Archivio tag: bulimia

Disturbi del comportamento alimentare: generalità

introChi soffre di disturbi alimentari molto spesso, nel proprio percorso patologico, approda in un centro fitness: persone in soprappeso, obesi, ma anche anoressiche, bulimici, ortoressici… Tutti con un solo scopo: dimagrire, bruciare calorie. Tutti con un’ossessione, più o meno grave, più o meno consapevole: il proprio corpo, inadeguato, malato, sbagliato, non accettato, spesso soggetto a una visione totalmente distorta.

Tendenzialmente, si individuano tre tipi di disturbo alimentare: Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Anche se a volte si manifestano già a partire dall’infanzia, sicuramente il loro picco riguarda l’età adolescenziale e la prima parte dell’età adulta. Il problema fondamentale è che sono caratterizzate da un esordio in sordina, e per questo insidioso, che spesso ritarda drammaticamente la diagnosi e l’intervento terapeutico. Il più delle volte si ha a che fare con malati invisibili, perché è labile il confine con condizioni di “normalità”: prima di arrivare alla malattia conclamata, infatti, il soggetto vive lunghi periodi di “incubazione” in cui si strutturano tutti i comportamenti che caratterizzeranno poi la malattia. In genere, sono patologie di lunga durata, con un alto tasso di cronicizzazione, caratterizzate da elevati indici di mortalità (dal 5 al 18%, in base alla durata), dovuta a complicazioni (soprattutto a livello del sistema cardiocircolatorio) e non raramente a suicidio. I disturbi del comportamento alimentare rappresentano, per chi ne è affetto, la soluzione, la risposta a un dolore. Si possono individuare alcuni sintomi caratteristici generali:
- irragionevole paura della propria immagine corporea e del giudizio delle altre persone, perché lì tutto è riposto;
- ansia eccessiva riferita al proprio peso, che si manifesta con un utilizzo ossessivo della bilancia, piuttosto che, al contrario, un rifiuto caparbio alla sua misurazione;
- continuo controllo del proprio corpo allo specchio;
- confronto esasperato del proprio aspetto fisico con quello degli altri;
- comportamento nevrotico nei confronti del cibo, caratterizzato da alternanze di digiuni/abbuffate, esagerato utilizzo di prodotti dimagranti e ipocalorici, fino ad arrivare al consumo di diuretici e lassativi; il cibo è il condensato simbolico di tutta la vita affettiva ed emotiva;
- esercizio fisico smodato, anche se non presente in tutti i quadri di DCA.
Non è necessario che tutti questi comportamenti siano manifesti, così come non è detto che rappresentino un DCA in esordio: anzi, molti di questi caratterizzano il periodo puberale e generalmente si risolvono senza conseguenze. La distorsione dell’immagine corporea è centrale nello sviluppo dei DCA, stimolata dai modelli estetici proposti dalla società: il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni si sente soprappeso, mentre il 50% non è soddisfatta del proprio corpo. Inoltre, vale la pena di sottolineare come non tutti i comportamenti considerati “anomali” debbano avere una spiegazione ed essere inquadrati come sintomi preliminari di chissà quale patologia psicotica. Tuttavia, è tendenzialmente vero che i comportamenti sopra descritti sono un segnale di difficoltà, di fronte al quale, senza alcun allarmismo, è bene “drizzare le antenne”.

ANORESSIA E BULIMIA
L’anoressia nervosa è caratterizzata da una profonda paura di aumentare di peso, accompagnata da una visione distorta di sé e da un continuo e progressivo timore di perdere il controllo del proprio corpo. Reprimere lo stimolo della fame innesca un gioco perverso di conferma del proprio potere: più lo stimolo è presente, più si ha soddisfazione nel dominarlo; spesso, questo esercizio di disciplina e capacità di controllo, porta la persona anoressica a sentirsi superiore rispetto agli altri e la spinge a un progressivo allontanamento dagli ambiti sociali. Il disturbo ossessivo-compulsivo, determinato dai continui pensieri sul cibo e sul corpo, spinge la persona anoressica a cercare una propria stabilità instaurando riti e abitudini che caratterizzano giornate e attività. Dal punto di vista clinico, un indice di massa corporea inferiore a 17,5 è sicuramente un segnale molto sospetto, soprattutto se accompagnato da amenorrea (assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi).
La bulimia nervosa è caratterizzata da frequenti abbuffate e dalla totale perdita di controllo sul cibo: le persone bulimiche mangiano per mezz’ora di seguito ingurgitando di tutto, senza scegliere gli alimenti, senza neanche sentirne i sapori. Le abbuffate sono seguite poi da profondi sensi di colpa, e da una grande vergogna per avere perso il controllo. Da qui seguono due comportamenti differenti: nel primo, caratterizzato da condotte di eliminazione, la persona bulimica si induce il vomito per eliminare quello che ha mangiato; nel secondo, senza condotte di eliminazione, l’abbuffata è compensata con periodi di digiuno, attività fisica estrema, utilizzo di diuretici e lassativi. La diagnosi è particolarmente difficile anche perché questi soggetti mantengono un peso normale e spesso riescono a tenere segreti i loro comportamenti. A volte la bulimia è associata a forme di autolesionismo più o meno gravi.
Sia anoressia che bulimia sono disturbi tipicamente femminili (rapporto di 1 a 20) anche se i disturbi alimentari nei maschi rappresentano una realtà epidemiologica in aumento. Mentre nelle donne il tempo medio di latenza è di 4 anni, in genere un maschio entra in terapia dopo 7 anni di malattia, il cui esordio si segnala generalmente intorno all’adolescenza, quando il giovane comincia a strutturare la propria identità adulta. Invece di anoressia, si parla spesso di anoressia inversa, o vigoressia, o dismorfia muscolare, poiché nei maschi la principale causa di dimagrimento è determinata da un eccesso di esercizio fisico; per questo, generalmente, non si arriva mai a perdite di peso gravemente invalidanti. I sintomi maggiormente riconoscibili sono l’assenza di massa grassa e la ricerca, urgente e continuamente insoddisfatta, di incrementare la propria massa muscolare tramite esercizio fisico compulsivo e rigorose diete alimentari fino ad arrivare, talvolta, all’uso di steroidi anabolizzanti.

TRIADE DELL’ATLETA
A volte si ricorre all’attività fisica perché già si soffre di un DCA, alle volte è il praticare un’attività sportiva che può favorire l’insorgenza di un DCA, soprattutto praticando quegli sport in cui il rapporto peso-forma è fondamentale per una prestazione ottimale (ginnastica artistica e ritmica, pattinaggio, danza…). In particolare, in un’atleta di sesso femminile, si parla di “triade dell’atleta” quando compaiono contemporaneamente tre sintomi:
- ridotta disponibilità di energia, che causa un peggioramento della performance;
- irregolarità mestruale;
- fragilità ossea.
Nel tentativo di ridurre al minimo la propria massa grassa, queste atlete diminuiscono eccessivamente l’apporto di cibo, aumentando contemporaneamente le sedute di allenamento e utilizzano lassativi e diuretici in maniera indiscriminata. Il controllo del peso diventa così un’ossessione che, oltre a incidere negativamente sulla performance, predispone l’atleta a fratture, strappi muscolari e a gravi complicanze cardiache e renali.

DISTURBI DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
I sintomi che caratterizzano gli affetti da disturbi da alimentazione incontrollata, in inglese Binge (orgia) Eating Disorder, possono essere paragonati a quelli delle persone bulimiche, con la differenza che i “Binge” non cercano di compensare le calorie introdotte in eccesso. Studi recenti sostengono che a questa categoria appartengano circa il 20% delle persone obese: si abbuffano regolarmente in modo compulsivo e incontrollato, generalmente da soli. Spesso le “crisi” sono precedute da un’emozione o un avvenimento scatenante e sono seguite da disgusto e senso di colpa, una sorta di autopunizione per un disagio interiore che non trova soluzione adeguata, e che si preferisce nascondere con decine di chili di soprappeso. La paura è la condizione cronica che innesca il circolo vizioso: paura di non essere all’altezza, di non essere accettati e rifiutati. Perché si possa inquadrare come un DCA, i soggetti devono avere un indice di massa corporea di almeno il 30% superiore alla normalità, e le crisi di alimentazione incontrollata devono presentarsi con una frequenza di almeno 2 volte alla settimana per 6 mesi.

ORTORESSIA
Consideriamo, infine, un DCA di recente definizione, l’ortoressia, caratterizzato dall’ossessione per un’alimentazione e uno stile di vita salutare, che porta alla selezione esasperata dei cibi e al totale rifiuto di interi gruppi di alimenti, al praticare fitness estremo con un’attenzione psicotica verso il proprio corpo.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Professione Fitness 6/2008

Dieta, fitness e altre prigioni


“In un momento storico di grandi incertezze, in cui l’individuo sente di avere poco controllo sulla  propria esistenza e sente un senso di inefficacia sulle possibilità di cambiare il proprio destino, si avverte la necessità di riportare il controllo sui propri confini corporei. Il progetto corpo è uno dei pochi territori in cui il singolo individuo sente che le proprie azioni hanno ancora una qualche efficacia: dieta, palestra, attività fisica, sono pratiche attraverso cui il corpo può essere oggettivamente modificato. Questo restituisce, in qualche modo, un equilibrio o una falsa idea di controllo. Io credo che l’anoressia (non la patologia primaria declinata dai manuali medici, ma la ‘nuova’ anoressia) sia una metafora del nostro modo di relazionarci al mondo, una sorta di ‘grammatica’ diventata di uso comune, come se la malattia fosse entrata nel nostro modo di pensare, nel discorso, e le persone se ne fossero appropriate per dire altre cose, per difendersi. Da questo punto di vista, tutti i comportamenti di controllo sul proprio corpo possono essere considerati figli di questa declinazione”.

Luisa Stagi

Fitness e body building sono attività fisiche che, a differenza di tutti gli sport, non ambiscono a un risultato prestativo “esterno”, in cui il corpo è il mezzo per ottenere un risultato, ma sono attività in cui il risultato è la stessa costruzione o modifica del corpo. Non è ancora così frequente che una persona si iscriva in un centro fitness “solo” per sentirsi meglio, a meno che non si tratti di un “over 60”. Quasi sempre, il cliente vuole vedersi meglio e cerca di raggiungere un obiettivo specifico: perdere peso, rassodare, definire, aumentare la massa, dando anche specifiche indicazioni dei distretti anatomici che vorrebbe vedere modificati (glutei, addominali, pettorali, gambe ecc.). Quasi tutti già hanno in testa un modello ben preciso a cui puntare, un obiettivo che spesso, nella sua idealizzazione, si preannuncia già come difficilmente raggiungibile; la costruzione di un corpo irreale, che corrisponde a un modello mediatico impossibile da imitare e sempre più estremo nella sua definizione. In questo progetto di costruzione del corpo i centri fitness rappresentano, loro malgrado e più o meno consapevolmente, un luogo di coltura fertile, ideale per la maturazione di modelli comportamentali deviati. Molto spesso, chi si iscrive in un centro fitness coltiva aspettative molto elevate e ambisce a risultati che non sempre corrispondono all’impegno che intende dedicare alla loro realizzazione. Dunque, all’istruttore si pone da subito una questione: lavorare sull’impegno o sull’ambizione del risultato? Sull’accettazione di sé o sull’esasperazione della prestazione? La cura verso il proprio corpo non è di per sé ossessiva, così come il centro fitness non rappresenta necessariamente il tempio di tale ossessione: proprio per questo le palestre non possono più prescindere da un ruolo educativo, seppur rigorosamente definito nei suoi confini. Ne abbiamo parlato con Luisa Stagi, sociologa, esperta in disturbi del comportamento alimentare e autrice del libro “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni”, a cui abbiamo rubato il titolo per questo articolo.

Nel suo libro si legge che l’anoressia è cambiata e sta cambiando da un decennio a questa parte: è maggiormente indotta dal modello sociale, si è diluita nella sua profondità e si è allargata nella sua espansione. Ci spiega meglio questo concetto?
I primi anni in cui si cominciava a diffondere e a studiare, l’anoressia era, in particolari condizioni psicopatologiche, il tentativo di controllare/rifiutare le trasformazioni dell’età puberale. Attraverso il controllo della condotta alimentare si negava la propria femminilità. La nuova anoressia, invece, è maggiormente indotta dal modello sociale, in cui la ricerca non è tanto dell’identità quanto dell’omologazione. L’anoressia maschile o vigoressia è un fenomeno in grande espansione che si inquadra bene con questo nuovo modello, così come anche l’ortoressia. L’anoressia maschile può sviluppare due modelli di comportamento differenti: l’annullamento del corpo, oppure lo sviluppo esagerato della massa muscolare (anoressia inversa). L’incertezza trasmessa da una società che non lancia più segnali precisi di identificazione, una società in cui alcuni attributi maschili non sono più riconosciuti importanti o, per lo meno, in cui gli uomini sentono di non avere messaggi chiari rispetto a ciò che ci si aspetta da loro, determina una grande fragilità e la necessità, in qualche modo, di esercitare un controllo: lavorando sul proprio corpo, annullando, togliendo pezzi, oppure aggiungendo e rinforzando. Il corpo diventa un territorio in cui riusciamo a lavorare e a vedere degli effetti, in cui, finalmente, riusciamo a verificare la validità e l’efficacia delle nostre azioni.

“Controllo” mi pare una parola chiave: un comportamento, una necessità, una pratica che, se sfugge di mano, può diventare ossessione. Nelle palestre molto spesso si praticano e si inducono comportamenti di controllo sul corpo: controllo del peso, della taglia, del battito cardiaco, dei risultati dell’allenamento, controllo della modalità di frequenza della palestra, controllo delle calorie ingerite e di quelle spese…
La dimensione del controllo è diffusa in tutto ciò che ci circonda, perché è un po’ quello che ci manca: le pratiche che aiutano ad avere controllo, aiutano a sentirsi meglio. Se, tuttavia, queste pratiche aiutano a stare meglio, senza entrare nel patologico, io credo che possano andare bene. Avere qualcuno che ci dice cosa è bene e cosa è male alle volte aiuta a mantenere un sottile, ma fondamentale, equilibrio: l’importante è averne consapevolezza. Il controllo diventa ossessione quando è presente una fragilità personale, in chi ha determinate caratteristiche cognitive e in persone che sono più fragili socialmente, perché l’insoddisfazione li rende più vulnerabili. La pressione sociale verso la magrezza, la bellezza, verso l’espiazione, è talmente forte che non è facile liberarsene: starci dentro con consapevolezza mi sembra già un passo importante.

Non crede che anche questo modo di comunicare il problema dell’obesità in termini di pandemia e trasferendo esclusivamente sulla sfera individuale le responsabilità, puntando sul senso di colpa, possa essere un’anticipazione di queste tendenze, una degenerazione anche del modello adottato da molti in cui l’attività fisica viene prescritta in modo rigido e doveristico?
L’individuo sente la necessità di dimostrare di aver capito come è giusto stare all’interno della società e lo deve dimostrare con pratiche che lo manifestino con evidenza. La nostra è una società in cui la malattia viene fatta passare innanzitutto come un peso per il “welfare state”: il concetto di fondo di questo nuovo salutismo è che tutti dobbiamo guadagnarci quel poco rimasto del “welfare state” comportandoci bene, sotto ogni aspetto. L’obeso sfugge al controllo sociale, in una socializzazione che non passa più per istituzioni forti e ferme, ma passa attraverso i corpi. Noi interiorizziamo come è giusto comportarsi e attraverso il corpo dobbiamo dimostrare agli altri che lo abbiamo capito: chi non lo fa, sta dicendo che non accetta queste regole, sfugge al controllo sociale e quindi dà fastidio, come danno fastidio tutti i devianti. In realtà, né l’anoressico né l’obeso sono i modelli giusti e conformi per la nostra società. Chi davvero risponde in toto alle richieste della nostra società è il bulimico, che da un lato consuma e dall’altro rimane magro. Per questo, la bulimia è la forma di disturbo del comportamento alimentare più diffusa e anche la meno riconoscibile.

Sempre nel suo libro si legge “L’attenzione ossessiva per l’immagine corporea, il culto della magrezza, non sono la causa dei disturbi alimentari; piuttosto la loro funzione sembra quella di fornire una strada, un contenitore in cui un malessere più profondo riesce a incanalarsi e a esprimersi”. Quale ruolo può avere, in questo contesto, il centro fitness?
Io credo che istruttori, personal trainer, preparatori atletici siano figure veramente importanti per il ruolo educativo che potrebbero assumere, anche perché spesso rappresentano dei modelli di riferimento, ma dovrebbero avere maggiore coscienza del proprio ruolo. Per la stesura del mio lavoro ho parlato con molti gestori, proprietari e responsabili di centri fitness e ho rilevato grande sensibilità a questi argomenti: si tratta, ora, di cominciare a mettere dei “semini di consapevolezza” in chi ha, di fatto, grandi responsabilità.

LUISA STAGIstagi027
Insegna Sociologia e Metodologia e tecniche della ricerca sociale presso l’Università degli Studi di Genova. Nella stessa città collabora con il Centro per la cura dei disturbi alimentari e con il centro interdisciplinare per la ricerca in sessuologia. Per FrancoAngeli ha pubblicato “La società bulimica” (2002) e “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni” (2008). “Il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore”.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 5/2012

Soprappeso e obesità: uno sguardo d’insieme

DX

 

Nonostante i progressi compiuti dalla medicina, l’aspettativa di vita delle prossime generazioni sarà inferiore a quella attuale. E questo è un orribile paradosso.

 

Soprappeso e obesità sono due argomenti difficili da trattare, indagare e definire e più ci si addentra nella “materia” più se ne scopre la vastità. Dopo aver letto un po’ di tutto a riguardo, se ne può uscire con una sola, limpida certezza: non è pensabile inquadrare la questione solo in termini di consumi calorici. Di conseguenza, la presa in carico di una persona in soprappeso richiede, prima di tutto, che si parta da questa consapevolezza: se l’intervento sarà limitato e circoscritto alla sola somministrazione di attività fisica, l’insuccesso sarà quasi sempre inevitabile.

QUANDO NUMERI E DEFINIZIONI NON AIUTANO                                                                 Soprappeso e obesità non sono la stessa cosa, anche se per la maggior parte dei media non è così; c’è da dire che anche la divulgazione istituzionale, e a volte addirittura quella scientifica, peccano dello stesso pressappochismo, mischiando dati e statistiche che narrano di una razza umana destinata a soccombere sotto il proprio peso. In Italia, secondo le recenti dichiarazioni del direttore del Centro studi sull’obesità dell’università di Milano, Michele Carruba, nel giro di pochi mesi siamo passati da una percentuale del 36% di persone in soprappeso al 50%. Io mi guardo in giro, ma non li vedo mica tutti questi ciccioni: il 50%… non ci credo, guarda un po’, e non mi vergogno a dirlo. Anche l’OMS stenta a portare chiarezza. La classificazione di riferimento si basa su di un parametro che è già di per se stesso discutibile: il BMI, secondo il quale Arnold Schwarzenegger rientrerebbe nel girone degli obesi. E ancora, all’obesità e al soprappeso si associano parole come epidemia e pandemia, riferibili solo a malattie infettive trasmissibili per contagio, la seconda con l’aggravante di una diffusione globale ed elevata mortalità. Non si capisce perché, a questa stregua, non si definisca anche il cancro come una malattia pandemica. Inoltre, come è possibile definire il soprappeso una malattia? A dire il vero, io opinerei anche sull’obesità, ma sul soprappeso non ci possono essere fraintendimenti: si chiama fattore di rischio, non malattia. E non si tratta si speciosità letteraria, di raffinatezza linguistica: qui è un problema di pertinenze. La malattia la cura il medico, con il suo corollario di strutture, esami, farmaci. Il soprappeso non è una condizione da “curare”. Se è vero che la definizione di salute data dall’OMS è espressione di progresso (“stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”), è vero anche che include, volendo, un orribile tranello: non è che, una volta svincolato il concetto di salute dalla stretto significato di “assenza di malattie”, apriamo la strada a nuove interpretazioni di processi finora considerati fisiologici?

L’ASPETTO SOCIO-CULTURALE: VITTIME O COLPEVOLI?                                                                    Le posizioni rispetto alla questione sono molto differenti. Un modello condiviso da molti è quello educativo-colpevolizzante, che si basa sull’assoluta certezza che tutto il problema sia racchiuso nel “Big Two”, ovvero cibo e attività fisica, le uniche due variabili (a parte nei casi di obesità patologica) da cui dipende l’accumulo di adipe. Noi siamo delle macchine che necessitano di energia per lavorare; l’energia è il cibo. Se ne assumiamo in dosi e modalità corrette, la macchina è in equilibrio, altrimenti, se questo rapporto si altera per eccesso di cibo o scarsità di attività fisica o per entrambi i fattori, la macchina uomo accumula grasso. Per cui, i rimedi sono facili ed evidenti: il soprappeso è ricondotto a una questione di volontà e autodisciplina. Se sei grasso è colpa tua. E se fai spendere tanti soldi allo stato per la tua assistenza sanitaria devi assumerti parte di quelle spese. È di questo parere il Prof. Arsenio Veicsteinas, Ordinario di Fisiologia Umana, Direttore dell’Istituto di Esercizio Fisico, Salute e Attività Sportiva, Università degli Studi di Milano che, in modo provocatorio, ha dichiarato che il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe richiedere un “ticket aggiuntivo” ai soggetti in soprappeso, ma sani, che richiedono visite mediche specialistiche ed esami integrativi. Da questa posizione educativo-colpevolizzante partono alcune iniziative politiche “curiose”, come il programma “Pounds for pounds” in fase di sperimentazione nell’Essex, Regno Unito. In pratica, ogni partecipante, obbligatoriamente caratterizzato da forte soprappeso, sarà premiato dal servizio sanitario britannico con una sterlina (sotto forma di buoni shopping) per ogni chilo buttato giù. A questo stesso modello si ispirano le cosiddette “fat tax” adottate in diversi paesi del mondo, Stati Uniti in primis, con differenti modalità di attuazione, tendenti comunque a colpire economicamente produttori, fruitori e “portatori” di grasso. Sulla stessa linea la decisione presa da diverse compagnie aeree di far pagare un sovrapprezzo alle persone obese, perché di fatto occupano due sedili o comunque perché fanno consumare più carburante (così come si paga un extra per il bagaglio che supera un certo peso…). Alcune università americane a numero chiuso selezionano gli studenti anche in base al peso, mentre altre non rilasciano i diplomi di laurea a chi valica la soglia massima di BMI. E ancora, alcune società di assicurazioni fanno pagare una sovrattassa per l’assicurazione sanitaria alle persone in soprappeso. Secondo Jason Docherty, presidente della National Association to Advance Fat Acceptance «l’America è la nazione del politically correct, dove in linea di principio non è consentito neppure fare dell’ironia in base al sesso, all’etnia, alla religione. L’unico caso in cui è diventato accettabile una sorta di linciaggio psicologico, è contro gli obesi».

FAT-ISM                                                                                                                                    Un’altra posizione, diametralmente opposta a quella educativo-colpevolizzante, è quella che riconosce nell’obesità un fortissimo aspetto invalidante, sia legato a disabilità fisiche, che psicologiche e sociali. È di questo avviso Matilde Leonardi, Neurologo e Pediatra dell’Istituto Neurologico “C. Besta” di Milano, che da anni si occupa dei temi legati alla disabilità. Nella definizione di disabilità l’ambiente è l’elemento indispensabile per poterne dare una definizione: la disabilità nasce dal rapporto fra un corpo e un ambiente che non sono totalmente compatibili. Intervenire sulla sola menomazione è un’azione di tipo fallimentare, soprattutto perché spesso si ha a che fare con problemi cronici. Quindi è necessario puntare non solo al miglioramento della funzionalità corporea, ma anche e soprattutto sulla partecipazione sociale. Alla persona obesa viene negato un ruolo sociale e se a questo aggiungiamo che l’indice di massa corporea è più elevata tra i più bassi gruppi socio-economici, appare evidente come il soggetto obeso sia ad altissimo rischio di emarginazione. “Fatism” è il termine utilizzato per definire l’atteggiamento discriminatorio contro le persone soprappeso e obese, ritenute nel pensare comune di essere pigre, con poco controllo, di umore instabile, poco attente all’igiene personale: le persone obese sono considerate responsabili della loro condizione e un corpo imperfetto riflette una persona imperfetta. Trovo bellissima l’interpretazione che Luisa Stagi (dottore di ricerca in Sociologia e Metodologia della ricerca sociale) fa della bulimia come la risposta più conforme alle attese della società; una società che da una parte richiede di consumare e dall’altra esige corpi magri, da una parte spinge all’edonismo e dall’altra premia l’autocontrollo. La persona bulimica si accetta attraverso l’accettazione dell’altro. Da questo punto di vista, al contrario, l’obeso è disprezzato ed emarginato perché non si attiene alle richieste della società, o almeno lo fa solo in parte, consumando.

BIG TWO: UNA TEORIA SUPERATA                                                                                                  La teoria del Big Two negli Stati Uniti è stata da anni messa in discussione, fondamentalmente perché, si è rilevato, non è più sufficiente a spiegare l’impennata di obesità degli ultimi anni. Pur non volendo dar peso ai numeri, è innegabile che una visita alle terre d’oltreoceano sia sufficiente per rendersi conto della portata del fenomeno: impressionante. Proprio nella patria del fitness, del jogging, dello sport scolastico nella sua più ampia espressione. E davanti a questa moltitudine, anche la posizione educativo-colpevolizzante basata sulla responsabilità soggettiva fa acqua da tutte le parti. Ma la mente vergine europea, oltre alle carni in eccesso, nota anche altre cose. Prima di tutto, in questo paese è impossibile sfuggire al cibo, offerto ovunque, a qualsiasi ora, nelle sue infinite varietà. Poi c’è il fenomeno del supersizing, legato al “principio dell’ingordigia” secondo il quale più le dosi sono abbondanti più mangi, indipendentemente dall’appetito. Quindi le porzioni sono più abbondanti che da noi, così come è maggiore, e parrebbe senza controllo, la pubblicità che partecipa attivamente alla costruzione di un ideale alimentare nei bambini e ragazzi a base di junk food. Ma questa spinta ambientale al consumo di cibo non basta ancora a giustificare l’aumento del popolo degli obesi, che pare sia raddoppiato negli ultimi 30 anni. Così, indagando fra predisposizione genetica, termodinamica, disfunzioni metaboliche e altre espressioni di alterata fisiologia, qualcuno ha pensato di sollevare il coperchio di uno dei comparti più potenti dell’economia americana: l’industria agroalimentare. Il nostro cibo è cambiato più negli ultimi 30 anni che nei mille precedenti, sia come quantità e qualità degli ingredienti che come preparazione. Un esempio eclatante è fornito dallo sciroppo glucosio-fruttosio estratto dal mais (HFCS) che, a partire dagli anni ’80, negli States ha sostituito lo zucchero contenuto in quasi tutti i preparati alimentari e bibite gassate. Un’analisi molto interessante è proposta dal libro “Toxic. Obesità, cibo spazzatura e malattie alimentari: inchiesta sui veri colpevoli” di William Reymond, un viaggio nell’alimentazione made in USA alla scoperta delle manipolazioni che, partendo dai produttori agricoli, allevatori, aziende farmaceutiche, esperti di marketing, finiscono direttamente nei piatti dei cittadini americani. Tralasciando gli aspetti di politica economica molto ben analizzati, Reymond riporta una serie di studi scientifici compiuti negli ultimi anni secondo i quali la differente composizione molecolare rispetto allo zucchero determinerebbe una mancata stimola zione di produzione di insulina, aggirando i normali meccanismi di regolazione dell’appetito. Simpatiche anche le informazioni sull’industrializzazione dell’allevamento, dove l’uomo ha letteralmente alterato i normali processi di evoluzione di polli, maiali, mucche, per massimizzare i profitti a suon di mangimi tossici, ormoni e antibiotici, che finiscono poi per diventare parte del nostro cibo. Per non parlare della rivoluzione compiuta “grazie” all’utilizzo massiccio degli acidi trans, presenti nel 40% dei prodotti alimentari americani. L’obesità, conclude Reymond, deve essere interpretata come il risultato dell’interazione tra l’uomo e il suo ambiente, ma certo non si tratta di una fatalità. «L’industria agroalimentare non è responsabile solo di aver camuffato la natura della nostra alimentazione… nella loro corsa al guadagno alcune aziende hanno semplicemente cercato di impossessarsi dell’anima di un’intera generazione». Il problema è quindi anche culturale e l’Europa deve stare bene attenta alle posizioni che assumerà nel suo legiferare.

L’INTERVENTO EDUCATIVO IN ITALIA. CASE HISTORY                                                                        A. è un bambino grasso. Lo è da sempre, così come grassi sono i suoi genitori. Se lo chiamano “ciccione” lui si arrabbia, e mena a destra e a manca. Risparmia solo i suoi amici, gli unici che hanno il diritto di prenderlo un po’ in giro. La mamma ha provato a iscriverlo a diversi corsi sportivi, ma A., sconfortato e annoiato, si è sempre ritirato. Negli ultimi due anni la sua classe ha fatto da cavia per la compilazione di statistiche sul soprappeso e obesità nell’età infantile. I bambini sono stati sottoposti a diverse indagini da parte di organizzazioni accreditate a vario titolo: misurazioni, controlli, questionari sullo stile di vita dei ragazzini e delle loro famiglie. Un giorno gli “esperti” hanno consegnato ai bambini i risultati delle misurazioni, in busta aperta. I bambini ovviamente hanno letto e confrontato. Sul foglio di A. c’era scritto “obeso” e lui si è messo a piangere: nessuno si era preoccupato di spiegargli alcunché, e lui pensava che obeso volesse dire “stupido”. L’intervento “educativo” della scuola è stato quello di proporre un corso di educazione alimentare, tenuto dalla maestra di scienze e utilizzando come supporto un libricino, “Nutrikids”, marchiato Nestlé. Alla fine del programma, come esercitazione, i bambini sono stati invitati a inventarsi degli slogan pubblicitari che promuovessero una sana alimentazione. Inoltre, hanno risposto a un questionario scritto per verificare i livelli di apprendimento. Alla domanda: “fai un esempio di cereale” alcuni hanno scritto “i Cocopops”. La maestra di scienze è la stessa che dovrebbe impartire le lezioni di educazione motoria, due ore curricolari (quindi inderogabili) alla settimana. In realtà queste ore molto spesso non vengono svolte, per i seguenti motivi: – piove (la palestra è situata esternamente all’edificio scolastico); – nevica (vedi sopra); – c’è un ritardo nel programma di matematica, geometria, scienze (la maestra è la stessa); – i bambini si sono comportati male, quindi non meritano di andare in palestra: l’attività motoria è in premio, un divertimento, un gioco, mica una materia. Ora A., tirato dentro dagli amici, si è iscritto a un corso di calcio, di quelli dove lo sport è ancora sport, con tutti i suoi valori appresso. È seguito, direi quasi amato, anche se lui fa una fatica porca. Non riesce neanche a correre e deve spesso ingoiarsi le beffe degli altri giocatori: del resto è sempre così, ogni volta che deve inserirsi in un nuovo gruppo sa di dover pagare il fio. Ultimamente ha rinunciato a indossare i pantaloncini, per assicurarsi una presa in giro di meno. Però c’è, lì nel campo, sempre trafelato, con il suo allenatore che gli grida “bravo A., dai che ce la fai”. Ma a me sembra che sia tanto solo.

di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 4/2010