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La supplementazione di vitamina D è più utile alla salute del consumatore o a quella delle case farmaceutiche?

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Euromonitor International, società indipendente leader mondiale nella ricerca strategica per i mercati consumer, ha recentemente pubblicato uno studio interessante relativo al consumo di vitamina D e alle evidenze scientifiche a essa associate.
Il mercato delle vitamine e degli integratori alimentari è quello con il trend maggiormente positivo nel settore dei consumi legati alla salute. Analizzando i diversi prodotti, la vitamina D ha registrato il tasso di crescita più elevato dal 2007, pari a un CAGR (Compounded Annual Growth Rate) del 20%. Il forte aumento di fatturato (US $ 934 milioni/anno) ha permesso di tamponare la riduzione di vendite di supplementi più maturi come i minerali, la vitamina C, gli oli di pesce e acidi grassi omega.

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Consumo globale di vitamine e integratori alimentari al dettaglio: valore delle vendite e crescita , 2007-2012 (Euromonitor International)

L’origine del successo della vitamina D è una reputazione molto positiva, ben radicata negli anni e scaturita da numerosi studi che attribuiscono a questa vitamina (in realtà si tratta di un gruppo di pro-ormoni liposolubili costituito da 5 diverse vitamine), un ruolo fondamentale per il benessere delle ossa, in un delicato meccanismo di equilibrio con il calcio. La vitamina D favorisce il riassorbimento di calcio a livello renale, l’assorbimento intestinale di fosforo e calcio e i processi di mineralizzazione dell’osso. Si ottiene grazie all’esposizione solare e attraverso la dieta: olio di fegato di merluzzo, salmone, aringhe, il latte e i suoi derivati, uova, fegato e le verdure verdi.
La vitamina D è una sostanza nutriente importante per la salute delle ossa e fondamentale nella lotta contro l’osteoporosi, ma recenti ricerche ne indicano la validità anche per altre malattie come il cancro, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson, l’obesità.
Così tanti studi indicano l’importanza di mantenere adeguati livelli di vitamina D nella prevenzione primaria e secondaria, che questo micronutriente è diventato una celebrità: medici ed esperti lo elogiano come un elisir meraviglioso e ne propagandano l’assunzione, come essenziale per la nostra salute.

IL CONTRADDITORIO
Recentemente è stato pubblicato su The Lancet Diabetes & Endocrinology uno studio che mette in discussione le conclusioni suggerite dalle precedenti pubblicazioni sulla vitamina D. Nello studio “Vitamin D status and ill health: a systematic review”, i ricercatori hanno esaminato i dati di 462 studi condotti in precedenza sugli effetti della vitamina D rispetto ai diversi indicatori di salute (a esclusione del sistema scheletrico). Il 63% degli studi esaminati erano di osservazione, mentre gli altri erano d’intervento. I primi hanno evidenziato che esiste una forte associazione tra stato di salute e concentrazione di vitamina D nel sangue: meno vitamina corrisponde a meno salute. Tuttavia, l’altro 37% degli studi analizzati, che erano d’intervento e quindi più affidabili per stabilire una relazione causale, non ha provato nessuna connessione fra aumento di vitamina D e diminuzione della malattia. Il team di ricercatori concorda nell’affermare che la carenza di vitamina D è un indicatore di cattiva salute, conseguenza e non causa, di una vasta gamma di malattie.
Un altro studio pubblicato recentemente su Lancet, “Effects of vitamin D supplements on bone mineral density: a systematic review and meta-analysis”, ha messo in discussione anche la raccomandazione medica di lunga data che le popolazioni più anziane dovrebbero assumere vitamina D per mantenere l’osso e la salute dello scheletro. I ricercatori hanno analizzato 23 studi precedenti e hanno trovato pochissime evidenze sul beneficio complessivo della supplementazione di vitamina D sulla densità ossea. Pertanto la supplementazione di vitamina D non è necessaria in adulti anziani che non presentano rischi specifici correlati alle ossa, che si espongono normalmente alla luce solare e hanno una dieta equilibrata. Il costo associato all’assunzione di questo supplemento, concludono gli studiosi, non è giustificato.

IN ITALIA
L’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) tramite l’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (Osmed) presenta a cadenze semestrali i dati sull’utilizzo dei farmaci in Italia in termini di spesa, volumi e tipologia. I numeri sono anche analizzati e interpretati per correlare la prevalenza delle patologie nel territorio con la corrispondente prescrizione e valutare eventuali modifiche d’indirizzo, anche in un’ottica di spending review.
Presentando l’ultimo rapporto nazionale OsMed il direttore generale dell’Aifa Luca Pani, ha sottolineato la necessità di vigilare sul possibile utilizzo inappropriato della vitamina D, il cui mercato in Italia ammonta a 187 milioni di euro su base annua. «L’AIFA ha guardato con attenzione i dati e ciò che emerge è che ad essere in aumento è il consumo di vitamina D da sola (+17,6% rispetto al 2012), mentre è in riduzione il consumo di farmaci a base di calcio in combinazione con Vitamina D (-3,6% rispetto al 2012) e quello del calcio da solo è costante. In poche parole ci troviamo di fronte a prescrizioni di Vitamina D non appropriate, ad esempio per le diete dimagranti, non sostenuto dalle evidenze scientifiche».

IL FUTURO DELLA VITAMINA D
La spinta per la prevenzione sanitaria e l’attenzione alla salute sono dei volani importanti per il mercato dei supplementi e degli integratori alimentari. Tuttavia la popolarità di questo o di quel prodotto è assai labile e può cambiare in base a nuovi risultati della ricerca, spinta anche e soprattutto da logiche di mercato che nulla hanno a che fare con la salute dei consumatori. Attualmente sono in corso cinque studi clinici controllati randomizzati che stanno testando l’efficacia della vitamina D. I primi risultati non saranno disponibili fino al 2017: nel frattempo il consumo di supplementi di vitamina D crescerà ancora raggiungendo 1,3 miliardi di dollari di vendite globali al dettaglio dentro il 2017 (nel 2007 erano $ 315 milioni).

 

Soči 2014: le Olimpiadi di Putin

HRW_sochi_olympics_brochure-10L’organizzazione dei Giochi Olimpici non può essere paragonata a quella di nessun altro evento in termini di dimensioni, complessità, ritmo, intensità e posta in gioco. E quasi sempre, a ogni appuntamento, che siano invernali o estive, sono anticipate da una serie di polemiche che in genere riguardano la sproporzione fra i costi esorbitanti sostenuti e i benefici per la popolazione, lo sfruttamento del territorio e della manodopera. Le Olimpiadi che avranno inizio il 7 febbraio prossimo a Soči non fanno eccezione, anzi rappresentano l’esempio lampante e perfetto di quello che ci fa storcere il naso invece che fremere d’entusiasmo, alla vigilia di un evento sportivo di portata internazionale.bloombergJan_2014 Da quando, nel 2007, la Russia si è aggiudicata la gara per ospitare i Giochi Olimpici e Paralimpici 2014 è come se solo ora, a meno di un mese dall’inaugurazione, il mondo cominciasse a prenderne coscienza. I riflettori sono puntati e anche i media non sportivi dedicano Internazionale1033-1copertine e articoli: Internazionale, Bloomberg BusinessWeek, National Geographic. Ma quello che illuminano e rivelano non è propriamente entusiasmante.

COSTI ESORBITANTI E CORRUZIONE
Soči è una località adagiata lungo le spiagge del Mar Nero, una delle poche città subtropicali della Russia, il più grande e frequentato centro balneare estivo del paese. Anche se Soči ospita ufficialmente questi Giochi olimpici, di fatto le gare si svolgeranno ad Adler, 17 miglia a sud lungo la costa, e a Krasnaya Polyana, 29 miglia a est nella catena del Caucaso. Strutture e infrastrutture necessarie per ospitare queste Olimpiadi invernali sono state costruite praticamente da zero e, ora che tutto è quasi pronto, il balletto di cifre stimate per i lavori pare arrestarsi alla somma di 51 miliardi di dollari. Le gare non sono ancora cominciate, ma un primo record è già stato traguardato: queste sono le Olimpiadi più costose di sempre. Più costose di quelle estive di Pechino (43 miliardi dollari), nonostante le Olimpiadi invernali implichino un minor numero di atleti (2.500 contro 11.000), meno eventi (98 contro 300) e un minor numero di sedi (15 contro 40); 5 volte più costose degli ultimi Giochi invernali a Vancouver (9,2 miliardi dollari). Rispetto a queste ultime, è stato calcolato il costo per evento: nel 2010 a Vancouver sono stati realizzati 86 eventi, per un costo di 107 milioni a evento; a Soči sono in programma 98 eventi, per un costo a evento di 520 milioni di dollari. Quando nel 2007 la Russia si aggiudicò la gara, annunciò un budget necessario di circa 12 miliardi di dollari. Anche se la storia insegna che le stime iniziali non sono mai rispettate perché sempre sottovalutate, gli esperti sostengono che una differenza così rilevante può essere spiegata solo considerando il fattore corruzione. I leader dell’opposizione russa hanno valutato che, per ogni dollaro concretamente speso per la realizzazione delle strutture, tre scompaiono. Per esempio, la strada di collegamento dei due principali centri di gara pare che sia costata più di 150 milioni di dollari per chilometro, somma con cui quella stessa strada avrebbe potuto essere interamente pavimentata con un centimetro di spessore di caviale beluga. L’associazione internazionale Transparency International, che ogni anno redige il Corruption Perceptions Index (l’Indice di Percezione della Corruzione, intesa come l’abuso di pubblici uffici per il guadagno privato), colloca la Russia al 127° posto a livello globale (su 175 paesi), parimerito con Pakistan, Mali, Nicaragua. Per avere un’idea, l’Italia è al 69° posto.

TERRITORIO PATRIMONIO UNESCO
Dei 206 progetti di costruzione intrapresi, solo una parte è dedicata alle strutture per lo svolgimento dei giochi in senso stretto: stadi, piste, impianti di risalita e complessi di accoglienza. I lavori più impegnativi sono stati sul fronte delle infrastrutture: centrali idroelettriche, strade, ferrovie ad altà velocità; interventi profondamente invasivi in un territorio a ridosso del Caucaso del Nord, che è patrimonio dell’Unesco. Vista la necessità di realizzare un’ingente quantità di interventi in un tempo risicato, non si sono rispettate le regole legate agli appalti, sono state fatte deroghe alle leggi ordinarie ed è mancato il rispetto e la verifica della situazione idro-geologica del territorio. Gli ecologisti temono che l’alterazione degli equilibri naturali porterà gravi danni a tutta la regione, e già se ne vedono i primi risultati: una città sommersa da un fiume esondato a causa dei detriti scaricati nelle sue acque, la parete di una montagna franata (tirandosi dietro la pista per il salto con gli sci), un porto appena costruito distrutto da una mareggiata non prevista, ma prevedibile.
Il luogo non può definirsi dei migliori neanche dal punto di vista climatico e ora gli organizzatori temono le alte temperature, tanto che 450.000 metri cubi di neve sono già stati accumulati in caso di bel tempo: un vero paradosso, considerando che stiamo parlando della Russia!

DIRITTI UMANI
Il costo dell’intera operazione non si quantifica solo in denaro. Secondo il report redatto da Human Rights Watch molti abitanti della zona e molti lavoratori immigrati per l’occasione diritti umanistanno pagando un prezzo molto alto. Circa 2000 famiglie sono state sfollate per far posto alle costruzioni olimpiche, ma il processo di espropriazione non è stato trasparente. Molte di loro hanno perso case e terreni senza essere adeguatamente rimborsate; altre hanno subito danneggiamenti alle loro abitazioni o vivono sotto la minaccia di crolli e frane causate dai lavori. La necessità di trasformare rapidamente una piccola cittadina come Soči in una sede olimpica ha coinvolto circa 74.000 lavoratori, di cui 16.000 immigrati. Sempre secondo gli osservatori di Human Rights Watch diversi sono stati i casi di abuso e sfruttamento, con stipendi negati o ridotti, mancato rispetto dei turni di riposo, passaporti confiscati, alloggi e sistemazioni per i lavoratori al di sotto della minima soglia di decenza.
L’alta visibilità derivata dalle Olimpiadi poteva essere un motivo per fare pressione sulla Russia di Putin e ottenere cambiamenti sul rispetto dei diritti. Ma non è andata proprio così. Nel giugno 2013 è stata promulgata una legge che vieta la “propaganda dei rapporti sessuali non tradizionali” tra i minori. La legge non menziona esplicitamente la parola “omosessualità”, ma utilizza un eufemismo per dichiarare l’illegalità di eventi, manifestazioni, iniziative pubbliche o private promosse in difesa dei diritti dei gay, o che equiparano le relazioni gay ai rapporti eterosessuali. Nessuno paese ha accolto la richiesta di tanti attivisti e organizzazioni di boicottare questi giochi, ma ci sono state risposte simboliche, come quella del presidente degli Stati Uniti Barack Obama che ha annunciato che non andrà a Soči, ma invierà una delegazione composta di ex atleti dichiaratamente omosessuali. Tra i politici che, si dice, non hanno in programma di visitare i Giochi si annoverano anche il presidente tedesco Joachim Gauck, il cancelliere Angela Merkel, il presidente francese François Hollande e il primo ministro britannico David Cameron.

SICUREZZA
Le Olimpiadi si svolgono in una parte del territorio russo ancora molto instabile politicamente: Soči confina con sei repubbliche autonome della Russia del Caucaso del Nord, sede della seconda guerra cecena ed è confinante con la Georgia, teatro di una recente guerra che ha portato all’annessione della regione autonoma dell’Ossezia del sud. La regione del Caucaso che ospita le gare di sci, fino al 1864 fu abitata dai circassi, quando la Circassia fu invasa dall’Impero russo e più di un milione e mezzo di persone furono uccise o costrette all’esilio. I Giochi olimpici si svolgono proprio nel 150° anniversario di quello che è stato da molti definito un genocidio: www.noSoči2014.com è il sito che rappresenta la protesta dei circassi, il cui primo scopo è quello di consapevolizzare l’opinione pubblica sul passato e restituire alla coscienza un periodo storico che è stato volutamente censurato.
I due attentati suicidi di Volgograd, uno in ottobre e l’altro nel dicembre 2013, non sono stati rivendicati, ma ovviamente hanno sollevato ulteriori preoccupazioni internazionali per la sicurezza durante queste Olimpiadi.

La regione del Caucaso appare una scelta alquanto improbabile per mettere in scena la celebrazione di questa nuova Russia, ma non poteva esserci festa per Putin senza dimostrare al mondo la propria supremazia in questo territorio così combattuto e difficile. Tutti sapevano che i Giochi di Soči erano fondamentalmente una questione di prestigio personale per Putin, una vetrina per esporre al mondo la sua nuova Russia e il fulcro per il rilancio economico e geopolitico del paese. Rinunciando fin da subito a considerare il significato simbolico che i Giochi olimpici dovrebbero manifestare, l’occasione concreta per mettere in campo valori olimpici quali partecipazione, amicizia, lealtà, solidarietà, rispetto, coraggio, pace, uguaglianza e internazionalità, anche le motivazioni sportive mi appaiono ora alquanto offuscate: che peccato!

di Mia Dell’Agnello

Integrazione alimentare: che Zibaldone!

11617.14425Poco più di un anno fa Federsalus (Federazione Nazionale Produttori Prodotti Salutistici) ha presentato una ricerca, realizzata da Eta Meta Research, dal titolo “Il consumo di integratori alimentari in Italia”, volta a indagare l’universo dei consumatori (abituali o saltuari) di integratori alimentari. I dati emersi indicano innanzitutto che si tratta di un fenomeno consolidato, che trova nella ricerca della salute e del benessere psico-fisico la sua motivazione principale. Gli integratori più utilizzati sono soprattutto a base di vitamine, sali minerali (52,5%) e fermenti lattici (36%), seguiti da crusche e altre fibre/lieviti (15,9%) e prodotti energetici sportivi (14,4%). Questi ultimi sono scelti prevalentemente da un pubblico maschile, anche se, in genere, è il sesso femminile a utilizzare maggiormente gli integratori alimentari. A completare il profilo del consumatore, un livello di istruzione medio-alto, con buona predisposizione allo sport e alla cura dell’alimentazione. La maggioranza degli utilizzatori intervistati ne fa un uso regolare da oltre due anni e per gli acquisti si fa consigliare dal medico o dal farmacista, anche se è molto in uso la pratica del “fai da te” e del “passaparola” (quasi il 36% degli intervistati, percentuale che quasi raddoppia fra gli acquirenti del supermercato).
Dai dati presentati emergono due aspetti fondamentali. Il primo, riguarda l’interesse vivo e in crescita nei confronti degli integratori, interesse che non riguarda solo il target degli sportivi, ma fasce sempre più ampie di popolazione; il secondo aspetto pone in primo piano il valore fondamentale della comunicazione e la conseguente necessità di fornire informazioni corrette. In realtà, indagando sia le informazioni che passano attraverso i mass media, che quelle dei canali scientifici “ufficiali”, se ne ricava un quadro molto confuso, quando non contraddittorio, in cui è spesso difficile orientarsi.

L’AMBIGUO MONDO DEI MICRONUTRIENTI
La ricerca nel campo della nutrizione vanta una produzione vastissima di lavori ed è in continua evoluzione, ma questo può spiegare solo parzialmente la difformità di giudizio che emerge, soprattutto a proposito dell’integrazione alimentare dei micronutrienti, fra cui le vitamine rappresentano le sostanze più dibattute. Sono stati realizzati moltissimi studi che definiscono le vitamine “alimenti miracolosi”, così come altrettanti le dichiarano dannose per la salute. In tutti i casi, gli studi sono sempre suffragati da “evidenze scientifiche”. La Vitamina C, secondo le annate, è stata vilipesa o idolatrata. Diventata famosa quale antidoto per il raffreddore, è stata successivamente definita una vitamina “patetica” per la sua inutilità, quindi accusata di far venire il cancro se presa in dosi eccessive, quindi dichiarata in grado di uccidere le cellule cancerogene, se assunta per endovena in dosi elevate. Stessa sorte per la Vitamina D, che la pelle sintetizza come reazione fotochimica all’esposizione ai raggi di luce ultravioletta provenienti dal sole: dopo il grande interesse suscitato negli anni ‘20 per combattere il rachitismo, e il relativo disinteresse nei decenni successivi, è stata nuovamente riesumata per i suoi sorprendenti effetti anti cancro. Strettamente connessa all’osteoporosi, influenza la capacità dell’organismo di utilizzare il calcio. Anche a proposito dell’integrazione alimentare di calcio gli studi scientifici hanno dato risultati spesso contraddittori. Per anni consigliato per la prevenzione e cura dell’osteoporosi, è stato successivamente messo sul banco degli imputati. Uno studio epidemiologico condotto sulla popolazione femminile americana evidenziava percentuali di osteoporosi da record, nonostante i quantitativi di calcio assunti fossero fra i più alti al mondo. Altri studi rilevarono che il calcio preso in eccesso e non assorbito, poteva avere delle conseguenze anche importanti, come l’artrosi, i calcoli renali fino al favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Dunque, si affermò che il calcio non poteva essere assorbito nelle ossa senza l’aiuto del magnesio, dando il via a una nuova produzione di studi volti a suffragarne i grandi poteri: non solo si dimostrò che rallentava la perdita di massa ossea, ma addirittura invertiva il processo di osteoporosi, oltre ad aiutare la prevenzione delle malattie cardiache. Stessa grande confusione anche per quanto riguarda gli intermedi metabolici carnitina e creatina; basti dire, a proposito di quest’ultima, che in Italia il suo consumo è lecito, mentre in Francia è vietato e punito dalla legge sportiva.

FRA MEDICINA E ALIMENTAZIONE
Nel 2002, per uniformare le differenti leggi nazionali e proteggere la salute dei consumatori, è stata emanata la direttiva europea sugli integratori alimentari. Quando la direttiva è stata approvata, alcune questioni importanti sono state rimandate a decisioni future, fra cui i limiti di dosaggio di vitamine e minerali contenuti negli integratori e le fonti di nutrienti da permettere in questi prodotti. A distanza di sei anni, non è ancora stata presa alcuna decisione in merito, e non è difficile capire il perché. Gli integratori alimentari sono disciplinati dalla legislazione sui prodotti alimentari, perché non è riconosciuto loro nessun effetto terapeutico: eventuali indicazioni relative a cura o prevenzione di malattie farebbero rientrare il prodotto nel quadro legislativo dei medicinali. Dunque, si presuppone che l’alimentazione non abbia niente a che fare con la salute: il quadro legislativo dei medicinali, coerentemente, non ha posto per i nutrienti, quindi non si prevede che una sostanza nutriente, anche in forma concentrata, possa avere qualche effetto su una malattia specifica. Partendo da questi presupposti, è difficile stabilire dei limiti di dosaggio. Il contraddittorio di fondo è che da una parte si riconosce l’importanza di una corretta alimentazione per la salute e la prevenzione di alcune malattie, mentre dall’altra si impedisce qualsiasi informazione sulle proprietà dei nutrienti in questo senso. Inoltre, i limiti di dosaggio dovrebbero presupporre un’evidenza scientifica riguardo la dannosità di un nutriente oltre determinati dosaggi, evidenza che, a oggi, non è ancora stata dimostrata. Trattandosi di alimenti, dunque, la decisione se e in quale dose assumerne dovrebbe rientrare nella sfera delle decisioni personali, non certo imposta da direttive governative o sovranazionali. Anche in Italia gli integratori sono considerati come prodotti appartenenti all’area alimentare. Riguardo i livelli di assunzione massima giornaliera, si fa riferimento all’indicazione orientativa e generica di attenersi entro limiti di sicurezza (upper safe level), tenendo in considerazione le RDA (recommended dietary allowances). Eppure, nonostante siano considerati come prodotti alimentari, gli integratori, se assunti a scopo curativo, sono detraibili (fonte: rivista “Primo Piano Fiscale”), quindi considerati come i medicinali. L’Agenzia delle Entrate, infatti, ha affermato che “i prodotti detti integratori alimentari se prescritti da un medico specialista a scopo curativo possono essere detratti ai sensi dell’art. 15 del TUIR. La stessa cosa vale se a prescriverli è il medico di base”. Per la detrazione fiscale occorre lo scontrino fiscale parlante, ossia lo scontrino che indica il nome del prodotto, la natura e la quantità, e il codice fiscale dell’assistito, allegando preferibilmente la prescrizione medica (come avviene per la detrazione di tutti i prodotti non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale).

INTEGRAZIONE SPORTIVA
Nel 2006 è stata condotta un’indagine su oltre 1500 atleti dalla Commissione di Vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute e delle attività sportive del Ministero della Salute (CVD). Il 64% del campione dichiarò di aver assunto prodotti farmaceutici, compresi omeopatici (soprattutto antinfiammatori), e prodotti salutistici in genere, nelle due settimane antecedenti il prelievo. Il 30% dei prodotti salutistici assunti sono rappresentati prevalentemente da sali minerali, vitamine, aminoacidi e derivati, estratti erboristici e da integratori alimentari, ovvero formulazione di varie associazioni di tutti questi prodotti. A farne largo uso sono atleti e sportivi, professionisti e dilettanti, che alimentano un mercato di dimensioni sempre più importanti e con ottime prospettive di ulteriore espansione. Ma se da una parte l’integrazione può costituire un’effettiva necessità, giustificata ed efficace, dall’altra può anche essere inutile ed eccessiva, se non addirittura illegale: il confine tra integrazione lecita e illecita è molto sottile, tanto che la sola definizione risulta estremamente difficile, a partire dal termine stesso di “integrazione”. Con questa parola ci si riferisce al fatto che, durante l’attività sportiva, si consumano sostanze biologiche che poi devono essere reintegrate, supportando i processi naturali fisiologici con aiuti specifici esterni. Eppure, durante l’attività fisica sono diverse le sostanze consumate, incluse quelle ormonali, e questo non può rappresentare un valido motivo per assumere, per esempio, testosterone o GH. Nelle “Linee Guida su integratori alimentari, alimenti arricchiti e funzionali” pubblicate dal Ministero della Salute, si definiscono integratori o complementi alimentari quei “prodotti che costituiscono una fonte concentrata di nutrienti o sostanze a effetto fisiologico, sia mono che pluricomposti, destinati a integrare o a complementare la dieta. Sono presentati in forma di tavolette, capsule, compresse, flaconcini e simili per fornire un apporto predefinito di nutrienti e/o di sostanze a effetto fisiologico”. Nella denominazione deve figurare la dizione “integratore alimentare” o “complemento alimentare”. Sono suddivisi in:
- integratori di vitamine e/o di minerali;
- integratori di altri “fattori nutrizionali”;
- integratori di aminoacidi;
- derivati di aminoacidi;
- integratori di proteine e/o energetici;
- integratori di acidi grassi;
- integratori a base di probiotici;
- integratori di fibra;
- integratori o complementi alimentari a base di ingredienti costituiti da piante o derivati.
Gli integratori alimentari sono naturalmente acquistabili senza prescrizione medica e sono liberamente venduti in farmacia, supermercati, erboristerie, palestre e negozi specializzati. Questa notevole disponibilità ha contribuito a generare molta confusione rispetto alla loro funzione ed efficacia, oltre che un certo avventato pressappochismo riguardo a posologia e modalità d’uso. Soprattutto in riferimento ad alcune categorie di prodotto ci si trova spesso davanti a scelte insidiose, su una linea borderline fra lecito e illecito difficilmente identificabile. Si tratta di un settore in continua evoluzione, in cui, di fatto, la legittimità si basa più su questioni etiche che scientifiche e per questo risulta difficilmente ingabbiabile in una normativa che non lasci spazio alla libertà d’interpretazione e all’abuso. Appellarsi al buon senso, come spesso accade, risulta la migliore soluzione.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 3/2008 

Predisporre all’ascolto: nuovi paradigmi della comunicazione

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C’è una premessa fondamentale e necessaria, senza la quale la comunicazione non può avvenire e riguarda il ruolo dell’ascoltatore, molto spesso dato per scontato da parte di chi, avendo qualcosa da comunicare, presuppone la predisposizione dell’altro a recepire il messaggio. La predisposizione all’ascolto è la condicio sine qua non della comunicazione, intesa come atteggiamento culturale volto a mettere in comune, condividere, partecipare.

LA CAPACITà DI ASCOLTO
Il professor Alfred Tomatis, otorinolaringoiatra italo-francese (1920-2000), ha sviluppato una complessa teoria dell’ascolto basata sulle funzioni neurofisiologiche dell’apparato uditivo, in cui riconosce all’orecchio il ruolo primario non tanto dell’udito (identificato come processo passivo), quanto proprio dell’ascolto, ovvero il processo attivo tramite cui i suoni uditi sono selezionati in base al nostro interesse e viene loro attribuito un significato, evidenziando la relazione esistente fra orecchio, linguaggio e psiche. L’incapacità di ascolto è spesso causata da fattori di natura non organica, ma emotiva e psicologica e si traduce nell’incapacità di selezionare il segnale che ci interessa (escludendo i non pertinenti) e concentrarsi su di esso per elaborarlo e riorganizzare l’informazione. Il cattivo utilizzo di questa funzione, se non correttamente rieducato, può essere causa di diverse patologie: ritardi dell’apprendimento, dislessia, balbuzie, generali difficoltà di interagire con l’ambiente esterno che possono arrivare all’autismo. Spesso, queste disfunzioni sono di tipo difensivo e hanno lo scopo, più o meno conscio, di interrompere la comunicazione con l’esterno.
Il ruolo dell’ascoltatore è tanto più difficile, quanto più la vita sociale è invasa da rumori. La nostra società è caratterizzata da un eccesso di comunicazione: la somma di tanti messaggi diventa un unico rumore di fondo, nel quale si fa fatica a recuperare comunicazioni di significato. Le persone sono considerate come bersagli da colpire con azioni di marketing sempre più esasperate, la cui unica strategia parrebbe quella di gridare sempre più spesso e sempre più forte. Per di più, le nuove tecnologie hanno consentito, nel tempo, l’utilizzo di strumenti sempre più penetranti, che spesso invadono il territorio privato costringendo le persone a difendersi, sia utilizzando barriere tecnologiche (dalla segreteria telefonica ai filtri per la posta elettronica), che, più o meno consciamente, adottando barriere psicologiche di non ascolto.

IL NUOVO CONSUMATORE
Chi ha qualcosa da comunicare deve prima di tutto recuperare l’ascoltatore, utilizzando una forma di comunicazione diversa, volta a restituire valore all’ascoltatore e a riconoscerne la dignità. Tanto più che, di fatto, l’ascoltatore/consumatore la sua dignità se la sta già riprendendo, nel mondo del web, dove nell’arco di pochi anni sono saltati tutti i paradigmi base dei processi comunicativi. La comunicazione tradizionale, strettamente correlata al ruolo che l’azienda si è ritagliata nel tempo, è sempre stata una comunicazione unidirezionale, in cui l’azienda comunicava e il cliente fungeva da ascoltatore passivo. Su questa gerarchia si è strutturato tutto il rapporto azienda-cliente, dalle politiche di marketing alle strategie manageriali. Nella maggior parte dei casi anche le tecniche di comunicazione più evolute si sono concentrate nel costruire un brand aziendale forte e monolitico, volto a rappresentare una realtà irrealmente perfetta, che il consumatore doveva solo assorbire passivamente. Da qualche anno a questa parte, lo scenario si sta modificando e il consumatore, più consapevole, acquisisce una rinnovata dignità, sostenuta dall’utilizzo di nuovi mezzi di conoscenza. Strumenti non convenzionali, svincolati dall’autorità aziendale e non governabili, che hanno consentito il proliferare in rete di social network, blog e community, tramite cui gli internauti si trasmettono informazioni, comunicano, si scambiano opinioni, diventando improvvisamente interlocutori, a volte scomodi, a volte preziosissimi. Sono in numero sempre maggiore le persone che, dovendo acquistare un prodotto o un servizio, utilizzano la rete per avere informazioni, che ricavano non tanto dai siti ufficiali delle aziende, quanto piuttosto utilizzando i social network, per avere il parere di altri consumatori. Il valore attribuito ai messaggi che passano attraverso queste voci è elevatissimo, ed è sicuramente molto più credibile e seguito rispetto ai messaggi confezionati e distribuiti direttamente dalle aziende. La conseguenza di ciò è che anche i paradigmi del buon vecchio marketing si stanno ribaltando: quello che prima suonava come “suscita i bisogni e poi soddisfali”, ovvero spingi il mercato, Push marketing, ora si sta trasformando in Pull marketing, perché sono le persone che valutano, confrontano e scelgono in un contesto libero da contaminazioni aziendali. Utopia? Sicuramente eccessiva lungimiranza, vista la lentezza con cui il mondo imprenditoriale sta reagendo ai nuovi input del mercato, incapace di cogliere una grande, grandissima opportunità.

RECUPERARE IL MERCATO
A noi è capitato un episodio interessante. Volendo scrivere un articolo su di una multinazionale straniera da poco trapiantata in Italia, abbiamo pensato di realizzare un’intervista con il responsabile per il nostro paese che, ben contento, ci ha dato la sua disponibilità. Per raccogliere in massimo delle informazioni possibile, come spesso succede, abbiamo utilizzato la rete, andando a visitare anche diversi blog per capire quale fosse la percezione da parte degli utenti. Non abbiamo trovato sorprese ma, come immaginavamo, pareri positivi e negativi sul servizio offerto, pareri che spesso, trovando corrispondenza fra loro, creavano un’assonanza tale da fortificare i singoli, dando validità e spessore a tutti gli interventi. Formulando la nostra scaletta per l’intervista, abbiamo inserito anche una parte che riguardava le critiche lette, una piccolissima parte, sicuri del fatto che l’azienda avrebbe colto questa opportunità per giustificare, spiegare, confutare ciò che le veniva contestato. Pensavamo che ne sarebbe uscito un articolo interessante, in cui l’azienda avrebbe fatto la sua solita bella figura, ma utilizzando uno strumento nuovo, tanto più che, avendo una struttura molto organizzata, aveva a propria disposizione responsabili marketing, uffici di comunicazione, addetti alle pubbliche relazioni. Una volta ricevuta la scaletta, l’intervista ci è stata negata. Scusate se abbiamo parlato di noi, ma l’esempio ci è sembrato emblematico: l’atteggiamento della maggior parte delle aziende è ancora legato a vecchi moduli di comunicazione, che vivono con l’unico scopo di lustrare un’immagine patinata che non corrisponde mai alla realtà aziendale né, tanto meno, al percepito del mercato. Così il consumatore gioca d’anticipo, scrive il suo parere, confronta e valuta, in un territorio libero dove, volendo, le aziende avrebbero modo di inserirsi, se solo avessero il coraggio di abbandonare i vecchi paradigmi. Il mercato si organizza da solo, più rapidamente, e cerca da solo i prodotti e i servizi che corrispondono alle sue esigenze: in futuro la comunicazione aziendale rischia di essere totalmente tagliata fuori. È questa sordità aziendale, per tornare all’inizio, che impedisce alle aziende di trovare una propria banda passante, ovvero una lunghezza d’onda che le consenta di parlare e di essere ascoltata dal pubblico. Un autismo aziendale causato dall’autoreferenzialità per cui “il mondo sono io”, senza confronto, senza discussione. Recuperare la capacità di ascolto vuol dire riprendere la percezione del mercato, nella consapevolezza che questo non è più costituito da rigidi segmenti di target, ma da persone che oggi hanno la possibilità di scegliere.

THE CLUETRAIN MANIFESTO: THE END OF BUSINESS AS USUAL
Nel 1999 fu pubblicato sul web, ad opera di un gruppo di “comunicatori” (Christopher Locke, Rick Levine, Doc Searls, David Weinberger), un manifesto per la comunicazione d’impresa nel mondo on line, che diventò presto un vero e proprio fenomeno, riferimento fondamentale per il grande spirito innovativo in esso contenuto. Articolato in 95 tesi, il Cluetrain (letteralmente: treno carico di indizi, idee, suggerimenti) si pone come obiettivo quello di sollecitare una riforma del linguaggio utilizzato dalle aziende per comunicare on line. Di queste ne presentiamo solo qualcuna, ma suggeriamo di leggerle tutte: potete trovarle riassunte in Wikipedia, oppure nella traduzione italiana del testo a cura di Antonio Tombolino (Fazi editore). 1. I mercati sono conversazioni
2. I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici.
3. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana.
4. Sia che fornisca informazioni, opinioni, scenari, argomenti contro o divertenti digressioni, la voce umana è sostanzialmente aperta, naturale, non artificiosa.
5. Le persone si riconoscono l’un l’altra come tali dal suono di questa voce.
6. Internet permette delle conversazioni tra esseri umani che erano semplicemente impossibili nell’era dei mass media.
7. Gli iperlink sovvertono la gerarchia.
9. Queste conversazioni in rete stanno facendo nascere nuove forme di organizzazione sociale e un nuovo scambio della conoscenza.
10. Il risultato è che i mercati stanno diventando più intelligenti, più informati, più organizzati. Partecipare a un mercato in rete cambia profondamente le persone.
11. Le persone nei mercati in rete sono riuscite a capire che possono ottenere informazioni e sostegno più tra di loro, che da chi vende. Lo stesso vale per la retorica aziendale circa il valore aggiunto ai loro prodotti di base.
12. Non ci sono segreti. Il mercato online conosce i prodotti meglio delle aziende che li fanno. E se una cosa è buona o cattiva, comunque lo dicono a tutti.
16. Le aziende che non capiscono che i loro mercati sono ormai una rete tra singoli individui, sempre più intelligenti e coinvolti, stanno perdendo la loro migliore occasione.
17. Le aziende possono ora comunicare direttamente con i loro mercati. Se non lo capiscono, potrebbe essere la loro ultima occasione.
18. Le aziende devono capire che i loro mercati ridono spesso. Di loro.
19. Le aziende dovrebbero rilassarsi e prendersi meno sul serio. Hanno bisogno di un po’ di senso dell’umorismo.
20. Avere senso dell’umorismo non significa mettere le barzellette nel sito web aziendale. Piuttosto, avere dei valori, un po’ di umiltà, parlar chiaro e un onesto punto di vista.
21. Le aziende che cercano di “posizionarsi” devono prendere posizione. Nel migliore dei casi, su qualcosa che interessi davvero il loro mercato.
26. Le Pubbliche Relazioni non si relazionano con il pubblico. Le aziende hanno una paura tremenda dei loro mercati.
27. Parlando con un linguaggio lontano, poco invitante, arrogante, tengono i mercati alla larga. 32. Per parlare con voce umana, le aziende devono condividere i problemi della loro comunità. 33. Ma prima, devono appartenere a una comunità.
39. Le aziende fanno della sicurezza una religione, ma si tratta in gran parte di una manovra diversiva. Più che dai concorrenti, la maggior parte si difende dal mercato e dai suoi stessi dipendenti.
58. Questo è suicidio. I mercati vogliono parlare con le aziende.
62. Vogliamo accedere alle vostre informazioni, ai vostri progetti, alle vostre strategie, ai vostri migliori cervelli, alle vostre vere conoscenze. Non ci accontentiamo delle vostre brochures a 4 colori, né dei vostri siti Internet sovraccarichi di bella grafica ma senza alcuna sostanza.
66. Il linguaggio tronfio e gonfio con cui parlate in giro – nella stampa, ai congressi – cosa ha a che fare con noi?
69. Le vostre vecchie idee di “mercato” ci fanno alzare gli occhi al cielo. Non ci riconosciamo nelle vostre previsioni – forse perché sappiamo di stare già da un’altra parte.
70. Questo nuovo mercato ci piace molto di più. In effetti, lo stiamo creando noi.
75. Siete troppo occupati nel vostro business per rispondere a un’e-mail? Oh, spiacenti, torneremo. Forse.
76. Volete i nostri soldi? Noi vogliamo la vostra attenzione.
78. Niente paura, potete ancora fare soldi. A patto che non sia l’unica cosa che avete in mente. 87. Il nostro potere è reale e lo sappiamo. Se non riuscite a vedere la luce alla fine del tunnel, arriverà qualcuno più attento, più interessante, più divertente con cui giocare.
89. Siamo leali verso noi stessi, – i nostri amici, i nostri nuovi alleati, i nostri conoscenti, persino verso i nostri compagni di battute. Le aziende che non fanno parte di questo mondo non hanno nemmeno un futuro.
95. Ci stiamo svegliando e ci stamo linkando. Stiamo a guardare, ma non ad aspettare.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 6/2007

Il futuro non è più quello di una volta*

 *Lawrence Peter Yogi Berra, giocatore e allenatore di baseball statunitense, famoso anche per i suoi aforismi
ingranaggi cervello

Si chiama “singolarità” ed è il periodo storico in cui stiamo entrando, o meglio, in cui siamo già entrati, ma ancora non lo sappiamo. La sua caratteristica principale è determinata dall’innovazione tecnologica che evolverà in maniera così rapida da modificare radicalmente «i concetti base che utilizziamo per dare significato alla nostra vita, dal modo in cui facciamo affari, al ciclo della vita umana, morte compresa». Parola di Raymond Kurzweil, inventore, tecnologo e futurologo, da molti considerato l’erede di Edison, vincitore di riconoscimenti internazionali e autore di diversi libri, fra cui “La singolarità è vicina”, edito da Apogeo. Secondo Kurzweil, la maggior parte delle previsioni a lungo termine è basata su un’interpretazione storica lineare, inadeguata per capire invece il mondo di domani, in cui i cambiamenti determinati dall’applicazione delle tecnologie avranno una velocità di crescita esponenziale. Insomma, l’accelerazione del progresso sarà tale che non è possibile raffigurarsela con i punti di riferimento attualmente a disposizione, se non con un certo sforzo. L’attuale tasso di progresso è stato quantificato, in media, essere cinque volte superiore a quello che ha caratterizzato il ventesimo secolo e raddoppia ogni decade: di conseguenza, nell’arco di venticinque anni avremo l’equivalente di un secolo di progresso. E via, esponenzialmente. I progressi più rivoluzionari hanno a che fare con le nanotecnologie derivate dall’unione tra biologia e informatica, che consentiranno la manipolazione della realtà fisica a livello molecolare. Incredibile? Eppure qualcosa del genere esiste già: si chiama “Respirocyte” ed è un eritrocita nanomedicale, globulo rosso artificiale disegnato in un istituto americano per duplicare tutte le funzioni della cellula. Allo stesso modo saranno realizzati nanorobot molecolari che assolveranno a diverse funzioni all’interno del corpo umano, fino ad arrivare a contrastare l’invecchiamento cellulare… «La singolarità ci permetterà di superare le limitazioni di corpo e cervello biologico. Otterremo il controllo dei nostri destini. La nostra mortalità sarà nelle nostre mani». Altro passo determinante sarà il “reverse engineering”, ovvero la reingegnerizzazione del cervello, partendo dalla sua completa e totale mappatura, per arrivare alla sua riproduzione, incluse le competenze tipicamente “umane” (capacità di risolvere problemi, intelligenza morale ed emotiva…), naturalmente potenziata e migliorata dalle caratteristiche tipiche dell’intelligenza non umana (memoria, potenza, velocità, condivisione di informazioni). «Nei prossimi 25 anni, l’intelligenza non-biologica eguaglierà la ricchezza e la raffinatezza dell’intelligenza umana per poi superarla abbondantemente grazie a due fattori: la continua accelerazione del progresso dell’informatica e la capacità, delle intelligenze non-biologiche, di condividere rapidamente il proprio sapere… Arriveremo al punto in cui il progresso tecnologico sarà talmente rapido da essere incomprensibile per l’intelletto umano non incrementato. Quel momento contrassegnerà la singolarità». Dunque, questi concetti vi paiono incredibili? Anche questo fa parte del quadro: siamo ancora in fase pre-singolarità e i limiti dell’intelligenza umana possono essere superati solo con una grande capacità di astrazione.

INTERNET: NUMERI CHE CRESCONO
La teoria della singolarità è senza dubbio molto affascinante, anche se, come previsto dallo stesso Kurzweil, si fa un po’ fatica a starle dietro. Eppure, riguardo l’evoluzione delle tecnologie, anche noi, anche adesso, avvertiamo un certo disagio nel percepire una velocità di crescita che già esiste e che contamina e modifica tutta la nostra vita; una sensazione di non essere mai abbastanza “sul pezzo”, di essere sempre un pochino più indietro, unita alla desolante consapevolezza che, appena divenuti padroni di una tecnologia, questa sarà già obsoleta. Pensiamo al salto quantico avvenuto negli ultimi venti anni. Negli anni ottanta nessuno avrebbe detto che internet, costituito allora da qualche migliaia di server, potesse diventare un fenomeno di massa. Quando nel 1995 Sergey Brin e Larry Page, poco più che ventenni, cominciarono a studiare il modo per districarsi fra i contenuti della Rete per sfruttare al meglio quello che già allora era un immenso contenitore di informazioni, nessuno avrebbe detto che in un solo decennio quell’esperimento sarebbe diventato Google, un’impresa con diecimila dipendenti sparsi in tutto il pianeta che in Borsa vale più di Walt Disney, Ford e General Motors messe insieme. Anche se le statistiche che vorrebbero inquadrare il “fenomeno internet” risultano spesso poco obiettive, quando non contraddittorie, risulta evidente che tutto ciò che riguarda la Rete continua a registrare segni positivi. Crescono i naviganti, anche se con proporzioni ancora molto legate al livello d’istruzione, e cresce il tempo dedicato alla navigazione. I dati Istat relativi al 2008 sostengono che il 40,2% della popolazione (dai 6 anni in su) naviga in Internet e il 17,7% di loro lo fa quotidianamente. Il Rapporto annuale Censis, raffrontando un periodo di tempo maggiore (2003 – 2007), può parlare di “balzo in avanti” nell’uso di Internet, soprattutto da parte dei giovani italiani tra 14 e 29 anni, la cui utenza complessiva (uno o due contatti la settimana) è passata dal 61% del 2003 all’83% del 2007 e l’uso abituale (almeno tre volte la settimana) dal 39,8% al 73,8%. Secondo una ricerca condotta da Nielsen Online (il servizio di The Nielsen Company per l’analisi e la misurazione certificata di audience Internet, advertising online, video, consumer-generated media, passaparola digitale, e-commerce e più in generale del comportamento dell’utente online) sono aumentati tutti gli indicatori relativi ai consumi internet. Per esempio, analizzando il mese di dicembre, ogni navigatore ha passato nel web 26 ore al mese contro le 20 di dicembre 2007, collegandosi 33 volte e visitando 82 siti, contro le 29 volte e i 66 siti visitati un anno fa. Secondo i dati riportati da Sedo (il più grande portale internazionale per comprare e vendere domini e pagine web su Internet) nel 2008 il numero di domini venduti è cresciuto del 35% rispetto all’anno precedente, mentre il volume totale delle transazioni ha raggiunto i 53.135.710 euro (per curiosità: il dominio più caro del 2008, venduto attraverso Sedo a un prezzo di 1,17 milioni di dollari americani, è stato Kredit.de).

YES, WEB CAN
Oltre a una crescita quantitativa, è importante evidenziare anche una crescita qualitativa nell’utilizzo degli strumenti del web. Sempre secondo i dati presentati da Nielsen Online, il 2008 è stato l’anno di community, blog e social network, un fenomeno che consente di fare almeno due considerazioni. La prima è che la navigazione in rete rientra ormai nei comportamenti consolidati degli utenti, tanto che il legame tra offline e online ne risulta sempre più rafforzato. La seconda considerazione ha a che fare con la “maturità” di utilizzo degli strumenti web, con la capacità di cogliere nella sua pienezza quel nuovo modo di comunicare che sta generando una vera e propria rivoluzione culturale anche nel mondo delle imprese, ribaltando i paradigmi del marketing. I consumatori diventano, finalmente, persone, che tramite il web si confrontano direttamente sugli acquisti esprimendo opinioni e cercando soluzioni “su misura”, tagliando fuori la voce istituzionale delle aziende. Gli “user generated content” (ovvero i contenuti generati direttamente dagli utenti tramite blog, commenti, forum di discussione) stanno acquisendo sempre più importanza nell’orientare i comportamenti di acquisto, tanto da costringere le imprese a interessarsene, trovando nuove modalità di interazione. Per capire quanta potenzialità sia racchiusa nella rete è sufficiente ricordare cosa è capitato alle ultime elezioni americane, nelle quali Barack Obama si è trasformato in un “consumer brand” attraente, globale, riconoscibile e condivisibile. Ha creduto nel modello partecipativo della rete, ne ha assimilato le modalità di diffusione, si è fatto affiancare da una squadra di collaboratori d’eccellenza, del calibro di Chris Hughes, uno dei quattro fondatori di Facebook (24 anni!). È penetrato nell’universo del web 2.0 rifornendo la rete di informazioni, materiali, video, utilizzando i canali di diffusione più tradizionali per i navigatori (come Facebook e MySpace), stimolando conversazioni, raccogliendo opinioni, ascoltando. Ha definito un sito per il social-networking (www.my.barackobama.com, meglio conosciuto come MyBo), strutturato in modo tale da riuscire a mantenere attivi i contatti con milioni di potenziali elettori, tramite conversazioni telefoniche, SMS, email. È riuscito a entrare in contatto (reale, non virtuale) con un numero di persone impensabile senza la rete, favorendone la partecipazione spontanea e diffondendo il proprio “brand” in maniera virale. Tramite microversamenti individuali ha raccolto una quantità di fondi per il finanziamento della campagna elettorale mai raggiunta da nessun altro candidato (a luglio 2008 più di un milione di sottoscrittori avevano versato oltre 200 milioni di dollari). Nel giro di alcuni mesi da Mister Nessuno è diventato il concorrente democratico prescelto per la corsa alla Casa Bianca, superando Hillary Clinton; ora è il primo afroamericano a diventare presidente degli Stati Uniti. Certo, non che il merito sia solo del web, ma che la comunicazione online sia stata fondamentale per il successo di Obama, nessuno lo mette in discussione. Peraltro, anche gli altri concorrenti hanno utilizzato gli stessi strumenti, ma il modo in cui l’hanno fatto è stato differente. Per questo ora il “modello Obama” è diventato materia d’insegnamento presso diverse Università nel mondo. Beh, se non è futuro questo…

di Mia Dell’Agnello

pubblicato su Professione Fitness 2-2009

Quando il corpo e la prestazione diventano un’ossessione

Immagine 1Il corpo è diventato un campo di battaglia: non riusciamo più ad accettarne il naturale sviluppo, ognuno con il suo bagaglio genetico, ognuno secondo i propri limiti. Il corpo perde il suo valore nel presente e diventa un progetto su cui perseverare, inseguendo un’idea, una rappresentazione che nulla ha a che fare con la materia che abbiamo a disposizione. Il corpo è diventato il centro di tutto, occupa lo spazio dei pensieri anche perché, dicono i sociologi, rappresenta l’unico punto fermo in una realtà “liquida” che di punti fermi non ne ha più. Il corpo viene tatuato, schiarito, scurito, ridisegnato, gonfiato, sgonfiato, tagliato e ricucito, sottoposto a regimi alimentari che stenta a sopportare, a fatiche fisiche, cure dolorose. Il corpo ingurgita farmaci, per trovare un rimedio chimico a qualsiasi difficoltà, per inseguire un miracolo o solo per alleviare sofferenze da noi stessi provocate. E sarebbe ingenuo non considerare quanto incidano, su questi cambiamenti sociali, gli interessi di Big Pharma, le grandi case farmaceutiche che investono molto più denaro in marketing che in ricerca e sviluppo, i cui guru della comunicazione sono spesso orientati alla creazione di nuove malattie, o all’allargamento dei loro target con l’inclusione di fasce sempre più ampie di popolazione. La timidezza diventa fobia sociale, la tensione premestruale diventa una sindrome. La menopausa, anziché un normale processo fisiologico, è una malattia da deficienza ormonale. Osteoporosi, ipertensione, colesterolo alto: i fattori di rischio si sono trasformati essi stessi in malattie, ovviamente croniche, e per questo molto remunerative. Nelle linee guida, spesso scritte con le penne delle case farmaceutiche, il confine della normalità di alcuni parametri si sposta sempre più, in modo da aumentare il numero di malati e quindi il bacino d’utenza dei farmaci. Secondo le ultime classificazioni dei livelli di colesterolo, sarebbero circa 40 milioni gli americani che necessitano di cure, mentre il 90% degli anziani sarebbe colpito dall’ipertensione. Normalissime esperienze umane sono vendute come sintomi evidenti di qualche malattia: essere sovrappeso, perdere i capelli, essere timidi, tristi, insoddisfatti delle proprie prestazioni sessuali… le case farmaceutiche sono sempre a caccia di nuove malattie, e noi siamo ben disposti al gioco, pur di avere una facile soluzione per tutto ciò che non ci soddisfa. È la nuova tossicodipendenza, fatta di psicofarmaci, perché la medicalizzazione del disagio è socialmente accettata e la sostanza viene assunta non per fuggire (come nel caso degli stupefacenti), ma per “guarire” il disagio stesso. Quando la ricerca della salute giunge a livelli estremi e ossessivi, diventa essa stessa fonte di malattia.
ragazza schiena 2Anche nello sport stiamo assistendo a un fenomeno di medicalizzazione pericoloso, non solo nella sostanza, ma anche nella forma, come approccio comportamentale, perché suggerisce l’assunzione di “altro” e coinvolge anche e sempre più lo sport non agonistico e gli atleti di giovane età. Si fa spesso ricorso ad aiuti esterni per un corpo che non ce la fa a rispondere ad aspettative elevate: dagli integratori ai farmaci fino ad arrivare al doping, la priorità non è la salute di quel corpo, quanto il risultato che quel corpo può raggiungere. Così il corpo è un terreno su cui esercitare il proprio controllo: un corpo che deve diventare indifferentemente più veloce, più muscoloso, più resistente, più magro, più bello. Impossibile non individuare un filo conduttore comune fra queste diverse espressioni di “eccesso”, che qualcuno definisce “patologie dell’immagine” in cui, dai disturbi alimentari per arrivare al doping, si delinea una dinamica psicologia analoga, ove la dipendenza da un oggetto esterno, sia esso cibo o sostanza chimica, porta con sé una valenza distruttiva, vissuta in modo compulsivo. Una dinamica psicologica che trae sostentamento e forza dagli stessi input sociali e dai medesimi modelli comunicativi. In tutto questo pensiamo che il fitness giochi un ruolo fondamentale. Per discostarsi da quel modello, e per non contribuire a questo gioco al massacro è importante, crediamo, una presa di posizione netta, che mira ancora una volta al riconoscimento del centro fitness come luogo dove si va per stare meglio, partendo dal corpo per arrivare alla testa. Il ruolo educativo è, a questo punto, inevitabile nei confronti di tutti coloro che vi approdano, attirati come mosche al miele. Anoressiche, bulimiche, ortoressici, body builder estremi, malati della forma a tutti i costi, atleti, che dal loro corpo pretendono ciò che naturalmente non riusciranno mai a ottenere, impantanati in un gioco perverso di cui spesso chiedono al professionista del fitness di tracciare le regole: consigli alimentari, supplementazioni, tabelle di allenamento, tutto può diventare strumento atto allo scopo. Da questo gioco è bene prendere le distanze, prima che qualcuno possa trasformare il fitness in una malattia e le palestre in luoghi di perdizione.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Professione Fitness 4/2009

Dal termalismo tradizionale a quello del benessere

19L’Italia è fra le nazioni maggiormente ricche di acque termali, fonti distribuite su tutto il territorio, con una concentrazione maggiore in Emilia Romagna, Veneto, Campania e Toscana. Dati riferiti al 2005 parlano di 390 stabilimenti termali, di cui 308 attivi, dislocati in 159 località. Sui 308 stabilimenti attivi, 65 sono società di capitali; di queste, solo 19 hanno un fatturato che supera i 5 milioni di euro, mentre 22 aziende (circa il 34%) presentano un fatturato compreso fra 1 e 2 milioni di euro, per un giro d’affari totale del sistema termale pari a 317,9 milioni di euro che, includendo l’indotto, sale a 2.140 milioni di euro (dati relativi al 2002). Nel secondo Rapporto su sistema termale in Italia 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore), per la prima volta si utilizza il concetto di benessere termale, inteso “come prodotto che trae forte valore aggiunto dall’utilizzo di risorse, di strumenti ed esperienze termali: in altre parole si validano e si ca ratterizzano quei trattamenti benessere, che possono essere praticati solo nei centri termali, distinguendoli dagli altri che possono essere effettuati ovunque. Il benessere termale è inteso come superamento e integrazione della distinzione e contrapposizione, fino a oggi esistente, fra la concezione termale tradizionale e quella del benessere”.

UN CAMBIAMENTO FATICOSO
Attualmente quello del benessere termale è un mercato molto dinamico e in forte rilancio competitivo, che sta mettendo in discussione il concetto stesso di terme, tradizionalmente ancorato quasi esclusivamente alla cura della salute fisica, con un’offerta di tipo terapeutico, preventivo o riabilitativo. In effetti, le aziende termali tradizionali erano imprese che gravitavano nel regime protetto del Sistema Sanitario Nazionale, la cui proprietà demaniale e gestione pubblica spesso rappresentava un vincolo per il loro sviluppo. Nel momento in cui si è vista la possibilità di allargare l’offerta termale per accogliere la crescente richiesta di benessere, un ulteriore freno è stato dato dalla diffidenza di chi voleva difendere il valore terapeutico delle acque termali dalle contaminazioni del mercato emergente, visto come minaccia da evitare più che opportunità da cogliere. Atteggiamento, questo, abbastanza comprensibile, considerata l’ambiguità con cui veniva volontariamente condotta la comunicazione del mercato benessere. Una comunicazione che spesso danneggiava le aziende termali, proponendo un utilizzo improprio delle parole terme, termale, spa, ecc., abuso compiuto sia dai centri erogatori di servizi benessere (fitness, estetici, day spa, e altri) che dagli stessi mass media. La confusione generata portò a emettere una legge di riordino del settore termale (L n° 323 del 2000), nella quale è stabilito che:
- acque termali sono “le acque minerali naturali utilizzate a fini terapeutici”;
- cure termali sono “le cure, che utilizzano acque termali o loro derivati, aventi riconosciuta efficacia terapeutica per la tutela globale della salute nelle fasi della prevenzione, della terapia e della riabilitazione delle patologie erogate negli stabilimenti termali”.
Pertanto: “I termini terme, termale, acqua termale, fango termale, idrotermale, idrominerale, thermae, spa (salus per aquam) sono utilizzati esclusivamente con riferimento alle fattispecie aventi riconosciuta efficacia terapeutica”. Una serie di fattori ha contribuito a modificare l’atteggiamento di chiusura nei confronti del nuovo:
- il forte calo di cure termali tradizionali (oltre il 38% dal 1990 ad oggi), sempre meno prescritte dai medici di base e sempre meno finanziate dal SSN;
- il processo di privatizzazione della gestione delle aziende termali che, a partire dal 1997, sta lentamente coinvolgendo tutto il comparto;
- la domanda sempre più pressante di prodotti e servizi legati al concetto di benessere.

IL NUOVO PRODOTTO TERMALE
In alcuni casi la scelta di ampliare l’offerta è stata “tirata” dalle richieste del mercato, senza che ci fosse un chiaro disegno strategico, senza consapevolezza, con un atteggiamento ancora poco orientato al mercato. In altri casi, invece, si è cercato un vero nuovo posizionamento competitivo, che fosse frutto di idonee scelte gestionali. L’implementazione dell’offerta non è di così facile attuazione, sia dal punto di vista strutturale (razionalizzazione di spazi per collocare i nuovi servizi), che organizzativo e gestionale, in quanto richiede un forte cambiamento del sistema di offerta e di vendita del prodotto termale. Nello schema successivo sono riassunte leSchermata 2013-12-16 alle 15.21.11 principali caratteristiche delle differenti tipologie di clienti termali. Rispetto alle imprese che si stanno riposizionando in funzione del benessere, si possono identificare due differenti tipologie:
- realtà orientate al benessere in senso stretto che, accanto ai trattamenti medici tradizionali, offrono pacchetti diffe renziati di trattamenti estetici, fitness e terapie alternative;
- realtà che interpretano il benessere in senso più ampio, come svago, relax, l’”otium” dei latini, e che pertanto sono molto legate alla ricettività turistica e alla capacità di intrattenimento.

TERME E FITNESS
Esistono senza dubbio dei fenomeni di convergenza intersettoriale che coinvolge i clienti dei centri fitness, estetici e termali, volti alla ricerca di un’offerta di servizi sempre più integrata. L’ampliamento dell’offerta da parte degli operatori termali non può comunque prescindere dalla necessità di proporre un prodotto personalizzato, che dipende dalla peculiarità delle singole strutture, dalla qualità delle acque, dalla tipologia di clientela, dall’integrazione con i servizi esistenti e dalle caratteristiche del territorio, evitando il fenomeno dell’omologazione dell’offerta, che così tanto e male caratterizza il mercato del fitness. Anche l’offerta di servizi fitness non può essere proposta indiscriminatamente da tutte le aziende termali presenti sul territorio e deve essere adeguata alle aspettative della clientela, chiaramente diverse rispetto a quelle del cliente abituale del centro fitness. Innanzitutto, il tempo a disposizione per le attività è limitato alla permanenza del soggiorno, quindi il cliente termale non si aspetta miglioramenti visibili, non è alla ricerca di una maggiore tonificazione muscolare o performance, quanto piuttosto di una migliore forma psicofisica generale, associata a una cosciente percezione del proprio corpo. La pratica del fitness in questi luoghi è quasi sempre “light”, e può essere considerata come l’occasione buona per insegnare ad associare il movimento con sensazioni positive e per favorire la socialità. Altro discorso riguarda le attività di fitness inserite nei programmi di dimagrimento, in cui la programmazione rigorosa di attività cardio è strutturata all’interno di percorsi alimentari e trattamenti estetici che devono rispondere alle chiare aspettative del cliente. Forse più che in altri luoghi, gli istruttori devono essere dotati di grande capacità comunicativa, flessibilità ed empatia, oltre che, naturalmente, avere tutte le capacità tecniche necessarie per affrontare una clientela molto differenziata. Molte aziende termali offrono attività open air, favorite dalla location delle strutture immerse in ambienti naturalmente privilegiati o in luoghi interessanti dal punto di vista artistico, storico e culturale. Le proposte variano da lezioni di yoga, stretching e attività a corpo libero, a semplici passeggiate, trekking, escursioni in mountain bike fino ad attività sportive vere e proprie come tennis e golf. In molte strutture, (Terme di Saturnia, Terme Felsinee) la presenza di piscine termali, sia interne che esterne, favorisce la proposta di attività acquatiche, i cui benefici sono da assommare alle numerose azioni biologiche esercitate dalle diverse acque minerali termali: – vasodilatazione cutanea e conseguente riduzione della pressione arteriosa;
- effetto miorilassante e antinfiammatorio;
- effetto fluidificante sulle secrezioni;
- naturale azione di peeling, con proprietà esfolianti, detergenti ed antisettiche.
I corsi di acquagym svolti in acqua termale sono studiati in funzione di specifici obiettivi di salute e benessere: dal lavoro cardio-vascolare e di tonificazione muscolare generale, al miglioramento della mobilità osteo-articolare e delle capacità di coordinazione, alla ginnastica antalgica, per la cura di dolori posturali, reumatismi, artrosi e decalcificazioni ossee, fino al fitness vascolare per chi ha problemi circolatori. In alcuni casi esiste un vero e proprio fitness club all’interno delle strutture, che può essere frequentato indipendentemente dai servizi termali, oppure può essere incluso in alcuni “pacchetti benessere”. È il caso delle Terme di Bormio, Terme di Merano, Istituto Talassoterapico di Grado, Terme Pompeo. In altre strutture, invece, il centro fitness, in genere di dimensioni più modeste, è a uso esclusivo dei clienti termali, spesso accompagnati dalla presenza di un personal trainer. Alcuni esempi sono le Terme di Saturnia, Adler Thermae di Bagno Vignoni, Regina Beauty Fitness and Thermal Resort di Aqui Terme. Nelle sale corsi le attività “body&mind” sono quelle maggiormente proposte, accessibili a tutti e per loro stessa natura perfettamente integrate e in linea con le altre offerte del centro termale: ginnastica dolce, Pilates, Yoga, Pancafit, attività che abbinano benefici fisici e psichici, accompagnate dal tipico ritmo “slow” dell’ambiente termale, e che possono essere facilmente offerte con un approccio attento e personalizzato.

BIBLIOGRAFIA
Evoluzione del settore termale, Mirella Migliaccio, Franco Angeli 2005 Secondo Rapporto su sistema termale in Italia nel 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore) 
Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Professione Fitness 4/2007

Disturbi del comportamento alimentare: generalità

introChi soffre di disturbi alimentari molto spesso, nel proprio percorso patologico, approda in un centro fitness: persone in soprappeso, obesi, ma anche anoressiche, bulimici, ortoressici… Tutti con un solo scopo: dimagrire, bruciare calorie. Tutti con un’ossessione, più o meno grave, più o meno consapevole: il proprio corpo, inadeguato, malato, sbagliato, non accettato, spesso soggetto a una visione totalmente distorta.

Tendenzialmente, si individuano tre tipi di disturbo alimentare: Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Anche se a volte si manifestano già a partire dall’infanzia, sicuramente il loro picco riguarda l’età adolescenziale e la prima parte dell’età adulta. Il problema fondamentale è che sono caratterizzate da un esordio in sordina, e per questo insidioso, che spesso ritarda drammaticamente la diagnosi e l’intervento terapeutico. Il più delle volte si ha a che fare con malati invisibili, perché è labile il confine con condizioni di “normalità”: prima di arrivare alla malattia conclamata, infatti, il soggetto vive lunghi periodi di “incubazione” in cui si strutturano tutti i comportamenti che caratterizzeranno poi la malattia. In genere, sono patologie di lunga durata, con un alto tasso di cronicizzazione, caratterizzate da elevati indici di mortalità (dal 5 al 18%, in base alla durata), dovuta a complicazioni (soprattutto a livello del sistema cardiocircolatorio) e non raramente a suicidio. I disturbi del comportamento alimentare rappresentano, per chi ne è affetto, la soluzione, la risposta a un dolore. Si possono individuare alcuni sintomi caratteristici generali:
- irragionevole paura della propria immagine corporea e del giudizio delle altre persone, perché lì tutto è riposto;
- ansia eccessiva riferita al proprio peso, che si manifesta con un utilizzo ossessivo della bilancia, piuttosto che, al contrario, un rifiuto caparbio alla sua misurazione;
- continuo controllo del proprio corpo allo specchio;
- confronto esasperato del proprio aspetto fisico con quello degli altri;
- comportamento nevrotico nei confronti del cibo, caratterizzato da alternanze di digiuni/abbuffate, esagerato utilizzo di prodotti dimagranti e ipocalorici, fino ad arrivare al consumo di diuretici e lassativi; il cibo è il condensato simbolico di tutta la vita affettiva ed emotiva;
- esercizio fisico smodato, anche se non presente in tutti i quadri di DCA.
Non è necessario che tutti questi comportamenti siano manifesti, così come non è detto che rappresentino un DCA in esordio: anzi, molti di questi caratterizzano il periodo puberale e generalmente si risolvono senza conseguenze. La distorsione dell’immagine corporea è centrale nello sviluppo dei DCA, stimolata dai modelli estetici proposti dalla società: il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni si sente soprappeso, mentre il 50% non è soddisfatta del proprio corpo. Inoltre, vale la pena di sottolineare come non tutti i comportamenti considerati “anomali” debbano avere una spiegazione ed essere inquadrati come sintomi preliminari di chissà quale patologia psicotica. Tuttavia, è tendenzialmente vero che i comportamenti sopra descritti sono un segnale di difficoltà, di fronte al quale, senza alcun allarmismo, è bene “drizzare le antenne”.

ANORESSIA E BULIMIA
L’anoressia nervosa è caratterizzata da una profonda paura di aumentare di peso, accompagnata da una visione distorta di sé e da un continuo e progressivo timore di perdere il controllo del proprio corpo. Reprimere lo stimolo della fame innesca un gioco perverso di conferma del proprio potere: più lo stimolo è presente, più si ha soddisfazione nel dominarlo; spesso, questo esercizio di disciplina e capacità di controllo, porta la persona anoressica a sentirsi superiore rispetto agli altri e la spinge a un progressivo allontanamento dagli ambiti sociali. Il disturbo ossessivo-compulsivo, determinato dai continui pensieri sul cibo e sul corpo, spinge la persona anoressica a cercare una propria stabilità instaurando riti e abitudini che caratterizzano giornate e attività. Dal punto di vista clinico, un indice di massa corporea inferiore a 17,5 è sicuramente un segnale molto sospetto, soprattutto se accompagnato da amenorrea (assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi).
La bulimia nervosa è caratterizzata da frequenti abbuffate e dalla totale perdita di controllo sul cibo: le persone bulimiche mangiano per mezz’ora di seguito ingurgitando di tutto, senza scegliere gli alimenti, senza neanche sentirne i sapori. Le abbuffate sono seguite poi da profondi sensi di colpa, e da una grande vergogna per avere perso il controllo. Da qui seguono due comportamenti differenti: nel primo, caratterizzato da condotte di eliminazione, la persona bulimica si induce il vomito per eliminare quello che ha mangiato; nel secondo, senza condotte di eliminazione, l’abbuffata è compensata con periodi di digiuno, attività fisica estrema, utilizzo di diuretici e lassativi. La diagnosi è particolarmente difficile anche perché questi soggetti mantengono un peso normale e spesso riescono a tenere segreti i loro comportamenti. A volte la bulimia è associata a forme di autolesionismo più o meno gravi.
Sia anoressia che bulimia sono disturbi tipicamente femminili (rapporto di 1 a 20) anche se i disturbi alimentari nei maschi rappresentano una realtà epidemiologica in aumento. Mentre nelle donne il tempo medio di latenza è di 4 anni, in genere un maschio entra in terapia dopo 7 anni di malattia, il cui esordio si segnala generalmente intorno all’adolescenza, quando il giovane comincia a strutturare la propria identità adulta. Invece di anoressia, si parla spesso di anoressia inversa, o vigoressia, o dismorfia muscolare, poiché nei maschi la principale causa di dimagrimento è determinata da un eccesso di esercizio fisico; per questo, generalmente, non si arriva mai a perdite di peso gravemente invalidanti. I sintomi maggiormente riconoscibili sono l’assenza di massa grassa e la ricerca, urgente e continuamente insoddisfatta, di incrementare la propria massa muscolare tramite esercizio fisico compulsivo e rigorose diete alimentari fino ad arrivare, talvolta, all’uso di steroidi anabolizzanti.

TRIADE DELL’ATLETA
A volte si ricorre all’attività fisica perché già si soffre di un DCA, alle volte è il praticare un’attività sportiva che può favorire l’insorgenza di un DCA, soprattutto praticando quegli sport in cui il rapporto peso-forma è fondamentale per una prestazione ottimale (ginnastica artistica e ritmica, pattinaggio, danza…). In particolare, in un’atleta di sesso femminile, si parla di “triade dell’atleta” quando compaiono contemporaneamente tre sintomi:
- ridotta disponibilità di energia, che causa un peggioramento della performance;
- irregolarità mestruale;
- fragilità ossea.
Nel tentativo di ridurre al minimo la propria massa grassa, queste atlete diminuiscono eccessivamente l’apporto di cibo, aumentando contemporaneamente le sedute di allenamento e utilizzano lassativi e diuretici in maniera indiscriminata. Il controllo del peso diventa così un’ossessione che, oltre a incidere negativamente sulla performance, predispone l’atleta a fratture, strappi muscolari e a gravi complicanze cardiache e renali.

DISTURBI DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
I sintomi che caratterizzano gli affetti da disturbi da alimentazione incontrollata, in inglese Binge (orgia) Eating Disorder, possono essere paragonati a quelli delle persone bulimiche, con la differenza che i “Binge” non cercano di compensare le calorie introdotte in eccesso. Studi recenti sostengono che a questa categoria appartengano circa il 20% delle persone obese: si abbuffano regolarmente in modo compulsivo e incontrollato, generalmente da soli. Spesso le “crisi” sono precedute da un’emozione o un avvenimento scatenante e sono seguite da disgusto e senso di colpa, una sorta di autopunizione per un disagio interiore che non trova soluzione adeguata, e che si preferisce nascondere con decine di chili di soprappeso. La paura è la condizione cronica che innesca il circolo vizioso: paura di non essere all’altezza, di non essere accettati e rifiutati. Perché si possa inquadrare come un DCA, i soggetti devono avere un indice di massa corporea di almeno il 30% superiore alla normalità, e le crisi di alimentazione incontrollata devono presentarsi con una frequenza di almeno 2 volte alla settimana per 6 mesi.

ORTORESSIA
Consideriamo, infine, un DCA di recente definizione, l’ortoressia, caratterizzato dall’ossessione per un’alimentazione e uno stile di vita salutare, che porta alla selezione esasperata dei cibi e al totale rifiuto di interi gruppi di alimenti, al praticare fitness estremo con un’attenzione psicotica verso il proprio corpo.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Professione Fitness 6/2008

Art4Sport

Art4Sport by Ram FamilyI bambini che hanno subito amputazioni, o che sono nati senza uno o più arti, hanno gli stessi sogni e gli stessi desideri di tutti gli altri bambini. La moderna tecnologia permette di sostituire gli arti mancanti con protesi tecnicamente funzionali ed esteticamente accettabili, anche se ancora molto pesanti e scomode da utilizzare, in particolare per l’arto inferiore, poiché fanno gravare tutto il peso del corpo sui monconi, creando così molti dolori e difficoltà di sopportazione. Per ridurre al minimo questi problemi le protesi devono avere un adattamento perfetto sul moncone e qualsiasi variazione della struttura e del peso del corpo richiede una modifica o una sostituzione. In particolare i bambini, essendo in fase di crescita, devono sostituire le protesi circa 2 volte l’anno. Uno dei migliori sistemi per mantenere una favorevole condizione fisica per il bambino protesizzato è, come per tutti i bambini, quello di praticare attività sportive. Lo sport è fondamentale per la crescita e lo sviluppo non solo dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista psicologico, perché dà enormi motivazioni e soddisfazioni. Sfortunatamente, per i bambini con amputazioni ciò non è facilmente realizzabile e le cause sono soprattutto di carattere economico, ma riguardano anche la mancanza di impianti adeguati e le difficoltà che le singole società sportive riscontrano per procurarsi le attrezzature adatte. Le protesi per le attività sportive non sono sovvenzionate dal sistema sanitario nazionale e anche le federazioni sportive non sono generalmente in grado di accollarsi questi importanti esborsi. Per esempio, un paio di lame da corsa ad alto impatto (tipo quelle di Oscar Pistorius) possono arrivare a costare fino a 50.000 euro. Nel caso di un atleta adulto hanno una durata di 4-5 anni, ma per un bambino la struttura base dura al massimo un paio di anni, mentre gli invasi per i monconi devono essere sostituiti a intervalli di pochi mesi, in dipendenza della crescita individuale del giovane sportivo. Art4Sport è un’associazione no-profit creata da chi crede fermamente nella terapia dello sport per i bambini con amputazioni. Principalmente, si prefigge i seguenti scopi: raccogliere fondi per progetti di ricerca, sviluppo e realizzazione di protesi per attività sportive per bambini e ragazzi; creare un database nazionale di istruttori specializzati per bambini con amputazioni; creare un network globale di organizzazioni che possa essere un valido riferimento per tutti.

Per info: www.art4sport.org

di Mia Dell’Agnello
pubblicato su Professione Fitness 4/2009

Visite e certificati: obblighi, novità e proposte

doctor“Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…” (D.M. 13/09/2012, art. 7 comma 11). Il decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. Che differenza c’è fra la pratica agonistica e quella non agonistica? Che cosa è cambiato negli ultimi 30 anni e che cosa dovrebbe cambiare? Breve viaggio nella vecchia e nuova normativa alla ricerca di soluzioni di buon senso, che guardino non solo l’interesse dei medici o delle strutture che richiedono i certificati, ma soprattutto l’interesse degli utenti.

 Il nuovo decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. La bozza del decreto, presentata alla fine di agosto 2012 e successivamente modificata, prevedeva che i certificati di idoneità, sia per l’attività agonistica che per la non agonistica, fossero rilasciati unicamente dai medici dello sport. L’intento doveva essere quello di porre una maggior responsabilità su un atto che molto spesso è vissuto, dai medici di base e dai pediatri, come una pura formalità. Il “certificato di buona salute”, così si definisce quello che attesta l’idoneità per le attività non agonistiche, non prevede indagini strumentali, ma neanche uno standard esecutivo per la visita clinica, svolta il più delle volte con superficialità, quando non del tutto assente, a fronte del rilascio di un documento il cui valore è esclusivamente burocratico. Il certificato medico è il foglio che serve per iscriversi a un corso, per svolgere un’attività tutelati da una copertura assicurativa. Davanti alla proposta di Balduzzi, la federazione dei medici di base e alcuni enti di promozione sportiva, sono insorti, dichiarando che in questo modo ci sarebbe stato un aggravio di spesa per i cittadini. Così Balduzzi fa marcia indietro, e nel decreto legge, pubblicato il 13 settembre, art. 7 (Disposizioni in materia di vendita di prodotti del tabacco, misure di prevenzione per contrastare la ludopatia e per l’attività sportiva non agonistica) comma 11: “Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…”. Mentre attendiamo che siano rese note le “linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari”, possiamo evidenziare che il decreto Balduzzi colma il vuoto legislativo che il precedente decreto (già citato D.M. 28/2/1983) aveva lasciato. Lì infatti si legge che il controllo sanitario per la pratica di attività sportiva non agonistica è obbligatorio solo per coloro che svolgono attività organizzate dal CONI, da società o associazioni affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali o agli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI; escludendo di fatto tutti i praticanti in strutture private non affiliate (centri fitness ecc.). La questione non era da poco, essendoci di mezzo anche problemi di responsabilità e assicurazioni. E infatti negli anni le interpretazioni si sono sprecate, dovendosi confrontare anche con normative regionali diverse fra loro.

ATTIVITÀ SPORTIVA AGONISTICA
Nel D.M. 18 febbraio 1982 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica” nell’art. 1. si legge che “La qualificazione agonistica a chi svolge attività sportiva è demandata alle federazioni sportive nazionali; o agli enti sportivi riconosciuti”. Di fatto, le singole federazioni utilizzano un criterio anagrafico: la differenza fra sport agonistico e non agonistico è dettata dall’età del soggetto rispetto allo sport praticato. La definizione non ha niente a che fare con i livelli di intensità o di competitività espressi. Come esempio riportiamo gli anni di ingresso per alcune attività:
8 anni – pattinaggio su ghiaccio, ginnastica, scherma, nuoto;
9 anni – baseball, canottaggio, sci;
10 anni – pentathlon, tennis;
12 anni – atletica leggera, calcio, judo e arti marziali, rugby, pallacanestro, pallavolo.
La visita per l’idoneità alla pratica di uno sport agonistico include indagini strumentali e può essere effettuata solo da specialisti in Medicina dello sport all’interno di strutture accreditate in specifici albi regionali. L’indagine viene svolta tramite esami clinici e strumentali:
- visita medica completa e anamnesi;
- spirometria, con determinazione della capacità polmonare statica e dinamica e della massima ventilazione volontaria;
- elettrocardiogramma a riposo;
- elettrocardiogramma sotto sforzo, indotto dallo “step test”, eseguito per 3 minuti su un gradino di altezza variabile a un ritmo stabilito (per 120 movimenti al minuto) con calcolo dell’IRI (indice di recupero);
- esame delle urine completo;
- acuità visiva.
Per alcune discipline sono poi previste ulteriori indagini specialistiche (per esempio pugilato, sci alpino, attività subacquee). Ogni certificato è specifico per uno e un solo sport. Il costo nelle strutture pubbliche è fisso a tariffa regionale, considerata la quota minima applicabile nelle strutture private. Per esempio in Lombardia gli atleti minori di 18 anni tesserati a una federazione o a un ente di promozione sportiva hanno diritto alla visita gratuita, se richiesta da una società sportiva. Per tutti gli altri le cifre sono variabili, mantenendosi in una media di 50/60 euro per uno screening completo. Al termine della visita viene rilasciato un certificato di idoneità, inidoneità (assoluta o temporanea) o sospensione (per ulteriori accertamenti).

ATTIVITÀ SPORTIVA NON AGONISTICA
La visita per l’idoneità alla pratica di sport non agonistico è di prassi svolta dal medico di base e dal pediatra, è generica e valida per tutte le attività sportive non agonistiche. Non tutti sanno che ci si può recare anche nei centri di medicina dello sport, dove si avrà lo stesso “trattamento” riservato agli atleti agonisti (esami clinici e strumentali di cui sopra per un costo medio di 50/60 euro). Anche il certificato rilasciato dal medico di base e dal pediatra è a pagamento e il costo medio varia fra i 40 e i 50 euro. Ricordiamo che il Decreto Bersani del 2006 ha abolito le tariffe minime degli ordini; tuttavia i medici si attengono, generalmente, a quelle suggerite per “deontologia professionale” dagli ordini stessi, che hanno pubblicato dei tariffari di riferimento. Come già detto, in questo caso è prevista solo una visita clinica e non esistono linee guida a cui attenersi, partendo dal presupposto che il medico conosca il proprio paziente e le eventuali patologie di cui è portatore che possono limitare la pratica sportiva. Ma non sempre è così. La visita sarebbe molto utile anche per evidenziare possibili alterazioni strutturali, soprattutto nel periodo di accrescimento, individuando atteggiamenti posturali scorretti o alterazioni della schiena, ginocchio e piede. Quanti sono i pediatri che di routine eseguono queste verifiche? Inoltre, in base alla morfologia e a eventuali alterazioni rilevate, il pediatra potrebbe indirizzare il proprio paziente alla pratica di uno sport piuttosto che un altro o fornire direttamente consigli alimentari e per migliorare lo stile di vita. Veniamo quindi al concetto più importante: il senso del certificato medico.

NON SOLO PREVENZIONE
Il senso della visita di idoneità alla pratica sportiva (sia agonistica che non) è prima di tutto preventivo: evidenziare eventuali anomalie che possano controindicare, anche solo temporaneamente, l’attività sportiva. Tuttavia, questa chiave di lettura ci sembra oggi riduttiva. Se fino a qualche anno fa la tendenza era quella di escludere dalla pratica di un’attività fisica la popolazione che non veniva riscontrata “sana”, ora c’è piuttosto la tendenza a includere, anzi caldeggiare, quando non addirittura prescrivere l’attività motoria anche e soprattutto alle persone fragili dal punto di vista della salute, portatori di fattori di rischio anche elevati per la diagnosi della sindrome metabolica. A dire il vero, facendo un’ampia panoramica sulla letteratura scientifica internazionale, possiamo tranquillamente affermare che sono ormai pochissime le patologie in cui si vieta un’attività motoria. Questa buona pratica rende tuttavia necessario un maggior controllo che non deve tradursi in eccessivo monitoraggio strumentale, quanto piuttosto in maggiore cura nell’indagine clinica. Se il movimento è anche terapia, il certificato dovrebbe anche indirizzare la scelta della pratica motoria, fornendo indicazioni rispetto al “cosa, come, quando, per quanto tempo”. Ovviamente la questione interessa proprio le attività non agonistiche, in questo momento affidate alla buona volontà di medici di base e pediatri. Spostare integralmente questa responsabilità sui medici dello sport, così come prevedeva la bozza del decreto Balduzzi poi modificata, sicuramente non rappresenterebbe un aggravio economico per gli utenti (come abbiamo visto, il costo di un certificato rilasciato da un medico di base o pediatra e da un centro di medicina dello sport sono rapportabili), ma probabilmente non risolverebbe il problema, venendo a mancare quella fondamentale conoscenza del paziente di cui può giovare il medico di base. Tuttavia, il certificato di buona salute per lo svolgimento di attività non agonistiche non può rappresentare solo una conferma scritta della situazione sanitaria generale del soggetto (che dovrebbe essere già a conoscenza del medico o del pediatra), ma deve scaturire da indagini più approfondite, quanto meno mirate all’individuazione dei fattori di rischio più direttamente in causa negli incidenti legati all’attività fisico-sportiva. Sarà poi lo stesso medico di base, che conosce i propri pazienti, a prescrivere la visita di un medico dello sport là dove riterrà importante approfondire gli accertamenti con esami di laboratorio o visite specialistiche per la “prescrizione di terapia fisica”. In questo caso la documentazione redatta risulterà fondamentale per l’impostazione del lavoro da parte dell’istruttore sportivo. Invece di battagliare per il mantenimento di 50 euro di privilegio, forse varrebbe la pena mettersi a tavolino e discutere di questo, che poi è la salute delle persone, con beneplacito di Ippocrate.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 10/2012