Parkinson giovanile: è vietato nascondersi

T1 copiaIl Parkinson non è solo una malattia della terza età: degli oltre 200 mila malati in Italia, circa il 5% ha vissuto l’esordio della malattia prima dei 40 anni. A questa cifra si deve poi aggiungere il “sommerso”, ovvero quei giovani malati a cui il Parkinson non è ancora stato diagnosticato. La mancata diagnosi è da imputare a due motivi fondamentali: il primo è la disinformazione, perché la maggior parte delle persone considera il Parkinson una “malattia dei vecchi”; il secondo è la difficoltà di riconoscere i sintomi. Infatti in giovane età la patologia, almeno inizialmente, presenta delle manifestazioni differenti rispetto all’esordio in età matura: il classico tremore è spesso assente, mentre compaiono un senso generale di stanchezza e un semplice “impaccio” emilaterale dei movimenti, con rallentamento dei riflessi. Il Parkinson giovanile evolve più lentamente e non comporta necessariamente un’aspettativa di vita ridotta. Piuttosto, il problema maggiore, in caso di esordio precoce della malattia, riguarda proprio il decorso prolungato, che costringerà a convivere con una presenza molto, molto ingombrante. Qualità, dosaggi, tempi e modalità di somministrazione della terapia farmacologia diventano in questi casi ancora più importanti, per mantenere la qualità della vita al più alto livello possibile e, di conseguenza, il rapporto collaborativo fra medico e paziente risulta fondamentale e imprescindibile. Altrettanto importanti sono la terapia fisica e l’esercizio motorio.

 MISS PARKINSON

Michela Cancelliere, classe 1959, aveva trentanove anni quando si sono manifestati i prodromi della malattia. I medici sono arrivati alla diagnosi corretta dopo quattro anni, passando attraverso una “sindrome da stress post traumatico”, seguita da una “sindrome depressiva compulsiva” e una successiva “sindrome extrapiramidale”. Quattro anni in cui, oltre alla progressione fisiologica della malattia di Parkinson, Michela ha dovuto sostenere il peso di queste diagnosi, che l’hanno portata a ricoveri psichiatrici, all’assunzione di psicofarmaci e soprattutto a non volersi più bene. Per questo, quando “finalmente” è arrivato il verdetto, malattia di Parkinson giovanile, la prima reazione è stata, per assurdo, di soddisfazione: «In bilico fra la disperazione assoluta e la voglia di combattere più agguerrita che mai, era però tanta la soddisfazione di possedere una certezza che prevalse la seconda». Comincia così un percorso tutto in salita fatto di volontà, conoscenza, ottimismo, ironia, perdono e accettazione, che l’ha portata a riappropriarsi della sua vita, ma non solo. Perché i risultati raggiunti sono stati così importanti che Michela ha voluto mettere la sua esperienza a disposizione degli altri, tramite un libro autobiografico e numerose partecipazioni a convegni sulla malattia, per comunicare a tutti che condurre una vita “normale” si può, anche con il Parkinson. Inoltre, grazie alla sua formazione di insegnante di educazione fisica e alla sua passione per lo sport, sta sperimentando nuove modalità di attività fisica per persone affette da Parkinson. Chi meglio di lei, che vive sulla propria pelle e nella propria anima i disagi della malattia? «…prima inizia a tremare il mignolo della mano sinistra, poi anche l’indice e il tremore si diffonde a tutta la mano. Quindi si diffonde piano a tutto il corpo, partendo dall’arto inferiore sinistro. Ma non è tutto: a questo si accompagna la rigidità dei muscoli che parte dalla cervicale per poi scendere alle spalle e così via. Il risultato è una specie di automa che, se riesce, si muove come uno zombie e, come se non bastasse, ogni tanto si blocca. Si blocca di fronte a dei piccoli ostacoli, alle porte, ai passaggi stretti, se incontra qualcuno che interrompe il suo cammino, costringendolo a deviare».

 DA MISS… A MISSIONE

Come spesso succede, soprattutto quando si ha a che fare con le patologie cronico-DSC_8502bndegenerative, una volta compiuto il ciclo di trattamenti fisioterapici prescritto dal medico, il paziente interrompe totalmente l’attività fisica, anche se gli vengono assegnati dei “compiti motori” da svolgere in autonomia. Come si è visto, lo svolgimento di un’attività motoria per il malato di Parkinson è fondamentale per preservare una buona qualità della vita, tanto più che i miglioramenti acquisiti sono gradualmente persi con la sospensione dell’esercizio. Se la fisioterapia è essenziale, vero è che, per sua stessa natura, viene vissuta dal malato come un intervento terapeutico, con tutte le implicazioni (anche psicologiche) che questo comporta: è difficile entrare in un ambulatorio fisioterapico pensando “che bello, ora mi muovo un po’ e mi diverto…”. Forse, se si riuscisse a sganciare l’attività motoria dal contesto sanitario, proponendola non come “percorso terapeutico”, ma introducendola nello stile di vita della persona, si potrebbero ottenere grandi risultati. Per questo Michela ha ideato un protocollo per i malati di Parkinson da svolgersi in palestra, un mix di attività studiate specificatamente per le necessità fisiche, e soprattutto psicologiche, delle persone.

- Missione Parkinson: di cosa si tratta?

È una mia iniziativa, nata dalla sintesi fra le mie conoscenze tecniche e la mia esperienza con la malattia e dalla volontà di studiare qualcosa che potesse far sentire queste persone “normali”. Io ho 51 anni e in 14 di Parkinson ho sperimentato sulla mia pelle quanto faccia bene verificare di essere in grado di stare insieme agli altri e di fare le stesse cose che fanno gli altri. Missione Parkinson è una lezione di 60 minuti strutturata su tre differenti tipologie di attività fisica (20 minuti ciascuna). Ingrediente fondamentale è la musica, che dona serenità e suggerisce il ritmo. Il disturbo principale della malattia è il bradicinesia, cioè la lentezza del movimento, oltre alla perdita di coordinazione motoria: la musica può allenare entrambi i due fattori. La prima parte della lezione è di Gravity Pilates; con questo attrezzo è possibile lavorare con tutta la muscolatura stando sempre in posizione orizzontale o inclinata, con la schiena in scarico e, soprattutto, evitando la deambulazione, che per il “Park” è l’abilità più difficile da controllare. È un attrezzo che possono utilizzare tutti, anche le persone anziane che hanno già perso la mobilità e che quindi si muovono in carrozzina. Una volta posizionati sulla macchina, riescono a svolgere tantissimi movimenti e questo li riempie di soddisfazione: anche dal punto di vista psicologico è fantastico. Ho utilizzato come base dei protocolli preesistenti, modificandoli in modo da calibrare gli esercizi e adattarli alle singole esigenze. A questo primo progetto hanno preso parte 2 gruppi di 7 persone (dai 40 agli 80 anni), seguiti da 2 insegnanti, con la collaborazione dei caregiver e di una dottoressa. Le sessioni di Gravity si svolgono in un ambiente protetto, una sala piccola, con illuminazione adeguata. La seconda parte della lezione è di fitness e si utilizzano le attrezzature standard, sia cardio che isotoniche. Le macchine isotoniche si utilizzano ovviamente in scarico, e servono più che altro per riportare le articolazioni alla mobilità fisiologica; offrono il grande vantaggio di garantire delle posizioni bloccate, dando la possibilità di lavorare in sicurezza e in autonomia. L’esecuzione degli esercizi deve essere lenta, composta da un numero di serie e ripetizioni ridotto, e pause più dilatate. L’unico problema è stato quello di modulare le mie richieste al loro entusiasmo, perché se all’inizio chiedevo di fare 3 serie da 5, loro ne facevano 3 da 10; allora ho imparato a calibrare le mie richieste tenendo conto del loro “eccesso” di volontà. Delle macchine cardio la preferita è il tapis roulant, utilizzato anche in salita con un’inclinazione fino al 5%, a velocità 1.8, che simula una passeggiata lenta; i “Park” riescono a portare bene il passo e a controllare la posizione delle spalle, perché con le mani possono attaccarsi. Il caso più grave che ha partecipato al progetto, un uomo di 80 anni sulla carrozzella, veniva piazzato di peso sulla cyclette, dopo di che lavorava in autonomia, e pedalava da solo: era un uomo felice. L’ultima parte, psicologicamente meno impegnativa, ma che richiede più concentrazione perché lavora sulla coordinazione, è la “Pdance”, una forma di ginnastica con la musica eseguita su una sedia. Sembra strano, ma in questa posizione si può fare di tutto, coinvolgendo tutti i gruppi muscolari. Quando poi i partecipanti hanno preso confidenza con il movimento e il ritmo, e seguono di più la coordinazione che non l’esercizio in sé, li faccio alzare e la sedia diventa un appoggio per eseguire slanci, passi ecc… sono anche riusciti a ballare il Rock ‘n Roll! L’ultima lezione ho osato a tal punto che li ho fatti alzare dalla sedia, sedere per terra (esecuzione per tanti di loro difficilissima) e ritornare in stazione eretta da soli, di modo che potessero imparare a rialzarsi autonomamente dopo un’eventuale caduta. I risultati sono stati di grande soddisfazione, soprattutto a livello psicologico: si sono divertiti come pazzi! Durante la PDance, che svolgevamo in una sala molto grande, anche i caregiver hanno partecipato spontaneamente alla danza, creando un coinvolgimento emotivo molto bello e molto forte.

- Momenti on e momenti off. Nel tuo libro si legge: “Durante i momenti on si può chiedere tutto, il soggetto può svolgere qualsiasi attività. Quando l’effetto dei farmaci comincia a sfumare, devono essere adeguate anche le richieste”. Come modulare farmaci e attività fisica?

I dosaggi e gli orari di somministrazione sono il punto cruciale della malattia, un percorso che dura anni e che necessita di continui aggiustamenti. Non ci sono studi ben precisi riguardo a come l’attività fisica possa interferire con l’assunzione di farmaci, però io sono abituata a monitorarmi molto e prendo nota di tutte le modifiche importanti. Recentemente ho scritto questo appunto, che riassume un po’ tutto: quando mi fermo, mi viene il Parkinson. Se mi fermo la mia terapia non funziona, perché è calibrata su di un corpo sempre in movimento, su ritmi molto serrati, anche se non stressanti: quindi l’implicazione è evidente. Quando un parkinsoniano sedentario comincia a praticare attività fisica, ha inizialmente bisogno di una maggiore copertura farmacologica; ma il movimento induce il corpo a produrre di più: si tratta solo di innescare il meccanismo. Senti, io non sono un neurologo, però ho fatto questo ragionamento:

- io non produco dopamina;

- la dopamina è prodotta dalla substanzia nigra encefalica, ma anche dalle ghiandole surrenali; è un precursore dell’adrenalina e della noradrenalina (è una sostanza intermedia nella biosintesi dell’adrenalina) e tutt’e tre sono catacolamine;

- quindi, tutto ciò che stimola la produzione di adrenalina fa aumentare la produzione di dopamina, ovvero

- siamo sicuri che il movimento va in quella direzione.

Anche l’attività fisica, di conseguenza, deve essere dosata e monitorata tanto che, quando io faccio molto movimento in più rispetto al mio standard, rimango sovra dosata. D’altra parte ho sperimentato che quando sento che sono a fine dose (i motivi che possono interferire sui dosaggi sono tantissimi e spesso imprevedibili), quando comincio a sentire il blocco (inizia una rigidità al collo, che poi scende), mentre gli altri si siedono, io inizio a muovermi, eseguendo esercizi complessi (ruota, verticale…). Non passano dieci minuti che mi passa tutto: perché mi aumenta il metabolismo! In me funziona così ed è da 10 anni che lo sto sperimentando.

- Missione Parkinson è adattabile a qualunque l’età e a qualunque stadio della malattia?

Il protocollo è per tutte le età e per tutti gli stadi della malattia, sicuramente consigliato in caso di Parkinson giovanile, anche se sono proprio loro le persone più dure a convincersi, soprattutto se manca un vissuto sportivo. Io con il Parkinson ho acquisito una sensibilità propriocettiva amplificata al massimo, perché sono sempre pronta ad ascoltare il mio corpo, e i sintomi della malattia che devo tenere sotto controllo: io scio meglio adesso rispetto a quando non ero malata!

- Alcuni studi dimostrano che l’esercizio fisico finalizzato a una specifica attività (la pratica di uno sport) è più efficace sia in termini di programmazione motoria, che per le valenze ludiche e ricreative in esso contenute: quali possibilità ci sono per un malato di Parkinson di svolgere un’attività sportiva vera e propria? Nel libro racconti della tua esperienza con il nuoto, un piacere inizialmente negato dalla rigidità effettiva del tuo corpo e, successivamente (una volta intervenuta la terapia farmacologia), dalla paura di essere colta in acqua da rigidità improvvisa. Poi lo sblocco… È un obiettivo che tutti possono raggiungere?

Certo che è possibile conciliare le attività sportive. Io sono testimonial della malattia per una casa farmaceutica e fra i testimonial (io sono l’ultima arrivata) c’è una maratoneta tedesca di 50 anni. Non è che non passi i momenti duri, anzi, quelli se vuoi sono importanti per ricordarti che ce l’hai anche tu il Parkinson, però li superi, con volontà. Ci sono tante persone sportive che hanno questa malattia e nessuno nemmeno se ne accorge! A me piacerebbe che si esponessero, così come ho fatto io, perché potrebbero essere di stimolo agli altri. Anche chi non ha un vissuto sportivo alle spalle può iniziare con il Parkinson a praticare attività sportiva, ovviamente seguita, dosata, monitorata e, soprattutto, senza pretendere performance eccessive dal proprio corpo.

- Che cos’hai in programma per il prossimo anno?

Riprenderò Missione Parkinson, per due ore un pomeriggio la settimana con gruppi molto ristretti, di 4/5 persone. Mi farò dare uno spazio nella palestra che già mi ha ospitato, il Centro Sportivo Merone, un centro privato che mi ha messo a disposizione, gratuitamente, 3 sale contemporaneamente per svolgere il mio protocollo con la collaborazione del direttore Marco Saoncella, istruttore fitness, nuoto, aquagym e Gravity. È una palestra molto bella, con una piscina 25 mt, una sala fitness attrezzatissima, due sale corsi, e propone tantissime attività e servizi, ivi inclusa la riabilitazione. Purtroppo non è un centro convenzionato con l’Asl e questo è un vero peccato, soprattutto pensando a una collaborazione protratta nel tempo. Un altro progetto che ho intenzione di realizzare è centrato sulla conoscenza della malattia, un punto veramente fondamentale, che al momento è lasciato alla libera iniziativa dell’individuo: i neurologi il Parkinson non te lo spiegano e in una malattia neurodegenerativa cronica non puoi accontentarti di quella visita neurologica ogni due mesi (se va bene) per 20 minuti, mezz’ora. Le problematiche che ruotano intorno al Parkinson sono sempre le stesse: l’accettazione della malattia, la conoscenza, il rapporto difficile con il medico e il monitoraggio. Io ho in mente un evento che ha per titolo “La scuola per pazienti professionisti”. A febbraio ci sarà un incontro a cui parteciperanno 7 neurologi, 6 pazienti e 2 psicologi per affrontare queste tematiche: per la prima volta neurologi e pazienti lavoreranno gomito a gomito, e da questo incontro ne uscirà un manuale, “Il paziente professionista”, che spero di pubblicare entro giugno dell’anno prossimo. Se la malattia è un disequilibrio, io oggi ho trovato l’equilibrio nel disequilibrio e quindi sono, di fatto, guarita. Io non mi considero una malata di Parkinson, io mi considero Michela Cancelliere, con il Parkinson.

MISS PARKINSON STORIA DI UNA DONNA CHE NON SI È MAI ARRESA, Edizioni San Paolo
Il morbo di Parkinson colpisce in Italia oltre 220.000 persone. Il malato di Parkinson si trova a dover affrontare movimenti involontari eccessivi, blocchi motori improvvisi, tremore e rigidità, difficoltà di parola, depressione e allucinazioni. Erroneamente si crede che la malattia accompagni i disturbi della vecchiaia, in realtà, in Italia 10.000 pazienti hanno meno di 45 anni e nella maggior parte dei casi la patologia insorge prima dei 60 anni. Questa è la storia di Michela, insegnante di educazione fisica superattiva, che scopre un giorno, dopo una diagnosi sbagliata, di essere affetta dal morbo di Parkinson, una malattia cronica che toglie progressivamente autonomia a chi ne è colpito. Invece di deprimersi, Michela coglie la malattia come occasione di una nuova vita nella quale ricominciare a vivere in modo diverso da prima. Un racconto in prima persona bellissimo e di grande potenza umana.
Michela Cancelliere, nata a Monza nel 1959, si è laureata all’I.S.E.F. di Milano nel 1981, e attualmente insegna educazione fisica al Liceo scientifico “Galilei” di Erba. Qui racconta la sua storia, che vuole dare un messaggio positivo e ottimista.
 
di Mia Dell’Agnello
Nelle foto: Michela Cancelliere
Pubblicato in Fitmed online 12-2010

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