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Attività fisica e massa ossea

pesini coppiaSi ritiene che il picco di massa ossea sia raggiunto entro la fine del terzo decennio di vita; una bassa massa ossea rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di osteoporosi. La massa ossea è determinata fondamentalmente a livello genetico, ma anche l’esercizio fisico vigoroso, che esprime un carico sull’osso, ha un notevole impatto sul contenuto minerale delle ossa (BMC), sulla densità (BMD) e sulla dimensione della parte corticale. L’American Society for Bone and Mineral Research ha recentemente pubblicato un ampio studio longitudinale svedese effettuato su giovani uomini adulti per determinare se una maggiore quantità di attività fisica in età adulta fosse associata a uno sviluppo favorevole di densità minerale ossea areale (ABMD) e volumetrica (vBMD), e nella geometria dell’osso corticale. Sono stati studiati 1068 giovani, di età media 24 anni, per un periodo di 5 anni. Un questionario standardizzato autosomministrato è stato utilizzato per raccogliere informazioni sui modelli di attività fisica sia all’inizio che durante lo studio. BMC e ABMD sono stati misurati utilizzando dual energy X-ray assorbimetria, mentre vBMD e la geometria delle ossa sono stati misurati mediante tomografia computerizzata quantitativa periferica. Le attività sportive sono state suddivise in base all’impatto: alle attività che prevedono azioni salto (per esempio ginnastica, pallamano, basket) è stato attribuito un punteggio di 3; alle attività che richiedono forza esplosiva (per esempio calcio, tennis, hockey su ghiaccio) è stato attribuito un punteggio di 2; alle altre attività a basso impatto (per esempio jogging), è stata dato un punteggio di 1. Le attività senza impatto (nuoto, ciclismo) hanno avuto un punteggio di 0. L’indice osteogenico è stato costruito moltiplicando il tempo speso per ogni tipo di attività sportiva (h/settimana) con il punteggio relativo a quell’attività sportiva. I soggetti sono stati poi divisi in tre gruppi: ad alta (almeno 4 ore a settimana), bassa e nessuna attività fisica (sedentari). Lo studio ha confermato che più alto era il livello di attività, maggiore era l’aumento della densità minerale ossea a livello del rachide lombare e di tutto il corpo. L’aumento di attività fisica è risultato essere associato a uno sviluppo favorevole della BMC totale e della ABMD della colonna lombare e dell’anca, nonché allo sviluppo maggiore della corteccia ossea. Gli uomini che hanno aumentato la loro quantità di attività fisica hanno anche aumentato la loro ABMD dell’anca, a differenza degli uomini che hanno mantenuto o ridotto il loro livello di attività, nei quali è risultata evidente una riduzione dell’ABMD dell’anca. L’aumento di ABMD era dovuto all’aumento delle dimensioni dell’osso corticale e trabecolare vBMD, entrambi determinanti della resistenza ossea e della resistenza contro le fratture. I benefici sono stati ottenuti anche se l’attività fisica è intervenuta dopo l’ingresso nell’età adulta, con risultati migliori riferibili ad attività con l’indice osteogenico maggiore. Inoltre, dato che la caduta è un fattore di rischio ancora più importante dell’ABMD per le fratture dell’anca, si conferma che l’attività motoria, atta a mantenere la funzionalità fisica, è il metodo più efficace per ridurre il rischio di caduta, soprattutto nelle età in cui iniziano a verificarsi le fratture. Nilsson, Journal of Bone and Mineral Research, 2012

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 11/2012

 

 

Bilancio energetico e regolazione del peso corporeo

The American Journal of Clinical Nutrition ha recentemente pubblicato i risultati di un weightconfronto fra esperti in gestione del peso, metabolismo energetico, attività fisica e psicologia comportamentale di Stati Uniti e Regno Unito, rispetto al ruolo del bilancio energetico nella regolazione del peso corporeo. L’equazione che esprime il bilancio energetico include da una parte l’energia netta ricavata dall’ingestione di cibo e bevande, ovvero la frazione disponibile per essere utilizzata dal corpo (energia metabolizzabile: EI), e dall’altra tutta l’energia utilizzata dal corpo per mantenere la vita e svolgere attività fisica (energia emessa: EO). Per quanto riguarda EI, è corretto considerare una perdita di energia attraverso feci e urine fra il 2 e il 10% dell’energia totale. EO può essere invece suddiviso in dispendio energetico a riposo (REE), o metabolismo basale, effetto termico del cibo (TEF), ed energia spesa in attività (AEE). REE, che rappresenta circa i due terzi di EO, varia tra gli individui in base alla dimensione del corpo, alla composizione corporea (il tessuto magro consuma più energia rispetto al tessuto grasso) e a squilibri metabolici. Il TEF è associato ai processi digestivi e alla trasformazione metabolica del cibo, e AEE è costituito dalla spesa energetica per l’attività fisica sportiva e non sportiva (lavoro, gioco, ma anche stati di irrequietezza). Ovviamente, quando EI supera EO, il surplus di energia (ES) viene immagazzinato nel corpo umano, soprattutto come grasso nel tessuto adiposo, ma anche come glicogeno (dai carboidrati) nel fegato e nei muscoli. L’obesità si sviluppa quando c’è un lungo periodo surplus energetico che determina un eccessivo accumulo di grasso corporeo. Al contrario, quando EO è maggiore di EI per lunghi periodi di tempo, il corpo sfrutta le sue riserve energetiche e perde peso. La comprensione del meccanismo che sta alla base del bilancio energetico, incluse le interazioni e le regolazioni che influenzano reciprocamente le diverse componenti del bilancio energetico, non è ancora chiara: assimilazione e spesa energetica possono variare ampiamente da un giorno con l’altro ed è solo facendo un’analisi a lungo termine che si può stabilire un bilancio energetico (per esempio per le diete di mantenimento). Inoltre, tutti i componenti del bilancio energetico (EI, EO e ES) interagiscono reciprocamente tra loro determinando infinite variabili. Per esempio, il ruolo svolto da AEE in relazione alle altre componenti ancora non è chiaro: se un bilancio energetico è negativo per aumento di esercizio fisico, viene poi compensato da una maggiore assunzione di cibo? Gli studi a riguardo mostrano una grande variabilità di risposta, influenzata sia dalla modalità di esercizio che dalla misura del comportamento compensativo, cioè la risposta alla fame dopo l’esercizio. Si è sempre creduto che, oltre all’utilizzo di energia durante l’attività fisica, si dovesse contabilizzare anche una componente di energia post esercizio che oscillava dal 6 al 15% di energia spesa durante tutta la sessione di allenamento: eppure diversi studi rivelano che l’aumento creduto in REE a causa di un regolare esercizio fisico e le successive modifiche nella composizione corporea siano in realtà trascurabili. Un altro fattore importante è che non sempre l’attività fisica organizzata introdotta nella vita di un soggetto porta a un aumento di EO, a causa di condotte compensatorie più sedentarie nelle ore successive alle sedute di allenamento. In altre parole, per stimare più accuratamente l’EO giornaliera devono essere prese in considerazione tutte le attività svolte, tenendo presente che la somma di molte piccole attività può raggiungere un dispendio energetico significativo. In conclusione, la misurazione precisa dei fattori che determinano il bilancio energetico è estremamente difficile, perché si tratta di un sistema interattivo e complesso. Per colmare queste lacune sarà necessario impostare studi longitudinali a lungo termine che indaghino le relazioni tra i diversi componenti del bilancio energetico e il loro effetto sul peso corporeo e sulla composizione e approfondiscano il ruolo dell’attività fisica soprattutto in riferimento alla quantità di EO quotidiana.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 11/2012

 

Progetto sport e salute, a uso di “survivors”

IS081-086In Italia si definiscono lungoviventi, termine un po’ brutale nella sua concretezza, che sottolinea un mancato appuntamento con la morte. Le lingue anglosassoni insistono maggiormente sull’aspetto eroico e quasi leggendario della parola survivors, sopravvissuti, superstiti. In entrambi i casi ci si riferisce agli ex malati di tumore, che vincono la loro battaglia contro la malattia. In Italia, secondo l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) sono circa il 55% coloro che sopravvivono a 5 anni dalla diagnosi. E anche se l’incidenza di queste patologie è in aumento (anche per l’allungamento della vita media), i dati relativi agli ultimi decenni mostrano che l’incremento della mortalità va rallentando rispetto all’incidenza, grazie al miglioramento della diagnostica e dell’efficacia delle terapie a disposizione, oltre che alla diffusione di una cultura generale che pone maggiore attenzione alla salute. Eppure, l’atteggiamento culturale maggiormente diffuso fa sì che la parola “cancro” sia ancora strettamente connessa al concetto di morte e di inguaribilità, tanto che il solo parlarne è spesso un tabù. Così, il malato di tumore si trova a dover superare, oltre ai problemi fisici, anche degli ostacoli psicologici importanti: la sola diagnosi della malattia impone il confronto con l’idea della morte, che apre un processo di crisi dell’individuo malato e di frattura rispetto alla normalità, rispetto alla vita “di prima”. Per questo è nata la Psiconcologia, “una disciplina che si occupa, in maniera privilegiata e specifica, della vasta area delle variabili psicologiche connesse alla patologia neoplastica e in generale delle implicazioni psico-sociali dei tumori. Essa nasce e si impone in funzione delle complesse problematiche psicologiche ed emozionali, che interessano la maggior parte dei pazienti affetti da cancro, nel porre attenzione a queste problematiche…”. In questo panorama è nato il progetto “Sport e salute in oncologia”, curato dal professor Riccardo Torta, direttore della struttura di Psiconcologia dell’ospedale Molinette di Torino, a cui aderiscono il Dipartimento di Scienze Cliniche dell’ospedale Sacco di Milano (professor Massimo Pagani) e l’Istituto Universitario di Scienze Motorie – Università degli Studi di Roma (professor Fabio Pigozzi).

Professor Riccardo Torta, da dove nasce questo progetto?
I pazienti che hanno superato il percorso medico, non sempre riescono a raggiungere un recupero funzionale adeguato dal punto di vista emotivo, perché permane in loro il senso di malattia: è quindi necessario restituire un rapporto fiduciario con la salute, con un corpo che, in qualche modo, un po’ ti ha tradito. In tutti i paesi dove la mortalità in oncologia va drammaticamente riducendosi in senso positivo, sale l’attenzione per persone che sono “guarite”, dove le virgolette sono d’obbligo per sottolineare che questa è una malattia che può ritornare: da qui il senso d’insicurezza e l’esigenza di proteggere il corpo quanto più possibile attraverso stili di vita sani, dieta, attività fisica e abitudini corrette. I “sopravvissuti” devono impegnarsi anche su un recupero della propria immagine corporea, sentire che il loro corpo è ancora lì e che funziona.

Quali i vantaggi nella pratica dell’attività sportiva?
In ognuno di noi nascono di continuo cellule tumorali, che sono poi uccise dal sistema immunitario: un tumore si sviluppa perché ci possono essere dei geni di suscettibilità che, per qualche motivo emozionale, ambientale, occasionale, il sistema immunitario non riesce a contenere. E poiché è risaputo che l’attività fisica svolge un ruolo importante nel potenziare il sistema immunitario, è chiaro che, superata la fase acuta della malattia, praticare attività fisica è di grande giovamento, anche sul tono dell’umore: il malato depresso ha meno difese. Naturalmente questo non è l’unico parametro, altrimenti gli sportivi professionisti non si ammalerebbero mai di tumore… Ma per un paziente che è sopravvissuto e che ha già completato tutte le cure che la medicina gli può garantire, l’attività fisica può svolgere un ruolo essenziale sia dal punto di vista fisico (come rinforzo immunitario, appunto) che psicologico (per recuperare il rapporto con il proprio corpo). Questo è un concetto ampiamente diffuso e avvalorato dalla letteratura medica; ora, con il nostro progetto noi intendiamo impostare un percorso strutturato e qualificato, che possa essere utilizzato come linea guida per la riabilitazione del paziente oncologico.

A che punto è il progetto?
Il progetto è già stato presentato ed è pronto sia dal punto di vista clinico che scientifico, ma purtroppo mancano i fondi per farlo partire. Nelle nostre intenzioni il lavoro, che include il coinvolgimento di tre città pilota (Torino, Milano e Roma), è impostato su tre step:
1. valutazione psiconcologia per selezionare i soggetti valutazione 3(emozionalmente non tutti hanno voglia di cominciare a praticare attività sportiva);
2. valutazione della medicina dello sport per stabilire quale tipo di attività sia maggiormente indicata per questo o per quel paziente (chi ha avuto un cancro alla prostata, per esempio, è meglio che non pratichi il ciclismo);
3. “consegna” del soggetto a operatori di scienze motorie o a strutture in qualche modo validate, certificate dal punto di vista della qualità clinica e scientifica. Premessa la necessità di mantenere un controllo, soprattutto qualitativo e valutativo, l’intenzione è quella di demedicalizzare il più possibile il soggetto, portandolo fuori dai circuiti medici tradizionali.

Quando un paziente oncologico finisce di essere considerato tale? Quando smette di fare terapia attiva ed entra in una dinamica di controlli periodici: è a questo punto che si inserisce il nostro progetto. Sia chiaro, non che l’attività fisica non si possa praticare anche durante le cure, m a noi vorremmo chiudere il percorso di malattia ed entrare in un percorso di recupero, anche psicologicamente è importante.

Come è impostato il progetto?
Il protocollo scientifico prevede la valutazione di specifici parametri, sia biologici che psicologici. I parametri biologici sono sostanzialmente quelli immunitari: come aumentano i natural killer (cellule di difesa contro le cellule oncologiche) o come si riducono gli ormoni dello stress. I parametri psicologici riguardano la qualità di vita, il senso di autoefficienza, lo stile di coping. Coping è un termine inglese che non ha una specifica corrispondenza in italiano, ma indica come un soggetto si adatta a situazione stressanti, nel nostro caso come il paziente si confronta con la malattia: con atteggiamento di negazione, di fatalismo, di spirito combattivo…
Abbiamo poi previsto valutazioni specifiche legate all’ansia, alla depressione, alla “fatigue”, ovvero quel senso drammatico di stanchezza che sentono quasi tutti i malati oncologici, anche quando la malattia o le cure non sono di per sé giustificanti: è stato già sperimentato che, paradossalmente, la “fatigue” migliora con l’attività fisica, piuttosto che con il riposo forzato.
Prevediamo un tempo di realizzazione di 3 mesi + 3, con valutazioni a T0, T3 e T6 mesi, e un gruppo di controllo con cui lavoriamo solo con tecniche di rilassamento.

Attualmente, quando un paziente conclude il ciclo di cure, gli è solo suggerito di praticare attività fisica oppure potete comunque indirizzarlo a specifici centri di rieducazione e riabilitazione?
Il punto è estremamente dolente. Noi stiamo cercando di formulare un protocollo nazionale per indagare quale sia la reale offerta di riabilitazione oncologica, perché in effetti i centri sono pochi e spesso operano con interventi limitati: per noi la riabilitazione oncologica non si deve limitare al recupero del danno chirurgico, come può essere lo svuotamento del cavo ascellare dal linfedema post chirurgico; per noi è un concetto molto più allargato. Inoltre queste strutture si trovano per lo più all’interno degli istituti o dei reparti di oncologia e noi vorremmo superare questo impasse, che anche dal punto di vista psicologico è penalizzante: un conto è dare un appuntamento in ospedale per un massaggio, un conto è trovarsi al parco per una passeggiata…

I TUMORI IN ITALIA (dati relativi al 2007)
Ogni anno in Italia si registrano circa 240 mila nuovi casi di tumore e 140 mila sono i decessi. Ci sono dunque quasi un milione e mezzo di persone affette da questa malattia, fra pazienti guariti, nuovi casi e quelli in trattamento. Oggi in Italia la sopravvivenza relativa standardizzata a cinque anni dalla diagnosi è del 45,7% negli uomini e del 57,5% nelle donne, per tutti i tumori esclusi i carcinomi della cute. Ci sono però differenze dal punto di vista geografico: in genere, la sopravvivenza al Nord e al Centro è più alta di circa il 10% rispetto al Sud. La percentuale di sopravvivenza dipende in modo significativo dal tipo di tumore: i più mortali sono i mesoteliomi (8,2%), i tumori dell’esofago (11,5%), del fegato (10,5% per gli uomini e 11,6% per le donne), delle vie biliari (13,7%), del pancreas (5,1% per gli uomini e 7,8% per le donne), del polmone (11,9% per gli uomini e 15,3% per le donne) e dell’encefalo (18,9% per gli uomini e 20,4% per le donne). Le prospettive di sopravvivenza migliori, invece, sono per i tumori al labbro (89,5%), i melanomi della pelle (79% per gli uomini e 87% per le donne), i tumori della mammella (82,6%), del corpo dell’utero (75,9%), della prostata (78,5%), del testicolo (88,1%), della tiroide (79,1% per gli uomini e 88,1% per le donne) e i linfomi di Hodgkin (80%).

Fonte: ISS, Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute

PROFESSOR RICCARDO TORTA
Professore Associato di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Neuroscienze di Torino; direttore della Struttura Complessa di Psiconcologia del Dipartimento di Oncologia dell’Università e dell’A.S.O San Giovanni Battista di Torino. È autore di oltre 550 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali in ambito psicologico clinico, psichiatrico, neurologico, oncologico, neuropsicofarmacologico e di 18 libri su tali argomenti.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 5/2009  

Artrite reumatoide: primo rapporto sociale

ks12750L’Associazione Nazionale Malati Reumatici (ANMAR), la Società Italiana di Reumatologia (SIR) e la fondazione Censis, hanno recentemente presentato il Primo rapporto sociale sull’artrite reumatoide, un’indagine nazionale (svolta su un campione di 646 pazienti), con lo scopo di analizzare la condizione delle persone affette da questa malattia, il carico assistenziale e l’impatto economico e sociale, in modo da valutare, attraverso le indicazioni dei diretti interessati, le possibili aree di miglioramento. Dal punto di vista anagrafico, i dati emersi confermano che le donne sono maggiormente colpite dalla malattia, rappresentando il 72,6% del campione; per quanto riguarda l’età, i pazienti intervistati tendono a concentrarsi nella fascia compresa tra i 45 e i 64 anni (38,5%), mentre il 9,4% ha meno di 45 anni, il 30,7% ha tra i 65 e i 74 anni, e gli over75 sono il 21,4% del campione.

IL PESO DELLA MALATTIA
La natura progressiva e invalidante dell’Artrite Reumatoide impatta in maniera significativa sulla qualità della vita di coloro che ne sono affetti e configura una serie di modificazioni che spesso finiscono per pesare anche sulla percezione di sé e delle proprie possibilità di realizzazione. Infatti, solo l’8,5% del campione definisce completamente soddisfacente il proprio modo di vivere al momento dell’intervista; la maggioranza dei pazienti intervistati considera il proprio modo di vivere abbastanza soddisfacente (il 55,3%), mentre non troppo soddisfacente è il 36,2%: più di un paziente su tre. Dal punto di vista lavorativo, il 22,7% del campione segnala una modificazione seria della propria attività lavorativa a causa della patologia, con conseguenze di differenti entità. È consistente il numero dei lavoratori che ha segnalato episodi di ripetuta assenza dal lavoro a causa di problemi legati alla malattia: se si prendono in considerazione le fasce d’età attive, il dato risulta pari al 35,0% degli under 44, mentre è pari al 43,6% dei 44- 65enni. Tra i principali esiti a lungo termine della patologia vi è la totale inabilità al lavoro, soprattutto per le persone impiegate nelle mansioni fisicamente più impegnative e che rappresentano, spesso, le fasce di cittadini più deboli. Anche l’impatto della malattia sulla sfera psicologica emerge in modo assolutamente evidente: l’83,7% dei pazienti è preoccupato dall’evoluzione della malattia e dal rischio di invalidità, e il 68,7% si sente normale fino a quando non sopraggiunge una fase acuta. Più della metà dei pazienti, il 50,8% (in particolare donne) vive periodi di depressione; poco meno di un paziente su tre (il 28,2%) sente di essere un peso per gli altri, soprattutto i pazienti più anziani (il 44,7% dei pazienti con più di 75 anni), mentre il 25% circa prova vergogna per i segni che la malattia lascia sul proprio corpo. Bisogna ricordare che l’AR incide profondamente anche nella vita di tutti i giorni, costringendo i malati a sperimentare, nella loro quotidianità, una quantità significante di limitazioni: un’azione semplice, ma per molti aspetti indispensabile, come girare una chiave nella serratura o aprire un vasetto risultano estremamente difficoltose per più della metà dei pazienti intervistati (il 59,0%).

IL COSTO DELLA MALATTIA
Per determinare il costo sociale dell’AR, nello studio si è deciso di non tener conto dei costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma di concentrare l’attenzione su due tipologie di costi:
- i costi diretti sostenuti dal paziente per la cura dell’artrite reumatoide (farmaci, ricoveri, visite, trasporti) e per l’assistenza a pagamento di cui ha beneficiato;
- i costi indiretti, relativi cioè al tempo sottratto a un’attività lavorativa sia per coloro che sono affetti da AR che per i familiari che lo assistono gratuitamente. La valorizzazione di questa assistenza informale è avvenuta attraverso la stima dei costi che sarebbe stato necessario sostenere nel caso di impiego di personale retribuito. Nel complesso, il Costo Medio Annuo per Paziente (CMAP), comprensivo sia dei costi diretti che indiretti (a esclusione dei costi sostenuti dal SSN), è risultato pari a poco più di 11.000 euro. Alla quantificazione di questo costo medio annuo concorrono in particolare i costi indiretti, che pesano per poco meno del 90%. I costi diretti medi annui (12,4% del totale) risultano essere invece pari a quasi 1.400 euro, a cui contribuiscono per circa 630 euro gli esborsi per l’assistenza privata e per 576 euro le spese sostenute per l’acquisto di farmaci.

OLTRE AI FARMACI
È ormai opinione comune che un programma di attività fisica mirato rappresenti una componente importante della strategia terapeutica. Ma perché questo abbia successo, è necessario informare con chiarezza il paziente rispetto a tipologia, intensità e frequenza degli esercizi da eseguire. Essendo inoltre una patologia dolorosa, caratterizzata da fasi acute particolarmente invalidanti, è necessario incoraggiare il paziente e sostenerne la motivazione per evitare che l’attività fisica possa essere associata agli stimoli dolorosi e acquisire, di conseguenza, una valenza negativa. Proponiamo di seguito alcuni suggerimenti, studiati in base alla classificazione standard della malattia.
Classe 1: completa abilità e capacità di eseguire tutti i lavori abituali. Classe 2: abilità adeguata per attività normale, nonostante handicap parziale, fatica, difficoltà e ridotta mobilità a una o più articolazioni. Classe 3: abilità limitata o annullata per le normali occupazioni o rispetto all’autosufficienza.
Classe 4: invalidità ampia o totale. Il paziente è costretto a letto o su sedia a rotelle; scarsa autosufficienza.
Fitness per soggetti affetti da AR classe 1 e classe 2. Ogni seduta può durare in totale dai 45 ai 90 minuti. Una parte è dedicata all’allenamento cardiovascolare, lavorando a una FC<75- 80% di quella massimale teorica (valutata tramite test). Si possono utilizzare i normali attrezzi da cardiofitness, escludendo il vogatore e privilegiando bike o walking su nastro trasportatore. Esercizi isotonici possono essere svolti al 40-50% del carico massimale, 10/15 ripetizioni per esercizio, meglio con modalità di circuit training; i protocolli personalizzati devono escludere movimenti con le articolazioni colpite. Completano il programma esercizi di stretching, mobilità articolare e ginnastica respiratoria.
Programmazione:
- anamnesi generale e sportiva;
- valutazione globale ed esame obiettivo motorio;
- valutazione funzionale;
- scelta e verifica dei parametri dell’allenamento;
- verifica tramite valutazione funzionale ogni 4/6 settimane;
- raccolta dati;
- riassetto e programmazione del training.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 1/2009 

Scoliosi: trattamento riabilitativo in età evolutiva. Un estratto dalle Linee Guida nazionali

La Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione (SIMFER), sulla base delle indicazioni del Ministero della Sanità, ha dato incarico a una Commissione di suoi Soci (vedi BOX) la stesura di Linee Guida sul “Trattamento riabilitativo del paziente in età evolutiva affetto da deformità del rachide”. Le Linee Guida si rivolgono a tutti gli operatori impegnati nel campo della riabilitazione e del trattamento conservativo delle deformità del rachide e sono applicabili a tutti i pazienti di interesse riabilitativo e conservativo affetti dalle patologie di cui sono oggetto. La metodologia seguita si è basata sul recupero e analisi di tutta la bibliografia e letteratura internazionale esistenti. È stata quindi stabilita una scala della forza delle evidenze scientifiche, codificata sulla base delle classiche indicazioni usate per la stesura di Linee Guida (vedi tabella). Schermata 2013-11-25 alle 13.52.57Dato che l’argomento oggetto delle Linee Guida è caratterizzato da una sovrabbondanza di lavori descrittivi e da prassi principalmente basate sul consenso, più che su evidenze scientifiche, si è ritenuto utile ampliare l’ultima voce (E), suddividendola in tre gradazioni diverse di Consenso Scientifico.

DEFINIZIONE
La scoliosi idiopatica è una complessa deformità strutturale della colonna vertebrale che si torce sui tre piani dello spazio:
- sul piano frontale, si manifesta con un movimento di flessione laterale;
- sul piano sagittale, con un’alterazione delle curve, il più spesso provocandone un’inversione;
- sul piano assiale, con un movimento di rotazione.
Per definizione, la scoliosi idiopatica non riconosce una causa nota, e probabilmente nemmeno una causa unica. Da un punto di vista eziopatogenetico, quindi, la deformazione vertebrale provocata dalla scoliosi idiopatica può essere definita come il segno di una sindrome complessa a eziologia multifattoriale. Questa sindrome si manifesta quasi sempre con la sola deformità, ma non si identifica con essa, in quanto con una indagine più approfondita è possibile trovare altri segni sub-clinici che appaiono significativi.
La definizione classica della Scoliosis Research Society, definisce la scoliosi come una curva di più di 10° Cobb sul piano frontale senza considerare il piano laterale, le cui modificazioni incidono significativamente sull’evoluzione della scoliosi e la trattabilità ortesica. In base a questo dato, molti dei lavori pubblicati sull’efficacia del trattamento conservativo della scoliosi (fisioterapia, corsetti gessati, busti) utilizzano come unico parametro la modificazione dei gradi Cobb. Questo aspetto è destinato nel futuro a essere rivisto, in particolare considerando l’importanza della rotazione vertebrale, valutabile sia radiograficamente che clinicamente. Le scoliosi idiopatiche possono essere classificate secondo la localizzazione iniziale della deformità: toraciche, toracolombari, lombari, a doppia curva, e secondo l’età di insorgenza: infantili, giovanili e adolescenziali. Le menomazioni del paziente scoliotico sono classificabili come danni neuromotori, biomeccanici, cardio-respiratori ed estetici. Per quanto riguarda le problematiche relative alle limitazioni delle attività, queste riguardano in gran parte la scoliosi adulta. Il dolore, per esempio, o una significativa riduzione della capacità di sforzo o delle attività della vita quotidiana o professionale non fanno parte delle caratteristiche del giovane paziente scoliotico. Viceversa, ci sono due elementi tipici dell’età evolutiva che pure si riflettono pesantemente anche sull’età adulta: le limitazioni delle attività (disabilità) dovute a motivi psicologici e altre definibili come iatrogene, laddove il ragazzo affetto da scoliosi non viene rispettato in quanto persona colta in un duplice momento delicato, quello della crescita e sviluppo puberale e quello dell’incontro/scontro con il proprio corpo affetto da una forma di patologia che ne mina una struttura portante, che non per niente si chiama “colonna”. Tutti questi elementi devono ovviamente essere valutati in base all’entità della curvatura scoliotica, laddove al di sotto dei 20° Cobb quasi mai ci sono manifestazioni di limitazioni delle attività, che divengono però sempre più importanti con l’aggravarsi della patologia.

IL TRATTAMENTO
Il trattamento della scoliosi ripercorre tutte le fasi tipiche della prevenzione. Quando la patologia è lieve, il trattamento, definito “libero” è una prevenzione dell’evolutività della scoliosi (esercizi con controlli medici periodici) e riguarda la cosiddetta scoliosi minore (di norma al di sotto dei 20° Cobb). La prevenzione dell’evolutività diviene poi terapia per evitare che possa evolvere in scoliosi maggiore. La forma di prevenzione dell’evolutività principalmente applicata sono gli esercizi specifici e la cinesiterapia: si tratta di un lavoro finalizzato al miglioramento di capacità neuromotorie, adattato e controllato sulla base della patologia e delle caratteristiche individuali del singolo paziente. Il complesso degli esercizi è teso a migliorare le capacità specifiche dell’individuo (equilibrio, coordinazione e controllo oculo-manuale) rispettando gli equilibri biomeccanici (l’azione è sui tre piani dello spazio). Un secondo aspetto è quello della prevenzione secondaria, vale a dire del trattamento per evitare i danni conseguenti alla presenza della patologia conclamata. I confini possono essere fatti coincidere con un livello di patologia che richiede di intervenire con una ortesi. Lo scopo primario in questa fase è quello di evitare l’aggravamento della scoliosi, quindi di curare la malattia, ma anche, purtroppo a volte dimenticato, di trattare le menomazioni, di evitare le limitazioni dell’attività (disabilità) e della partecipazione (handicap). Quindi, se l’elemento principe è l’ortesi, il trattamento delle menomazioni e della disabilità sono tipiche dell’intervento riabilitativo, sia cinesiterapico e con esercizi specifici, che psicologico, ma anche educativo. Ovvia l’articolamente questo intervento è interdisciplinare è vede la compartecipazione delle diverse figure del team: fisiatra, ortopedico, fisioterapista, tecnico ortopedico, laureato in scienze motorie, paziente, famiglia. Infine, va considerata la prevenzione terziaria, spesso fatta direttamente coincidere “tout court” con la riabilitazione. Questo momento è tipico del recupero post-intervento e/o del superamento dei danni iatrogeni in età dell’accrescimento. La curvatura scoliotica non strutturata, o paramorfismo, o atteggiamento scoliotico, non è una condizione patologica e non rientra nell’oggetto di queste Linee Guida.

CINESITERAPIA ED ESERCIZI SPECIFICI
Attualmente non c’è evidenza sufficiente per raccomandare o sconsigliare l’utilizzo della cinesiterapia e di esercizi specifici. Peraltro, introducendo accanto ai concetti di efficacia ed efficienza, quello di accettabilità delle terapie, le famiglie hanno dimostrato di preferire l’effettuazione di esercizi specifici a scopo preventivo all’attesa di una eventuale evoluzione da trattare in seguito con corsetto. Inoltre, l’esame della letteratura a disposizione permette di ipotizzare un’efficacia di esercizi specifici nel rallentare l’evolutività delle curve patologiche in pazienti affetti da scoliosi idiopatica con curve minori. Non esistono pubblicazioni scientifiche rigorose sull’efficacia terapeutica dell’uso di manipolazioni, plantari (non rialzi), byte, medicinali convenzionali e omeopatici, agopuntura, accorgimenti alimentari per la correzione della scoliosi idiopatica in età evolutiva.

RACCOMANDAZIONI
- La scelta delle opzioni terapeutiche deve essere fatta dal clinico esperto di patologie vertebrali sulla base di tutti i parametri anamnestici, obiettivi e strumentali (E1).
- Una curvatura scoliotica non strutturata e la scoliosi inferiore ai 10±5° Cobb non devono essere trattate in modo specifico, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E1). Piuttosto, è necessario che siano ricontrollate periodicamente sino al superamento del picco puberale, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E2). Si raccomandano, nelle curve minori, gli esercizi specifici come primo gradino di approccio terapeutico alla scoliosi idiopatica per prevenirne l’evolutività (C). – Si raccomanda la costituzione di équipe terapeutiche specifiche (non necessariamente con rapporto di lavoro diretto), con una stretta collaborazione tra medico e rieducatore (E3), specificamente formato ed esperto nel trattamento della scoliosi (E2).
- Gli esercizi devono essere svolti individualmente o, meglio ancora, in piccolo gruppo con programmi individualizzati (E3); se ne raccomanda la continuità, sino alla fine del trattamento (E2). Gli esercizi, individualizzati sulla base delle necessità dei pazienti (E2), devono essere finalizzati a un miglioramento del controllo neuromotorio e posturale del rachide, dell’equilibrio e della propriocezione e a un rinforzo della funzione tonica della muscolatura del tronco (E2). Si raccomanda che gli esercizi non incrementino l’articolarità e la mobilità del rachide, con esclusione della fase di preparazione all’uso di un’ortesi (E2).
- Si raccomanda di evitare per la cinesiterapia l’uso esclusivo di singoli metodi, nessuno dei quali si adatta a tutte le fasi terapeutiche per il ragazzo affetto da scoliosi idiopatica (E2), utilizzando in ogni fase del trattamento il metodo, le tecniche e gli esercizi più idonei a perseguire gli obiettivi terapeutici necessari per il paziente (E2).
- Si raccomandano esercizi per migliorare la funzionalità respiratoria in pazienti affetti da scoliosi idiopatica che ne abbiano necessità (D).

ATTIVITÀ SPORTIVA
L’attività sportiva consente un riequilibrio psico-motorio che è consigliabile per tutti e che deve trovare spazio nell’adolescente scoliotico con le dovute modalità a seconda del tipo di paziente e della gravità ed evolutività della curva. Il paziente scoliotico deve giocare “come e più di tutti gli altri”, anche perché l’attività motoria consente di intervenire sugli aspetti psicologici e sociali correlati alla negatività di immagine del proprio corpo, mantenendo il paziente inserito nel suo gruppo. Il nuoto non è la panacea delle scoliosi e ci sono studi che tendono ad evidenziarne alcuni limiti o addirittura controindicazioni. Perplessità sono state espresse negli anni rispetto alle attività fisiche generalmente mobilizzanti, quali in particolare ginnastica artistica e danza. Quindi, lo sport non deve essere prescritto come un trattamento per la scoliosi idiopatica (E2), ma si raccomanda lo svolgimento di attività sportive di carattere generale per vantaggi aspecifici in termini psicologici, neuromotori e organici generali (E2), anche durante il periodo d’uso di un corsetto (E3). In base all’entità della curva e alla fase evolutiva, a giudizio del clinico esperto di patologie vertebrali, possono essere poste limitazioni rispetto ad alcune particolari attività (E2).

PER APPROFONDIMENTI
SIMFER: www.simfer.it
ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale): www.isico.it Fondazione Don Gnocchi ONLUS: www.dongnocchi.it
GRUPPO DI STUDIO DELLA SCOLIOSI: www.gss.it
ASSOCIAZIONE BACK SCHOOL: www.backschool.it

I MEMBRI DELLA COMMISSIONE
Stefano Negrini, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano e Fondazione Don Gnocchi ONLUS – IRCCS, Milano Lorenzo Aulisa, Clinica Ortopedica, Università degli Studi Cattolica di Roma Claudio Ferraro, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Fraschini, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Stefano Masiero, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Simonazzi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Claudio Tedeschi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Andrea Venturin, Azienda Ospedaliera, Università degli Studi di Padova Claudia Guerra, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Vincenzo Pirola, Azienda Ospedaliera “Salvini”, Garbagnate Milanese Simona Pochintesta, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Umberto Selleri, Azienda Ospedaliera “Bufalini”, Cesena Dinetta Bianchini, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Wanda Bilotta, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Isabella Fusaro, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Marco Monticane, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano 
di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 7/2009

Lavoro con sovraccarichi per migliorare la qualità della vita

d0001456pMentre l’effetto che il lavoro con i sovraccarichi ha sul muscolo è facilmente ben compreso e accettato, i suoi effetti benefici sui fattori di rischio per la salute e le malattie cronico-degenerative sono ancora solo parzialmente noti.  

Secondo il U.S. National Center for Health Statistics, il 44% degli uomini americani e il 38% delle donne svolge regolarmente attività fisica, ma solo il 16% del totale dedica una parte del proprio allenamento a una qualche forma di esercizio con sovraccarico. Con questo si intendono tutti gli esercizi che sottopongono la muscolatura a un lavoro contro resistenza, sia esso con pesi liberi, macchinari fitness o Pilates, ma anche peso corporeo, tubi elastici, bande e altri piccoli attrezzi. Mentre l’effetto che il lavoro con i sovraccarichi ha sul muscolo è facilmente ben compreso e accettato, i suoi effetti benefici sui fattori di rischio per la salute e le malattie cronicodegenerative sono ancora solo parzialmente noti.

QUALI BENEFICI
Sarcopenia è il termine utilizzato per indicare la graduale diminuzione del tessuto muscolare, un normale processo fisiologico che per la maggior parte degli individui comincia a partire dai trent’anni circa. All’età di settant’anni, un individuo può aspettarsi di avere perso fino al 25% della sua massa muscolare totale e relativa forza. Se questo cambiamento è una conseguenza fisiologica di un normale processo di invecchiamento, è anche vero che il sedentarismo e l’inattività giocano un ruolo molto importante. Uno studio svolto su uomini sani di età compresa tra i 60 e i 72 anni, che si sono allenati per dodici settimane utilizzando un protocollo standard per lo sviluppo della forza (80% del loro massimale,1RM), ha dimostrato un aumento di forza del ginocchio in flessione del 107% e del 227% in estensione. Questi importanti miglioramenti sono stati simili ai risultati ottenuti da adulti più giovani, a dimostrazione del fatto che l’allenamento della forza può e deve essere mantenuto anche nella terza età. La perdita di massa muscolare non riguarda solo l’aspetto estetico. I muscoli svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento di un buon metabolismo basale. Stimolato da un programma di lavoro con i pesi, l’aumento del metabolismo gioca un ruolo di controllo nell’accumulo di grasso, che incide positivamente per la prevenzione dei fattori di rischio per le malattie cardiache e alcuni tipi di tumori. Un apparato muscolare forte contribuisce anche ad alleviare lo sforzo sul cuore quando al corpo è richiesto di svolgere un lavoro. L’aumento della massa muscolare offre una superficie maggiore per l’archiviazione di glucosio nel sangue e migliora la sensibilità all’insulina. Così, la capacità di mantenere una buona massa muscolare più avanti nella vita aiuta a prevenire o controllare il diabete di tipo 2. Gli effetti più evidenti della perdita di massa muscolare si traducono in una perdita di capacità motorie, con un impatto diretto sulla vita quotidiana: attività come camminare, fare le pulizie o la spesa diventano più difficili quando la forza diminuisce. Anche la capacità di equilibrio, sia statico che dinamico, diminuisce e il rischio di cadute aumenta. L’allenamento con i pesi è stato dimostrato efficace anche nella gestione dell’osteoartrite. La capacità funzionale può essere migliorata se i muscoli che circondano l’articolazione colpita sono forti e possono collaborare a sostenere lo stress: lo sforzo condiviso dalle articolazioni e dai muscoli riduce l’impatto generale sulle superfici articolari. L’evidenza scientifica conferma che l’allenamento in sovraccarico riduce il tasso di perdita ossea e che il carico esterno può anche stimolare la formazione ossea. In questo caso si raccomanda che lo stimolo applicato imiti quei movimenti comuni di vita quotidiana che aumentano la capacità funzionale dell’individuo, come alzarsi da una sedia o dal letto, aprire uno sportello, fare le scale. Non è ancora chiaro quale sia l’effetto benefico del training contro resistenza sugli stati depressivi nelle persone anziani, ma sicuramente il ripristino di abilità perdute rinnova la fiducia e migliora l’umore. La possibilità di muoversi liberamente senza paura di cadere o di perdere l’equilibrio migliora il proprio senso di indipendenza e aumenta il desiderio di socialità.

COME PROGETTARE L’ALLENAMENTO
I fondamentali di un programma di allenamento contro resistenza sono gli stessi per tutti i soggetti, indipendentemente dall’età. Nel caso di una persona anziana, sarà ancor più importante renderla consapevole riguardo gli obiettivi da raggiungere e quindi personalizzare la scheda di lavoro in modo da poter soddisfare le sue esigenze. Le basi di partenza sono il certificato medico, soprattutto in presenza di due o più fattori di rischio coronarico o di sindrome metabolica, e l’analisi dei bisogni, che prende in considerazione anche le eventuali limitazioni fisiche del soggetto. In alcuni casi può essere necessario un periodo di tempo per il condizionamento di base: il livello di training con sovraccarichi sarà minimo e sarà necessario scegliere con estrema cautela le attrezzature da utilizzare in base alle capacità fisiche, ma anche alle preferenze personali. La selezione degli esercizi è molto importante e deve includere almeno un esercizio per tutti i principali gruppi muscolari, enfatizzando i movimenti che migliorano l’equilibrio. L’ordine di esecuzione è sempre dai gruppi muscolari maggiori a quelli minori, al fine di minimizzare la fatica e massimizzare il peso utilizzato. La durata del riposo tra le serie e gli esercizi dovrebbe essere coerente con gli obiettivi del programma e considerare la condizione medica o fisica della persona. Tre serie di un singolo esercizio sono di solito sufficienti a fornire uno stimolo per un adattamento; tuttavia, se il soggetto volesse aumentare il lavoro su una determinata parte del corpo, è conveniente lavorare sull’intensità o aggiungere un altro esercizio, piuttosto che aumentare il numero di serie. Considerata poi l’elevata incidenza di malattie cardiovascolari, è bene limitare anche il numero di ripetizioni: da 1 a 3 serie di 8-10 ripetizioni a un’intensità di 70-80% di 1RM è un buon punto di partenza. Questo programma di allenamento può essere rivisto dopo 12 settimane, valutando con attenzione quale delle variabili possa offrire la migliore strategia per di miglioramento in sicurezza. Due sedute di allenamento a settimana è il minimo numero necessario per produrre positivi adattamenti fisiologici.

LA SICUREZZA DEI LIMITI
Lavorare in sicurezza non vuol dire iperproteggere: una prescrizione di esercizi eccessivamente cauta, non riuscendo a determinare uno stimolo allenante sufficiente all’adattamento, può contribuire alla perdita di funzionalità. L’indipendenza è l’obiettivo principale e si deve resistere alla tentazione di assistere l’individuo per tutto l’allenamento, focalizzando invece l’attenzione sui movimenti difficili o che provocano disagio. Sarà importante monitorare soprattutto le sessioni iniziali, insegnando la tecnica di esecuzione e fornendo indicazioni sulla respirazione. Dopo le prime 12 settimane di condizionamento, si aumenterà gradualmente il numero di ripetizioni, e solo successivamente si aumenterà il peso applicato. Gli esercizi devono essere svolti in modo lento e controllato, per evitare traumi alle strutture articolari, ricercando l’ampiezza massima del movimento, senza arrivare mai a percepire dolore o fastidio. L’utilizzo delle attrezzature standard che si trovano in sala pesi offre diversi vantaggi:
- richiedono meno abilità motorie;
- in genere stabilizzano bene la posizione del corpo;
- consentono di iniziare con bassi livelli di resistenza;
- permettono un maggiore controllo del range di movimento.
L’allenamento con i pesi deve essere evitato durante i periodi di dolore o infiammazione, soprattutto se in presenza di artrite: sarà importante monitorare costantemente l’individuo per rilevare i primi segni di disagio e interrompere qualsiasi esercizio prima della manifestazione del dolore. Infine, sarà importante motivare l’individuo, reimpostando obiettivi e incorporando varietà nella routine di allenamento, prima che possa essere percepita come vecchia.

BIBLIOGRAFIA
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11. Pollock, M.L.., B.A. Franklin, G.J. Balady, B.L. Chaitman, J.L. Fleg, B.F. Fletcher, M. Limacher, I.L. Pina, R.A. Stein, M.L. Williams, T. Bazzarre. Resistance Exercise in Individuals with and Without Cardiovascular Disease. Circulation. 2000; 101:828. pp 71-7.
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13. Strength and Power Training: A guide for adults of all ages. Harvard Health Publications. A Special Health Report from Harvard Medical School. Frontera,Walter, and Jonathan Bean, Editors.
14. Vincent, H.K. Vincent. Resistance Training for Individuals With Cardiovascular Disease. Journal of Cardiopulmonary Rehabilitation. 2006; 26:207-216.

 di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 10/2011 

15 minuti al giorno

Sulla rivista medico-scientifica The Lancet, è stato recentemente pubblicato uno studio osservazionale di grandi dimensioni di Chi Pang Wen e colleagues, che dimostra come anche una piccola quantità di tempo libero dedicata all’attività fisica riduce la mortalità totale, la mortalità per malattia cardiovascolare e per cancro. In realtà, ci sono molti altri studi che hanno già documentato come la pratica costante di moderata attività fisica sia in grado di ridurre la mortalità di molte patologie; tuttavia, le raccomandazioni della sanità pubblica in molti paesi sono di fare l’equivalente di almeno 30 minuti al giorno a piedi, quasi tutti i giorni della settimana, cioè 150 minuti per settimana. Wen e colleghi con questo nuovo studio dimostrano che anche la metà di questa quantità di attività fisica (15 minuti al giorno per 6 giorni alla settimana) è sufficiente a ridurre la mortalità per qualsiasi causa del 14%, la mortalità per cancro del 10%, e la mortalità per malattie cardiovascolari del 20%. Questo è il primo studio osservazionale di grandi dimensioni che documenta in modo preciso e inequivocabile l’importante relazione fra benefici globali per la salute e una ridotta dose di attività fisica.
La statistica dei benefici ricavati dall’attività fisica segue una curva dose-risposta (figura 1), che lancet2pmostra chiaramente come, anche se una piccola quantità di attività fisica è sufficiente per ottenere dei miglioramenti, più se ne fa e meglio è. La “quota” ideale dovrebbe essere di circa 300 minuti di moderata attività fisica a settimana, ma i dati della maggior parte dei paesi mostrano che tale quantità di attività fisica si ottiene solo da una piccola parte di popolazione. La ragione di questa realtà è multifattoriale e complessa, oltre che individuale, legata a fattori psicosociali, ambientali e culturali. Wen e colleghi suggeriscono che un intervento sicuramente efficace per contribuire all’effettivo aumento dell’attività fisica nella popolazione potrebbe essere messo in atto dai medici, che dovrebbero consigliare ripetutamente ai loro pazienti di introdurre nelle loro giornate l’abitudine al movimento. A causa della natura osservazionale dello studio, Wen e colleghi non possono stabilire il nesso causale fra attività fisica e malattia, ma i risultati ottenuti sono pienamente coerenti con le scoperte di altri studi prospettici randomizzati per la prevenzione secondaria cardiovascolare, che mostrano un chiaro, diretto e inconfutabile beneficio per la salute dalla pratica di esercizio fisico. L’esercizio fisico può ridurre il rischio di mortalità cardiovascolare e, in particolare, di mortalità coronarica, per molti meccanismi, tra cui il miglioramento del tono, e quindi della funzione endoteliale, che porta alla prevenzione e alla stabilizzazione dell’aterosclerosi coronarica, in modo da ridurre il rischio di sindromi coronariche acute. Il cancro condivide diversi fattori di rischio con la malattia coronarica, come la cattiva alimentazione, l’obesità, e l’inattività fisica. Pertanto, la riduzione di alcuni di questi fattori di rischio ottenuta con un regolare esercizio fisico potrebbe plausibilmente spiegare i benefici registrati da Wen e colleghi rispetto alla mortalità per cancro. Gli effetti oncoprotettivi dell’esercizio fisico sono certamente un argomento di ricerca in espansione e oggetto di futuri studi. Sapere che sono sufficienti 15 minuti al giorno di esercizio fisico per ridurre sostanzialmente il rischio di un individuo di morire potrebbe incoraggiare molti più individui a inserire una piccola quantità di attività motoria nelle proprie abitudini quotidiane. I governi e i professionisti della salute hanno un ruolo importante da svolgere per diffondere questa informazione e convincere le persone dell’importanza di essere almeno minimamente attiva.

Wen CP, Wai JPM, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; published online Aug 16. DOI:10.1016/S0140-6736(11)60749-6 
a cura di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 12/2011

 

 

Diabete di secondo tipo, dieta e attività fisica

Cambiare stile di vita dopo la diagnosi di diabete di secondo tipo potrebbe migliorare gli esiti c0043242pdella malattia, ma non ci sono ampi studi che mettono a confronto i risultati ottenuti dai diversi interventi. Questo studio multicentrico, a gruppi paralleli, randomizzato, svolto nel Regno Unito, indaga e paragona gli effetti ottenuti dall’introduzione di una dieta e di attività fisica sulla pressione sanguigna e sulle concentrazioni di glucosio su un gruppo di 600 adulti fra i 30 e gli 80 anni di età, nei quali il diabete di tipo 2 era stato diagnosticato 5-8 mesi prima. I partecipanti sono stati divisi in tre gruppi:
1. cura standard (iniziali consigli alimentari e follow-up ogni 6 mesi), gruppo di controllo;
2. dieta intensiva (consulto dietologico ogni 3 mesi, con supporto specialistico mensile);
3. dieta intensiva più un programma di attività fisica misurata con podometro.
Lo standard di cura per pazienti con nuova diagnosi di diabete di 2° tipo nel Regno Unito prevede una iniziale somministrazione di consigli dietetici individuali o con la partecipazione a una giornata educativa. Nel programma di dieta intensiva obiettivo era consentire ai pazienti di perdere il 5-10% del loro peso corporeo iniziale e di mantenere questo risultato durante tutto lo studio. La dieta non era prescrittiva, ma l’obiettivo era di volta in volta negoziato con ogni singolo partecipante in una seduta individuale con la dietista. I partecipanti hanno visto la dietista ogni 3 mesi, ma i consigli dietetici e la definizione degli obiettivi è stata rafforzata con altri appuntamenti con personale infermieristico specializzato. I pazienti del terzo gruppo (dieta + attività fisica) hanno ricevuto lo stesso intervento dietetico del secondo gruppo e, inoltre, è stato loro chiesto di fare almeno 30 minuti di camminata di buon passo almeno 5 giorni a settimana, in linea con le linee guida nazionali per la attività fisica. Ogni paziente è stato dotato di un contapassi e di una cartella contenente letteratura motivante e pagine per la registrazione quotidiana di attività fisica (letture contapassi). Dopo 6 mesi, l’indice glicemico era peggiorato nel gruppo di controllo, mentre era migliorato sia nel gruppo dieta che in quello dieta + attività fisica. Queste differenze persistevano anche a 12 mesi, nonostante il minor uso di farmaci per il diabete. I miglioramenti sono stati osservati anche nel peso corporeo e nella resistenza all’insulina; la pressione sanguigna è risultata simile in tutti i gruppi e si è evidenziata una ridotta necessità di trattamento farmacologico rispetto al trattamento convenzionale. Mentre l’intervento con una dieta intensiva subito dopo la diagnosi si è dimostrato in grado di migliorare il controllo glicemico, l’aggiunta di attività fisica non ha portato ulteriori benefici. Questo può essere spiegato con il fatto che, mentre esiste personale specializzato in nutrizione e alimentazione (vedi dietologo), pochi medici sono addestrati per dare consigli appropriati riferiti all’attività motoria e quindi l’informazione è spesso generale, piuttosto che su misura per le esigenze di ogni singolo paziente. Inoltre, la somministrazione di esercizio fisico è stata comunque leggera e di breve durata e la misurazione “self-report” manca chiaramente di oggettività. Per aumentare i livelli di esercizio fisico nei pazienti con diabete di tipo 2, i servizi clinici dovrebbero essere ristrutturati includendo operatori sanitari riqualificati, ma dal momento che la formazione sanitaria richiede un costo aggiuntivo, si suggerisce che l’intervento nella fase iniziale dovrebbero concentrarsi sul miglioramento dieta.

Diet or diet plus physical activity versus usual care in patients with newly diagnosed type 2 diabetes: the Early ACTID randomised controlled trial R C Andrews, A R Cooper, A A Montgomery, A J Norcross, T J Peters, D J Sharp, N Jackson, K Fitzsimons, J Bright, K Coulman, C Y England, J Gorton, A McLenaghan, E Paxton, A Polet, C Thompson, C M Dayan

a cura di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 12/2011

 

Osteoporosi: prevenire è meglio che curare

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“Se pensi di essere sano, significa che non hai fatto abbastanza esami”       (Dr. Robert Rangno, Professore Emerito, Dipartimento di Medicina e Farmacologia e terapeutica presso la University of British Columbia)

 

C’è chi la definisce epidemia silenziosa, perché l’osteoporosi è asintomatica e diventa clinicamente evidente solo al manifestarsi della prima frattura. La perdita di minerale osseo è fisiologica, è strettamente collegata all’avanzare dell’età e fa parte dei cosiddetti “fattori di rischio non modificabili”. Anche la mancanza di attività fisica e una dieta non equilibrata concorrono allo sviluppo della malattia, ma con una fondamentale differenza: sono fattori di rischio modificabili e per questo sono, ovviamente, i primi su cui intervenire, soprattutto volendo realizzare una prevenzione primaria. Prevenzione che, in realtà, non dovrebbe essere tanto indirizzata all’osteoporosi in sé (sarebbe un po’ come voler prevenire l’invecchiamento), quanto a un grave fenomeno spesso invalidante di cui l’osteoporosi rappresenta, a sua volta, un fattore di rischio: le fratture negli anziani. Eppure, pare che tutti gli sforzi degli ultimi anni siano concentrati solo sul problema della perdita di materiale osseo: è molto più probabile che un medico inviti una propria paziente in menopausa a effettuare un esame per la rilevazione della densità ossea (MOC), piuttosto che a frequentare un corso di ginnastica. Eppure, nel 2005 la IOF (Fondazione Internazionale per l’Osteoporosi) è stata ideatrice della campagna “Move it or Lose it”, volta a promuovere l’attività fisica sia come prevenzione che come recupero funzionale nei pazienti osteoporotici. Una campagna ancor più lodevole e significativa, se si considera che la IOF è un’organizzazione internazionale non governativa che rappresenta un’alleanza globale di pazienti, medici, scienziati e delle stesse industrie farmaceutiche: «Certamente, la miglior prevenzione per la salute del nostro scheletro trova le sue basi in una sana e continuativa attività fisica, quella stessa che contribuisce a prevenire le malattie cardiovascolari, il diabete, l’obesità ed i tumori. Tutti, operatori sanitari, organizzazioni di fitness e soprattutto la gente, dovranno comprendere come il problema osteoporosi sia un impegno collettivo e come da una consapevole autogestione del nostro stile di vita possano essere conseguiti risultati di enorme rilevanza socio-economica… Anche i pazienti che hanno già subito delle fratture possono trarre beneficio da esercizi e allenamenti speciali, in grado di incrementare il potenziamento e la funzionalità muscolare: tutto questo acilita la mobilità e ci aiuta nelle nostre attività quotidiane». (Helmut W. Minne, medico, Presidente del Comitato delle Società Nazionali aderenti alla IOF, Clinica Centro di Endocrinologia e per le Malattie Metaboliche dell’Osso, Accademia Tedesca di Scienze Osteologiche e Reumatologiche). Ma allora, perché i medici prescrivono solo esami diagnostici e farmaci? A questo punto si inserisce, a nostro modo di vedere, un enorme gap culturale, cui concorrono diversi attori: la classe medica, le case farmaceutiche e i “dispensatori di attività motoria” (passateci il termine, giustificato dalla eterogeneità della categoria). Per quanto riguarda i due primi gruppi, appare evidente come, purtroppo, tutto ciò che ruota intorno alla malattia, dalla sua semplice definizione alla ricerca a essa applicata, sia fortemente influenzato da una mentalità prettamente econometrica, in cui spesso gli interessi delle case farmaceutiche si scontrano con i bilanci sempre più in rosso della pubblica assistenza. Il terzo gruppo, i dispensatori di attività motoria, ha sicuramente la responsabilità di non essere riuscito a ottenere il giusto riconoscimento dalla classe medica, che non ha nessun referente cui affidare i pazienti sani, ma non in salute (secondo la definizione dell’OMS).

OSTEOPOROSI E CASE FARMACEUTICHE: UN RAPPORTO DIFFICILE                                                C’è un libro interessante (pubblicato nel 2005), che propone una visione decisamente alternativa rispetto l’osteoporosi e altre malattie. Gli autori, Ray Moynihan (uno dei più stimati giornalisti scientifici del panorama internazionale, che per anni si è occupato del “business della salute” scrivendo per il British Medical Journal e per Lancet) e Alan Cassels (ricercatore canadese) definiscono già dal titolo “Farmaci che ammalano”, la loro teoria. Si legge nel prologo: “Con campagne promozionali che sfruttano le più ataviche paure della morte, del decadimento e della malattia, l’industria farmaceutica, che vanta un fatturato di 500 miliardi di dollari, sta letteralmente cambiando il modo di intendere la condizione umana… Problemi lievi vengono dipinti come patologie gravi, per cui la timidezza diventa sintomo di Fobia Sociale e la tensione premestruale una malattia mentale chiamata Sindrome Pre-Mestruale… Il semplice fatto di essere ‘a rischio’ di una patologia è diventato esso stesso una ‘malattia’, per cui donne di mezza età sane oggi soffrono di un male latente alle ossa chiamato osteoporosi e uomini di mezza età in piena forma hanno un disturbo cronico chiamato colesterolo alto”. Il capitolo 8 del libro ha per titolo “Testare il mercato: l’osteoporosi”. Lì vi si legge: “Quando alcuni anni fa – 1998 – un gruppo di medici e ricercatori indipendenti della University of British Columbia ha esaminato tutti i dati scientifici sull’osteoporosi, la conclusione è stata che la campagna dei test della densità ossea per le donne era un classico caso di promozione della paura”. La teoria espressa dagli autori è che, poiché l’osteoporosi è asintomatica, per poterla elevare al ruolo di malattia, e meglio ancora di epidemia, era necessario indurre le persone a fare il test per provarne l’esistenza. In che modo? Con abili operazioni di marketing e comunicazione mirata a instillare la paura: campagne di sensibilizzazione, le chiama qualcuno. Ancora agli inizi degli anni ’90 erano pochi a conoscere dell’osteoporosi, mentre diverse importanti case farmaceutiche avevano degli interessi investiti in questa malattia. Non a caso provvidero a finanziare la distribuzione delle macchine per la MOC negli USA; non a caso l’OMS si preoccupò di darne una nuova definizione, utilizzando come parametro di densità ossea normale, quella di una donna di 30 anni, ovvero il massimo picco raggiungibile nel focus osteoporosi corso di tutta la vita. Da questa definizione automaticamente risultò che il 30% delle donne in post menopausa era affetto da osteoporosi. “L’ascesa dei test per la densità ossea contribuì all’esplosione delle vendite dei farmaci per l’osteoporosi, creando così un mercato globale per l’industria farmaceutica che attualmente (nel 2004) frutta 5 miliardi di dollari l’anno, ma che secondo le previsioni di alcuni entro breve arriverà a oltre 10 miliardi di dollari”. Eppure, fare il test non serve a prevenire le fratture e rispetto all’assunzione dei farmaci è ancora in atto un’interessate dibattito rispetto all’effettivo rapporto costi/benefici (costi in termini anche e soprattutto di effetti collaterali). Eppure, un metodo sicuramente efficace per limitare il rischio di fratture negli anziani c’è, ed è mettere in pratica dei programmi per prevenire l’evento traumatico che determina la frattura, ovvero la caduta.

PROMUOVERE L’ATTIVITÀ FISICA                                                                                                     Che la sollecitazione della forza di gravità sia necessaria per lo sviluppo e il mantenimento della densità ossea è cosa nota da quando i primi astronauti fecero rientro dalle prime esplorazioni spaziali: non solo i loro muscoli si erano atrofizzati, ma anche le loro ossa. Da cui si dedusse che, non solo in fase di crescita l’attività fisica era fondamentale per costituire un deposito di materiale osseo da tesaurizzare per la propria vita futura, ma anche che un allenamento realizzato con sovraccarichi (anche di lieve entità) poteva essere utilizzato, in età adulta e senile, sia per rallentare la perdita di materiale osseo, che per la riabilitazione negli stati più avanzati della malattia. L’attività motoria svolge anche un ruolo fondamentale per il rafforzamento della muscolatura là dove un buon trono/trofismo muscolare può sostituire un’architettura ossea deficitaria (frattura di vertebre e relativa cifosi), e restituire una buona funzionalità dopo le fratture derivate da cadute (tipico il caso della rottura della testa del femore e relativa protesi d’anca). In realtà, troppo spesso nei testi dedicati all’osteoporosi le fratture sono direttamente associate alla malattia, generando parecchia confusione: la patogenesi delle fratture dipende da molti fattori diversi dall’osteoporosi, primo fra tutti il rischio di cadere, che aumenta con l’avanzare dell’età e che è influenzato a sua volta da fattori di rischio modificabili, anche con l’attività fisica. Tipico esempio è quello già citato della rottura del femore, la frattura più grave, più comune e più invalidante. Secondo una review citata dalla IOF, le donne che trascorrono più di nove ore al giorno sedute hanno il 50% in più di probabilità di subire una frattura dell’anca rispetto a chi sta seduto per meno di sei ore al dì (nota 1). Esercizi che migliorano la postura e allenano l’equilibrio e la propriocezione, proteggono dalle cadute e diminuiscono la probabilità di andare incontro a fratture.

PROTEO-1: PER CAPIRE COME VANNO LE COSE…                                                                    Proteo-1 è il nome del progetto presentato dalla Siommms (Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro) come la più estesa e completa ricerca sull’osteoporosi mai condotta in Italia. Si tratta di uno studio osservazionale, di coorte, longitudinale e multicentrico che ha coinvolto 71 centri italiani per l’Osteoporosi sulla pratica clinica corrente per quanto concerne prevenzione, diagnosi e trattamento dell’osteoporosi primaria in donne in post-menopausa. I risultati, recentemente presentati al convegno annuale Siommms, dimostrano che le reali possibilità di fratturarsi sono ampiamente superiori a quanto finora ipotizzabile anche per le donne in postmenopausa non a rischio e che, pertanto, la filosofia preventiva adottata al Ministero della Salute è totalmente insufficiente, rivolgendosi solo a pazienti già fratturati o ad altissimo rischio. Il riferimento è al “giro di vite” imposto alla MOC e ai farmaci “antiosteoporosi” dagli ultimi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che stabiliscono quanto e cosa può essere rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale. In pratica, con i nuovi LEA si riduce fortemente l’importanza dell’indagine MOC che, in assenza di sintomi, diventa rimborsabile solo alle donne in post menopausa che presentano una concomitanza di fattori di rischio (età superiore a 65 anni, carenza ormoni estrogeni, terapie con cortisonici, fumo e alcol, apporto alimentare di calcio inferiore a 600 mg., ipertiroidismo, talassemia, radiografia che dimostri osteoporosi o cedimenti vertebrali, perdita di statura ecc.). Inoltre, in merito ai farmaci (i cosiddetti bifosfonati) se ne consente la prescrizione solo alle donne che hanno già avuto una frattura o un cedimento importante delle vertebre, ma non sulla base dei risultati della MOC, a fini preventivi. Ora, ci sarebbe quasi da scandalizzarsi insieme alla Siommms, al pensiero che il Servizio Sanitario Nazionale risparmi sulle spalle di chi sta male, se non fosse che… lo studio sopra menzionato è stato promosso e sponsorizzato da Servier Italia, la filiale italiana del Gruppo di Ricerca Servier, il terzo Gruppo farmaceutico francese su scala mondiale e il primo privato. A giugno del 2009 è stato dato l’annuncio che la società farmaceutica fiorentina Stroder è stata incaricata di distribuire in Italia un nuovo farmaco contro l’osteoporosi, sviluppato e prodotto proprio dalla Servier.

Nota 1. Pfeifer M, Sinaki M, Geusens P, Boonen S,Preisinger E, Minne HW; ASBMR Working Group on Musculoskeletal Rehabilitation. Musculoskeletal rehabilitation in osteoporosis: a review. J Bone Miner Res. 2004 
di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 2/2010