sia raggiunto entro la fine del terzo decennio di vita; una bassa massa ossea rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di osteoporosi. La massa ossea è determinata fondamentalmente a livello genetico, ma anche l’esercizio fisico vigoroso, che esprime un carico sull’osso, ha un notevole impatto sul contenuto minerale delle ossa (BMC), sulla densità (BMD) e sulla dimensione della parte corticale. L’American Society for Bone and Mineral Research ha recentemente pubblicato un ampio studio longitudinale svedese effettuato su giovani uomini adulti per determinare se una maggiore quantità di attività fisica in età adulta fosse associata a uno sviluppo favorevole di densità minerale ossea areale (ABMD) e volumetrica (vBMD), e nella geometria dell’osso corticale. Sono stati studiati 1068 giovani, di età media 24 anni, per un periodo di 5 anni. Un questionario standardizzato autosomministrato è stato utilizzato per raccogliere informazioni sui modelli di attività fisica sia all’inizio che durante lo studio. BMC e ABMD sono stati misurati utilizzando dual energy X-ray assorbimetria, mentre vBMD e la geometria delle ossa sono stati misurati mediante tomografia computerizzata quantitativa periferica. Le attività sportive sono state suddivise in base all’impatto: alle attività che prevedono azioni salto (per esempio ginnastica, pallamano, basket) è stato attribuito un punteggio di 3; alle attività che richiedono forza esplosiva (per esempio calcio, tennis, hockey su ghiaccio) è stato attribuito un punteggio di 2; alle altre attività a basso impatto (per esempio jogging), è stata dato un punteggio di 1. Le attività senza impatto (nuoto, ciclismo) hanno avuto un punteggio di 0. L’indice osteogenico è stato costruito moltiplicando il tempo speso per ogni tipo di attività sportiva (h/settimana) con il punteggio relativo a quell’attività sportiva. I soggetti sono stati poi divisi in tre gruppi: ad alta (almeno 4 ore a settimana), bassa e nessuna attività fisica (sedentari). Lo studio ha confermato che più alto era il livello di attività, maggiore era l’aumento della densità minerale ossea a livello del rachide lombare e di tutto il corpo. L’aumento di attività fisica è risultato essere associato a uno sviluppo favorevole della BMC totale e della ABMD della colonna lombare e dell’anca, nonché allo sviluppo maggiore della corteccia ossea. Gli uomini che hanno aumentato la loro quantità di attività fisica hanno anche aumentato la loro ABMD dell’anca, a differenza degli uomini che hanno mantenuto o ridotto il loro livello di attività, nei quali è risultata evidente una riduzione dell’ABMD dell’anca. L’aumento di ABMD era dovuto all’aumento delle dimensioni dell’osso corticale e trabecolare vBMD, entrambi determinanti della resistenza ossea e della resistenza contro le fratture. I benefici sono stati ottenuti anche se l’attività fisica è intervenuta dopo l’ingresso nell’età adulta, con risultati migliori riferibili ad attività con l’indice osteogenico maggiore. Inoltre, dato che la caduta è un fattore di rischio ancora più importante dell’ABMD per le fratture dell’anca, si conferma che l’attività motoria, atta a mantenere la funzionalità fisica, è il metodo più efficace per ridurre il rischio di caduta, soprattutto nelle età in cui iniziano a verificarsi le fratture. Nilsson, Journal of Bone and Mineral Research, 2012

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 11/2012