Nonostante i progressi compiuti dalla medicina, l’aspettativa di vita delle prossime generazioni sarà inferiore a quella attuale. E questo è un orribile paradosso.
Soprappeso e obesità sono due argomenti difficili da trattare, indagare e definire e più ci si addentra nella “materia” più se ne scopre la vastità. Dopo aver letto un po’ di tutto a riguardo, se ne può uscire con una sola, limpida certezza: non è pensabile inquadrare la questione solo in termini di consumi calorici. Di conseguenza, la presa in carico di una persona in soprappeso richiede, prima di tutto, che si parta da questa consapevolezza: se l’intervento sarà limitato e circoscritto alla sola somministrazione di attività fisica, l’insuccesso sarà quasi sempre inevitabile.
QUANDO NUMERI E DEFINIZIONI NON AIUTANO Soprappeso e obesità non sono la stessa cosa, anche se per la maggior parte dei media non è così; c’è da dire che anche la divulgazione istituzionale, e a volte addirittura quella scientifica, peccano dello stesso pressappochismo, mischiando dati e statistiche che narrano di una razza umana destinata a soccombere sotto il proprio peso. In Italia, secondo le recenti dichiarazioni del direttore del Centro studi sull’obesità dell’università di Milano, Michele Carruba, nel giro di pochi mesi siamo passati da una percentuale del 36% di persone in soprappeso al 50%. Io mi guardo in giro, ma non li vedo mica tutti questi ciccioni: il 50%… non ci credo, guarda un po’, e non mi vergogno a dirlo. Anche l’OMS stenta a portare chiarezza. La classificazione di riferimento si basa su di un parametro che è già di per se stesso discutibile: il BMI, secondo il quale Arnold Schwarzenegger rientrerebbe nel girone degli obesi. E ancora, all’obesità e al soprappeso si associano parole come epidemia e pandemia, riferibili solo a malattie infettive trasmissibili per contagio, la seconda con l’aggravante di una diffusione globale ed elevata mortalità. Non si capisce perché, a questa stregua, non si definisca anche il cancro come una malattia pandemica. Inoltre, come è possibile definire il soprappeso una malattia? A dire il vero, io opinerei anche sull’obesità, ma sul soprappeso non ci possono essere fraintendimenti: si chiama fattore di rischio, non malattia. E non si tratta si speciosità letteraria, di raffinatezza linguistica: qui è un problema di pertinenze. La malattia la cura il medico, con il suo corollario di strutture, esami, farmaci. Il soprappeso non è una condizione da “curare”. Se è vero che la definizione di salute data dall’OMS è espressione di progresso (“stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”), è vero anche che include, volendo, un orribile tranello: non è che, una volta svincolato il concetto di salute dalla stretto significato di “assenza di malattie”, apriamo la strada a nuove interpretazioni di processi finora considerati fisiologici?
L’ASPETTO SOCIO-CULTURALE: VITTIME O COLPEVOLI? Le posizioni rispetto alla questione sono molto differenti. Un modello condiviso da molti è quello educativo-colpevolizzante, che si basa sull’assoluta certezza che tutto il problema sia racchiuso nel “Big Two”, ovvero cibo e attività fisica, le uniche due variabili (a parte nei casi di obesità patologica) da cui dipende l’accumulo di adipe. Noi siamo delle macchine che necessitano di energia per lavorare; l’energia è il cibo. Se ne assumiamo in dosi e modalità corrette, la macchina è in equilibrio, altrimenti, se questo rapporto si altera per eccesso di cibo o scarsità di attività fisica o per entrambi i fattori, la macchina uomo accumula grasso. Per cui, i rimedi sono facili ed evidenti: il soprappeso è ricondotto a una questione di volontà e autodisciplina. Se sei grasso è colpa tua. E se fai spendere tanti soldi allo stato per la tua assistenza sanitaria devi assumerti parte di quelle spese. È di questo parere il Prof. Arsenio Veicsteinas, Ordinario di Fisiologia Umana, Direttore dell’Istituto di Esercizio Fisico, Salute e Attività Sportiva, Università degli Studi di Milano che, in modo provocatorio, ha dichiarato che il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe richiedere un “ticket aggiuntivo” ai soggetti in soprappeso, ma sani, che richiedono visite mediche specialistiche ed esami integrativi. Da questa posizione educativo-colpevolizzante partono alcune iniziative politiche “curiose”, come il programma “Pounds for pounds” in fase di sperimentazione nell’Essex, Regno Unito. In pratica, ogni partecipante, obbligatoriamente caratterizzato da forte soprappeso, sarà premiato dal servizio sanitario britannico con una sterlina (sotto forma di buoni shopping) per ogni chilo buttato giù. A questo stesso modello si ispirano le cosiddette “fat tax” adottate in diversi paesi del mondo, Stati Uniti in primis, con differenti modalità di attuazione, tendenti comunque a colpire economicamente produttori, fruitori e “portatori” di grasso. Sulla stessa linea la decisione presa da diverse compagnie aeree di far pagare un sovrapprezzo alle persone obese, perché di fatto occupano due sedili o comunque perché fanno consumare più carburante (così come si paga un extra per il bagaglio che supera un certo peso…). Alcune università americane a numero chiuso selezionano gli studenti anche in base al peso, mentre altre non rilasciano i diplomi di laurea a chi valica la soglia massima di BMI. E ancora, alcune società di assicurazioni fanno pagare una sovrattassa per l’assicurazione sanitaria alle persone in soprappeso. Secondo Jason Docherty, presidente della National Association to Advance Fat Acceptance «l’America è la nazione del politically correct, dove in linea di principio non è consentito neppure fare dell’ironia in base al sesso, all’etnia, alla religione. L’unico caso in cui è diventato accettabile una sorta di linciaggio psicologico, è contro gli obesi».
FAT-ISM Un’altra posizione, diametralmente opposta a quella educativo-colpevolizzante, è quella che riconosce nell’obesità un fortissimo aspetto invalidante, sia legato a disabilità fisiche, che psicologiche e sociali. È di questo avviso Matilde Leonardi, Neurologo e Pediatra dell’Istituto Neurologico “C. Besta” di Milano, che da anni si occupa dei temi legati alla disabilità. Nella definizione di disabilità l’ambiente è l’elemento indispensabile per poterne dare una definizione: la disabilità nasce dal rapporto fra un corpo e un ambiente che non sono totalmente compatibili. Intervenire sulla sola menomazione è un’azione di tipo fallimentare, soprattutto perché spesso si ha a che fare con problemi cronici. Quindi è necessario puntare non solo al miglioramento della funzionalità corporea, ma anche e soprattutto sulla partecipazione sociale. Alla persona obesa viene negato un ruolo sociale e se a questo aggiungiamo che l’indice di massa corporea è più elevata tra i più bassi gruppi socio-economici, appare evidente come il soggetto obeso sia ad altissimo rischio di emarginazione. “Fatism” è il termine utilizzato per definire l’atteggiamento discriminatorio contro le persone soprappeso e obese, ritenute nel pensare comune di essere pigre, con poco controllo, di umore instabile, poco attente all’igiene personale: le persone obese sono considerate responsabili della loro condizione e un corpo imperfetto riflette una persona imperfetta. Trovo bellissima l’interpretazione che Luisa Stagi (dottore di ricerca in Sociologia e Metodologia della ricerca sociale) fa della bulimia come la risposta più conforme alle attese della società; una società che da una parte richiede di consumare e dall’altra esige corpi magri, da una parte spinge all’edonismo e dall’altra premia l’autocontrollo. La persona bulimica si accetta attraverso l’accettazione dell’altro. Da questo punto di vista, al contrario, l’obeso è disprezzato ed emarginato perché non si attiene alle richieste della società, o almeno lo fa solo in parte, consumando.
BIG TWO: UNA TEORIA SUPERATA La teoria del Big Two negli Stati Uniti è stata da anni messa in discussione, fondamentalmente perché, si è rilevato, non è più sufficiente a spiegare l’impennata di obesità degli ultimi anni. Pur non volendo dar peso ai numeri, è innegabile che una visita alle terre d’oltreoceano sia sufficiente per rendersi conto della portata del fenomeno: impressionante. Proprio nella patria del fitness, del jogging, dello sport scolastico nella sua più ampia espressione. E davanti a questa moltitudine, anche la posizione educativo-colpevolizzante basata sulla responsabilità soggettiva fa acqua da tutte le parti. Ma la mente vergine europea, oltre alle carni in eccesso, nota anche altre cose. Prima di tutto, in questo paese è impossibile sfuggire al cibo, offerto ovunque, a qualsiasi ora, nelle sue infinite varietà. Poi c’è il fenomeno del supersizing, legato al “principio dell’ingordigia” secondo il quale più le dosi sono abbondanti più mangi, indipendentemente dall’appetito. Quindi le porzioni sono più abbondanti che da noi, così come è maggiore, e parrebbe senza controllo, la pubblicità che partecipa attivamente alla costruzione di un ideale alimentare nei bambini e ragazzi a base di junk food. Ma questa spinta ambientale al consumo di cibo non basta ancora a giustificare l’aumento del popolo degli obesi, che pare sia raddoppiato negli ultimi 30 anni. Così, indagando fra predisposizione genetica, termodinamica, disfunzioni metaboliche e altre espressioni di alterata fisiologia, qualcuno ha pensato di sollevare il coperchio di uno dei comparti più potenti dell’economia americana: l’industria agroalimentare. Il nostro cibo è cambiato più negli ultimi 30 anni che nei mille precedenti, sia come quantità e qualità degli ingredienti che come preparazione. Un esempio eclatante è fornito dallo sciroppo glucosio-fruttosio estratto dal mais (HFCS) che, a partire dagli anni ’80, negli States ha sostituito lo zucchero contenuto in quasi tutti i preparati alimentari e bibite gassate. Un’analisi molto interessante è proposta dal libro “Toxic. Obesità, cibo spazzatura e malattie alimentari: inchiesta sui veri colpevoli” di William Reymond, un viaggio nell’alimentazione made in USA alla scoperta delle manipolazioni che, partendo dai produttori agricoli, allevatori, aziende farmaceutiche, esperti di marketing, finiscono direttamente nei piatti dei cittadini americani. Tralasciando gli aspetti di politica economica molto ben analizzati, Reymond riporta una serie di studi scientifici compiuti negli ultimi anni secondo i quali la differente composizione molecolare rispetto allo zucchero determinerebbe una mancata stimola zione di produzione di insulina, aggirando i normali meccanismi di regolazione dell’appetito. Simpatiche anche le informazioni sull’industrializzazione dell’allevamento, dove l’uomo ha letteralmente alterato i normali processi di evoluzione di polli, maiali, mucche, per massimizzare i profitti a suon di mangimi tossici, ormoni e antibiotici, che finiscono poi per diventare parte del nostro cibo. Per non parlare della rivoluzione compiuta “grazie” all’utilizzo massiccio degli acidi trans, presenti nel 40% dei prodotti alimentari americani. L’obesità, conclude Reymond, deve essere interpretata come il risultato dell’interazione tra l’uomo e il suo ambiente, ma certo non si tratta di una fatalità. «L’industria agroalimentare non è responsabile solo di aver camuffato la natura della nostra alimentazione… nella loro corsa al guadagno alcune aziende hanno semplicemente cercato di impossessarsi dell’anima di un’intera generazione». Il problema è quindi anche culturale e l’Europa deve stare bene attenta alle posizioni che assumerà nel suo legiferare.
L’INTERVENTO EDUCATIVO IN ITALIA. CASE HISTORY A. è un bambino grasso. Lo è da sempre, così come grassi sono i suoi genitori. Se lo chiamano “ciccione” lui si arrabbia, e mena a destra e a manca. Risparmia solo i suoi amici, gli unici che hanno il diritto di prenderlo un po’ in giro. La mamma ha provato a iscriverlo a diversi corsi sportivi, ma A., sconfortato e annoiato, si è sempre ritirato. Negli ultimi due anni la sua classe ha fatto da cavia per la compilazione di statistiche sul soprappeso e obesità nell’età infantile. I bambini sono stati sottoposti a diverse indagini da parte di organizzazioni accreditate a vario titolo: misurazioni, controlli, questionari sullo stile di vita dei ragazzini e delle loro famiglie. Un giorno gli “esperti” hanno consegnato ai bambini i risultati delle misurazioni, in busta aperta. I bambini ovviamente hanno letto e confrontato. Sul foglio di A. c’era scritto “obeso” e lui si è messo a piangere: nessuno si era preoccupato di spiegargli alcunché, e lui pensava che obeso volesse dire “stupido”. L’intervento “educativo” della scuola è stato quello di proporre un corso di educazione alimentare, tenuto dalla maestra di scienze e utilizzando come supporto un libricino, “Nutrikids”, marchiato Nestlé. Alla fine del programma, come esercitazione, i bambini sono stati invitati a inventarsi degli slogan pubblicitari che promuovessero una sana alimentazione. Inoltre, hanno risposto a un questionario scritto per verificare i livelli di apprendimento. Alla domanda: “fai un esempio di cereale” alcuni hanno scritto “i Cocopops”. La maestra di scienze è la stessa che dovrebbe impartire le lezioni di educazione motoria, due ore curricolari (quindi inderogabili) alla settimana. In realtà queste ore molto spesso non vengono svolte, per i seguenti motivi: – piove (la palestra è situata esternamente all’edificio scolastico); – nevica (vedi sopra); – c’è un ritardo nel programma di matematica, geometria, scienze (la maestra è la stessa); – i bambini si sono comportati male, quindi non meritano di andare in palestra: l’attività motoria è in premio, un divertimento, un gioco, mica una materia. Ora A., tirato dentro dagli amici, si è iscritto a un corso di calcio, di quelli dove lo sport è ancora sport, con tutti i suoi valori appresso. È seguito, direi quasi amato, anche se lui fa una fatica porca. Non riesce neanche a correre e deve spesso ingoiarsi le beffe degli altri giocatori: del resto è sempre così, ogni volta che deve inserirsi in un nuovo gruppo sa di dover pagare il fio. Ultimamente ha rinunciato a indossare i pantaloncini, per assicurarsi una presa in giro di meno. Però c’è, lì nel campo, sempre trafelato, con il suo allenatore che gli grida “bravo A., dai che ce la fai”. Ma a me sembra che sia tanto solo.
di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 4/2010