In Italia si definiscono lungoviventi, termine un po’ brutale nella sua concretezza, che sottolinea un mancato appuntamento con la morte. Le lingue anglosassoni insistono maggiormente sull’aspetto eroico e quasi leggendario della parola survivors, sopravvissuti, superstiti. In entrambi i casi ci si riferisce agli ex malati di tumore, che vincono la loro battaglia contro la malattia. In Italia, secondo l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) sono circa il 55% coloro che sopravvivono a 5 anni dalla diagnosi. E anche se l’incidenza di queste patologie è in aumento (anche per l’allungamento della vita media), i dati relativi agli ultimi decenni mostrano che l’incremento della mortalità va rallentando rispetto all’incidenza, grazie al miglioramento della diagnostica e dell’efficacia delle terapie a disposizione, oltre che alla diffusione di una cultura generale che pone maggiore attenzione alla salute. Eppure, l’atteggiamento culturale maggiormente diffuso fa sì che la parola “cancro” sia ancora strettamente connessa al concetto di morte e di inguaribilità, tanto che il solo parlarne è spesso un tabù. Così, il malato di tumore si trova a dover superare, oltre ai problemi fisici, anche degli ostacoli psicologici importanti: la sola diagnosi della malattia impone il confronto con l’idea della morte, che apre un processo di crisi dell’individuo malato e di frattura rispetto alla normalità, rispetto alla vita “di prima”. Per questo è nata la Psiconcologia, “una disciplina che si occupa, in maniera privilegiata e specifica, della vasta area delle variabili psicologiche connesse alla patologia neoplastica e in generale delle implicazioni psico-sociali dei tumori. Essa nasce e si impone in funzione delle complesse problematiche psicologiche ed emozionali, che interessano la maggior parte dei pazienti affetti da cancro, nel porre attenzione a queste problematiche…”. In questo panorama è nato il progetto “Sport e salute in oncologia”, curato dal professor Riccardo Torta, direttore della struttura di Psiconcologia dell’ospedale Molinette di Torino, a cui aderiscono il Dipartimento di Scienze Cliniche dell’ospedale Sacco di Milano (professor Massimo Pagani) e l’Istituto Universitario di Scienze Motorie – Università degli Studi di Roma (professor Fabio Pigozzi).
Professor Riccardo Torta, da dove nasce questo progetto?
I pazienti che hanno superato il percorso medico, non sempre riescono a raggiungere un recupero funzionale adeguato dal punto di vista emotivo, perché permane in loro il senso di malattia: è quindi necessario restituire un rapporto fiduciario con la salute, con un corpo che, in qualche modo, un po’ ti ha tradito. In tutti i paesi dove la mortalità in oncologia va drammaticamente riducendosi in senso positivo, sale l’attenzione per persone che sono “guarite”, dove le virgolette sono d’obbligo per sottolineare che questa è una malattia che può ritornare: da qui il senso d’insicurezza e l’esigenza di proteggere il corpo quanto più possibile attraverso stili di vita sani, dieta, attività fisica e abitudini corrette. I “sopravvissuti” devono impegnarsi anche su un recupero della propria immagine corporea, sentire che il loro corpo è ancora lì e che funziona.
Quali i vantaggi nella pratica dell’attività sportiva?
In ognuno di noi nascono di continuo cellule tumorali, che sono poi uccise dal sistema immunitario: un tumore si sviluppa perché ci possono essere dei geni di suscettibilità che, per qualche motivo emozionale, ambientale, occasionale, il sistema immunitario non riesce a contenere. E poiché è risaputo che l’attività fisica svolge un ruolo importante nel potenziare il sistema immunitario, è chiaro che, superata la fase acuta della malattia, praticare attività fisica è di grande giovamento, anche sul tono dell’umore: il malato depresso ha meno difese. Naturalmente questo non è l’unico parametro, altrimenti gli sportivi professionisti non si ammalerebbero mai di tumore… Ma per un paziente che è sopravvissuto e che ha già completato tutte le cure che la medicina gli può garantire, l’attività fisica può svolgere un ruolo essenziale sia dal punto di vista fisico (come rinforzo immunitario, appunto) che psicologico (per recuperare il rapporto con il proprio corpo). Questo è un concetto ampiamente diffuso e avvalorato dalla letteratura medica; ora, con il nostro progetto noi intendiamo impostare un percorso strutturato e qualificato, che possa essere utilizzato come linea guida per la riabilitazione del paziente oncologico.
A che punto è il progetto?
Il progetto è già stato presentato ed è pronto sia dal punto di vista clinico che scientifico, ma purtroppo mancano i fondi per farlo partire. Nelle nostre intenzioni il lavoro, che include il coinvolgimento di tre città pilota (Torino, Milano e Roma), è impostato su tre step:
1. valutazione psiconcologia per selezionare i soggetti (emozionalmente non tutti hanno voglia di cominciare a praticare attività sportiva);
2. valutazione della medicina dello sport per stabilire quale tipo di attività sia maggiormente indicata per questo o per quel paziente (chi ha avuto un cancro alla prostata, per esempio, è meglio che non pratichi il ciclismo);
3. “consegna” del soggetto a operatori di scienze motorie o a strutture in qualche modo validate, certificate dal punto di vista della qualità clinica e scientifica. Premessa la necessità di mantenere un controllo, soprattutto qualitativo e valutativo, l’intenzione è quella di demedicalizzare il più possibile il soggetto, portandolo fuori dai circuiti medici tradizionali.
Quando un paziente oncologico finisce di essere considerato tale? Quando smette di fare terapia attiva ed entra in una dinamica di controlli periodici: è a questo punto che si inserisce il nostro progetto. Sia chiaro, non che l’attività fisica non si possa praticare anche durante le cure, m a noi vorremmo chiudere il percorso di malattia ed entrare in un percorso di recupero, anche psicologicamente è importante.
Come è impostato il progetto?
Il protocollo scientifico prevede la valutazione di specifici parametri, sia biologici che psicologici. I parametri biologici sono sostanzialmente quelli immunitari: come aumentano i natural killer (cellule di difesa contro le cellule oncologiche) o come si riducono gli ormoni dello stress. I parametri psicologici riguardano la qualità di vita, il senso di autoefficienza, lo stile di coping. Coping è un termine inglese che non ha una specifica corrispondenza in italiano, ma indica come un soggetto si adatta a situazione stressanti, nel nostro caso come il paziente si confronta con la malattia: con atteggiamento di negazione, di fatalismo, di spirito combattivo…
Abbiamo poi previsto valutazioni specifiche legate all’ansia, alla depressione, alla “fatigue”, ovvero quel senso drammatico di stanchezza che sentono quasi tutti i malati oncologici, anche quando la malattia o le cure non sono di per sé giustificanti: è stato già sperimentato che, paradossalmente, la “fatigue” migliora con l’attività fisica, piuttosto che con il riposo forzato.
Prevediamo un tempo di realizzazione di 3 mesi + 3, con valutazioni a T0, T3 e T6 mesi, e un gruppo di controllo con cui lavoriamo solo con tecniche di rilassamento.
Attualmente, quando un paziente conclude il ciclo di cure, gli è solo suggerito di praticare attività fisica oppure potete comunque indirizzarlo a specifici centri di rieducazione e riabilitazione?
Il punto è estremamente dolente. Noi stiamo cercando di formulare un protocollo nazionale per indagare quale sia la reale offerta di riabilitazione oncologica, perché in effetti i centri sono pochi e spesso operano con interventi limitati: per noi la riabilitazione oncologica non si deve limitare al recupero del danno chirurgico, come può essere lo svuotamento del cavo ascellare dal linfedema post chirurgico; per noi è un concetto molto più allargato. Inoltre queste strutture si trovano per lo più all’interno degli istituti o dei reparti di oncologia e noi vorremmo superare questo impasse, che anche dal punto di vista psicologico è penalizzante: un conto è dare un appuntamento in ospedale per un massaggio, un conto è trovarsi al parco per una passeggiata…
I TUMORI IN ITALIA (dati relativi al 2007)
Ogni anno in Italia si registrano circa 240 mila nuovi casi di tumore e 140 mila sono i decessi. Ci sono dunque quasi un milione e mezzo di persone affette da questa malattia, fra pazienti guariti, nuovi casi e quelli in trattamento. Oggi in Italia la sopravvivenza relativa standardizzata a cinque anni dalla diagnosi è del 45,7% negli uomini e del 57,5% nelle donne, per tutti i tumori esclusi i carcinomi della cute. Ci sono però differenze dal punto di vista geografico: in genere, la sopravvivenza al Nord e al Centro è più alta di circa il 10% rispetto al Sud. La percentuale di sopravvivenza dipende in modo significativo dal tipo di tumore: i più mortali sono i mesoteliomi (8,2%), i tumori dell’esofago (11,5%), del fegato (10,5% per gli uomini e 11,6% per le donne), delle vie biliari (13,7%), del pancreas (5,1% per gli uomini e 7,8% per le donne), del polmone (11,9% per gli uomini e 15,3% per le donne) e dell’encefalo (18,9% per gli uomini e 20,4% per le donne). Le prospettive di sopravvivenza migliori, invece, sono per i tumori al labbro (89,5%), i melanomi della pelle (79% per gli uomini e 87% per le donne), i tumori della mammella (82,6%), del corpo dell’utero (75,9%), della prostata (78,5%), del testicolo (88,1%), della tiroide (79,1% per gli uomini e 88,1% per le donne) e i linfomi di Hodgkin (80%).
Fonte: ISS, Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute
PROFESSOR RICCARDO TORTA
Professore Associato di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Neuroscienze di Torino; direttore della Struttura Complessa di Psiconcologia del Dipartimento di Oncologia dell’Università e dell’A.S.O San Giovanni Battista di Torino. È autore di oltre 550 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali in ambito psicologico clinico, psichiatrico, neurologico, oncologico, neuropsicofarmacologico e di 18 libri su tali argomenti.