Archivio tag: cancro

Gli effetti dell’inattività fisica sulla diffusione delle malattie non trasmissibili in tutto il mondo: un’analisi del Lancet Physical Activity Working Group

adultoThe Lancet ha recentemente pubblicato una nuova analisi sugli studi internazionali presenti in letteratura (pubblicati su Medline ed Embase) per quantificare l’impatto globale dell’inattività fisica sulle principali patologie non trasmissibili come la malattia coronarica, il diabete di tipo 2, i tumori della mammella e del colon. Gran parte della popolazione mondiale è inattiva e questo rappresenta un importante problema di salute pubblica: ma è possibile quantificare l’effetto che l’inattività fisica ha su queste importanti malattie? È possibile stimare quanto potrebbero essere evitate se le persone inattive dovessero diventare attive? E stimare l’aumento di aspettativa di vita nella popolazione? Gli studiosi del Lancet ci hanno provato, incrociando dati ufficiali e utilizzando raffinati metodi di analisi di studi provenienti da tutta la letteratura scientifica internazionale.

ATTIVITÀ FISICA E SALUTE
Nell’antichità i medici (già in Cina nel 2600 aC e poi con Ippocrate intorno al 400 aC), credevano nel valore dell’attività fisica per la salute. A partire dal XX secolo, tuttavia, si è sviluppata, nella classe medica, anche una tendenza diametralmente opposta, in cui l’esercizio era visto soprattutto con un’accezione negativa, come un pericolo potenziale a cui preferire il riposo: in quel periodo, per esempio, ai pazienti con infarto miocardico acuto veniva prescritto il completo riposo a letto. L’epidemiologo Jerry Morris è stato sicuramente uno dei pionieri, il cui lavoro ha contribuito a cambiare l’opinione popolare riguardo l’esercizio fisico, conducendo i primi rigorosi studi epidemiologici per indagare l’inattività fisica e il rischio di malattia cronica (pubblicati nel 1953). Da allora, molti altri studi hanno chiaramente documentato i numerosi benefit dell’attività fisica sulla salute ma, nonostante questa conoscenza, gran parte della popolazione mondiale rimane fisicamente inattiva. Per quantificare l’effetto dell’inattività fisica sulle malattie non trasmissibili più importanti, gli studiosi del Lancet hanno stimato quale percentuale di queste malattie potrebbe essere evitata se le persone inattive dovessero diventare attive, nonché quanto potrebbe aumentare la speranza di vita della popolazione. Sono state considerate le malattie non trasmissibili indicate dalle Nazioni Unite come una minaccia alla globale alla salute: malattie coronariche, il cancro, specificamente tumori della mammella e del colon, e diabete di tipo 2.

INATTIVITÀ FISICA: DEFINIZIONE
Si definisce “inattività fisica” un livello di attività insufficiente a soddisfare le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicate nel 2010. Lì si legge che l’attività fisica comprende tutte le forme ricreative o di svago, le modalità di spostamento (per esempio a piedi o in bicicletta), le attività professionali, le faccende domestiche e tutte le forme di esercizio fisico inserite nel contesto delle attività quotidiane, familiari e di comunità. Al fine di migliorare l’efficienza cardiorespiratoria e muscolare, la salute ossea e ridurre il rischio di malattie non trasmissibili e la depressione, l’OMS raccomanda che gli adulti dai 18 anni in su:
1) svolgano almeno 150 minuti di attività fisica aerobica a moderata intensità durante la settimana, o almeno 75 minuti di attività fisica aerobica intensa, o una combinazione equivalente delle due;
2) effettuino l’attività aerobica per almeno 10 minuti consecutivi;
3) per ottenere ulteriori benefici per la salute, gli adulti dovrebbero aumentare la loro attività fisica aerobica di moderata intensità a 300 minuti a settimana, o 150 minuti di attività fisica aerobica intensa, o una combinazione equivalente delle due;
4) due o più giorni a settimana dovrebbero svolgere un’attività di potenziamento muscolare, coinvolgendo i principali gruppi muscolari;
5) a partire dai 65 anni, gli adulti con scarsa mobilità dovrebbero svolgere attività fisica per migliorare l’equilibrio e prevenire le cadute 3 o più giorni a settimana.
Nelle raccomandazioni dell’OMS si legge anche che, in generale, per tutti i gruppi di età, seguire queste raccomandazioni e essere fisicamente attivi comporta maggiori benefici che danni.

RISULTATI DELL’ANALISI
È stata stimata la prevalenza di inattività fisica nei casi studiati, per malattia coronarica, diabete di tipo 2, cancro al seno e cancro al colon. La prevalenza più elevata è stata osservata in persone che hanno sviluppato il diabete di tipo 2, seguiti da quelli che hanno sviluppato il cancro al colon, la malattia coronarica e il tumore alla mammella. Questi risultati suggeriscono che l’inattività fisica provoca il 6% di morti per malattia cardiaca coronarica, il 7% per il diabete di tipo 2, il 10% per cancro al seno e il 10% per cancro al colon. Anche se la rimozione del fattore di rischio “inattività fisica” ha avuto, in termini di percentuale di riduzione, l’effetto maggiore per il cancro al colon e il minore per la malattia coronarica, vista la maggior incidenza di quest’ultima, avrebbe un effetto molto più grande riguardo al numero di casi che possono essere potenzialmente evitati. Nel 2008 7,25 milioni di persone nel mondo sono morti per malattia coronarica, contro 647.000 per il cancro al colon-retto. Applicando le percentuali rilevate nell’analisi ai 57 milioni di morti in tutto il mondo nel 2008, gli studiosi hanno stimato che più di 5,3 milioni di morti avrebbero potuto essere evitati se tutte le persone inattive fossero state attive. A livello mondiale è stato inoltre stimato che l’inattività fisica provoca il 6-10% delle principali patologie non trasmissibili, quivi includendo la malattia coronarica, il diabete di secondo tipo e i tumori al seno e al colon. Tali scoperte consentono di considerare l’inattività fisica come un vero e proprio fattore di rischio, alla stessa stregua del fumo e dell’obesità. Anche se i fattori di rischio sono classificati in base a scale differenti rispetto alla “quota di rischio”, è comunque interessante paragonare l’inattività fisica agli altri due fattori, contro cui i governi di tutto il mondo stanno attuando delle strategie d’azione: fumo e obesità. Per esempio, si stima che il fumo causi circa 5 milioni di morti in tutto il mondo (dati riferiti al 2000); così, l’inattività fisica sembra avere un effetto del tutto simile. Per questo è necessario esplorare tutte le vie e supportare tutti gli sforzi per ridurre l’inattività fisica in tutti i Paesi e migliorare la salute della popolazione mondiale in modo sostanziale.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 9/2012

Il cancro e lo sport professionistico

 

IL SOSPETTO DEL DOPING
Lo sport fa bene, tanto per la prevenzione quanto per la rieducazione da malattie oncologiche, ma la popolazione degli sportivi agonisti non è esclusa da tale patologia, anzi, parrebbe che alcune categorie siano particolarmente a rischio. Non esistono studi ufficiali sulle pubblicazioni scientifiche, ma molti sono coloro che, a vario titolo, hanno affrontato la questione. Fra questi il pm Raffaele Guarinello che, conducendo un’indagine nel mondo del calcio professionistico (iniziata nel 1998), incaricò due epidemiologi dell’Istituto Superiore di Sanità di studiare le cause di morte di migliaia di ex calciatori (circa 20.000 calciatori di serie A, B e C dal 1965 a oggi) e il possibile collegamento con l’assunzione di sostanze proibite, o con pratiche (trattamenti farmacologici, sistemi di allenamento) dannose alla salute. A questa ne seguì una seconda sul ciclismo professionistico (iniziata nel 2000) che esaminò la storia sanitaria di 1.500 ciclisti in attività fra il 1969 e il 1999. Ad occuparsene anche un organismo appositamente creato l’”Osservatorio tumori professionali”. Il confronto fra le cause di morte degli ex giocatori di serie A, B e C rispetto alla popolazione normale mise in evidenza che le morti per leucemia linfoide erano 35 volte più numerose rispetto al resto della popolazione italiana; mentre per le morti da tumore epatico, fu riscontrato un rischio 8 volte superiore. Fra le possibili cause indicate di questo “eccesso di mortalità” è stato segnalato l’abuso di farmaci e/o l’utilizzo di sostanze dopanti: gli anabolizzanti per il cancro al fegato, l’ormone della crescita per la leucemia linfoide. A proposito di doping Umberto Tirelli, Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica all’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (Pordenone) e Professore di Oncologia Medica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Udine, Scuola di Specialità in Oncologia, sostiene: «Complicazioni più gravi per altro sono quelle oncologiche, in quanto già si verificano casi di tumori, in particolare al fegato, alla prostata e reni, e potrebbero aumentare nel tempo soprattutto in coloro che hanno assunto per molto tempo degli steroidi anabolizzanti, come sembra vi sia evidenza nei ciclisti in Francia». Il professore si riferisce a un’indagine del 1999 condotta dal Ministero dello Sport francese su 200 ciclisti professionisti, che evidenziò che il 60% soffriva di “serie turbe biologiche che devono essere oggetto di studi scientifici” perché “preludono alla cirrosi e al cancro”. Recentemente, nel corso del 33° Congresso della Società Italiana di Endocrinologia il professor Luigi Di Luigi dell’Unità di Endocrinologia del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Roma, nell’ambito del suo intervento sul tema del doping ormonale, ha affermato che «Non esistono dati definitivi relativi alla reale prevalenza di tumori correlati al doping ormonale (tumori del fegato, colon, prostata, tiroide, leucemie, ecc.), né è possibile prevedere quali e quante patologie potranno insorgere, anche dopo avere smesso e a distanza nel tempo, in quei soggetti che attualmente stiano assumendo enormi quantità di ormoni». Dunque molte indagini, molti sospetti, ma nessuna certezza. Recentemente l’ex campione di ciclismo francese Laurent Fignon, due volte vincitore del Tour de France (nel 1983 e nel 1984), presentando il suo libro “Eravamo giovani e incoscienti” ha dichiarato di essere affetto da un cancro dell’apparato digerente. Nella sua autobiografia il ciclista racconta di una vita vissuta intensamente, pagine chiare scolpite di successi e pagine scure di sconfitte, doping e droga. Interrogato sull’eventuale legame tra la malattia e l’assunzione di sostanze illecite, Fignon ha dichiarato che è impossibile dare una risposta: «Non dirò che non abbia influito. Non ne so nulla. È impossibile dire se sì o no. Secondo i medici, sembra di no. Alla mia epoca tutti facevano la stessa cosa, come oggi tutti fanno la stessa cosa. Se tutti i ciclisti che si sono dopati dovessero avere il cancro, ce l’avremmo tutti».

ATLETI SURVIVOR
Indipendentemente dai possibili legami con trattamenti estremi, gli sportivi, come tutti gli esseri umani, si ammalano di tumore, ma a differenza degli altri malati, spesso gli atleti sono famosi e la loro celebrità è strettamente connessa all’immagine di un corpo sano e potente, che contrasta in maniera drammatica con la malattia. Quando uno sportivo sopravvive a un cancro diventa immediatamente un modello per tutti, a dimostrare che non solo si può “scampare la morte”, ma si può tornare a vivere “come prima”: il ritorno di questi atleti sui campi di gara ne è un magnifico esempio. Sono tantissime le storie di atleti lungoviventi che hanno vinto la loro battaglia contro il cancro e sono riusciti a ritornare a gareggiare nel mondo professionistico. Come Nene Hilario, giocatore di pallacanestro brasiliano militante nei Nuggets di Denver, che è tornato in campo a tre mesi dall’intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore maligno ai testicoli. Ha destato grande emozione anche la storia di Eric Shanteau, nuotatore statunitense che, dopo aver saputo di avere un tumore ai testicoli, ha deciso comunque di partecipare ai giochi olimpici di Pechino, rimandando al suo rientro l’intervento chirurgico e le cure chemioterapiche. Anche se non può essere ancora definito un “cancer survivor” (per essere sopravvissuti è necessario che siano passati 5 anni dalla malattia) nel settembre del 2008 è stato definito guarito e da allora collabora attivamente con l’associazione di Lance Armstrong. Il ciclista svedese Niklas Axelsson ha avuto una carriera burrascosa: nel 2001 è trovato positivo all’Epo e sconta due anni e mezzo di squalifica. Poi riprende la carriera, ma nel 2006 gli viene diagnosticato un tumore al testicolo. Viene quindi sottoposto a cinque cicli di chemioterapia, durante i quali riprende gli allenamenti: nel periodo di cura percorre 3 mila km in bici, guarisce e nell’aprile 2007 torna a correre. Altro ciclista svedese è Magnus Bäckstedt, che all’inizio del 2007 subisce un doppio intervento al torace per l’esportazione di un tumore della pelle, ma dopo pochi mesi è già in sella. Il più famoso di tutti è sicuramente Lance Armstrong, il ciclista americano che ha vinto sette Tour de France di seguito (1999 – 2005), dopo esser stato operato di un tumore ai testicoli e che, all’età di 37 anni, correrà il prossimo Tour de France. «Ho deciso di tornare al ciclismo professionistico per aumentare la consapevolezza sul problema globale del cancro», ha dichiarato. Infatti, dopo una guarigione che da molti è stata definita quasi miracolosa, il ciclista nel 1997 fonda la “Lance Armstrong Foundation” con l’obiettivo di aiutare gli ex malati di tumore a recuperare la propria vita, dal punto di vista sociale e lavorativo.

LIVESTRONG (da Wikipedia)
Livestrong è un braccialetto da polso ideato dal ciclista Lance Armstrong nell’estate del 2004. Il braccialetto faceva parte di un programma educativo denominato Wear Yellow Live Strong, con l’intento di sostenere le vittime e i guariti del cancro e consapevolizzare sul problema. Il braccialetto è venduto in pacchi da 10, 100 o 1200 per aumentare di $5,000,000 i fondi della Lance Armstrong Foundation in collaborazione con Nike. Il colore giallo fu scelto per l’importanza che aveva nella vita del ciclista (gialla è la maglia portata dal leader del Tour de France). Il braccialetto è divenuto un fenomeno di massa alla fine dell’estate, dapprima apparendo ai polsi di molti partecipanti al Tour de France, poi a quelli di alcune personalità come: John Kerry, l’attore Matt Damon, e molti atleti alle Olimpiadi. Tale visibilità ha permesso che il braccialetto divenisse alla moda. I braccialetti gialli sono fatti di gomma, con inciso il motto LIVESTRONG.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 5/2009

Progetto sport e salute, a uso di “survivors”

IS081-086In Italia si definiscono lungoviventi, termine un po’ brutale nella sua concretezza, che sottolinea un mancato appuntamento con la morte. Le lingue anglosassoni insistono maggiormente sull’aspetto eroico e quasi leggendario della parola survivors, sopravvissuti, superstiti. In entrambi i casi ci si riferisce agli ex malati di tumore, che vincono la loro battaglia contro la malattia. In Italia, secondo l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) sono circa il 55% coloro che sopravvivono a 5 anni dalla diagnosi. E anche se l’incidenza di queste patologie è in aumento (anche per l’allungamento della vita media), i dati relativi agli ultimi decenni mostrano che l’incremento della mortalità va rallentando rispetto all’incidenza, grazie al miglioramento della diagnostica e dell’efficacia delle terapie a disposizione, oltre che alla diffusione di una cultura generale che pone maggiore attenzione alla salute. Eppure, l’atteggiamento culturale maggiormente diffuso fa sì che la parola “cancro” sia ancora strettamente connessa al concetto di morte e di inguaribilità, tanto che il solo parlarne è spesso un tabù. Così, il malato di tumore si trova a dover superare, oltre ai problemi fisici, anche degli ostacoli psicologici importanti: la sola diagnosi della malattia impone il confronto con l’idea della morte, che apre un processo di crisi dell’individuo malato e di frattura rispetto alla normalità, rispetto alla vita “di prima”. Per questo è nata la Psiconcologia, “una disciplina che si occupa, in maniera privilegiata e specifica, della vasta area delle variabili psicologiche connesse alla patologia neoplastica e in generale delle implicazioni psico-sociali dei tumori. Essa nasce e si impone in funzione delle complesse problematiche psicologiche ed emozionali, che interessano la maggior parte dei pazienti affetti da cancro, nel porre attenzione a queste problematiche…”. In questo panorama è nato il progetto “Sport e salute in oncologia”, curato dal professor Riccardo Torta, direttore della struttura di Psiconcologia dell’ospedale Molinette di Torino, a cui aderiscono il Dipartimento di Scienze Cliniche dell’ospedale Sacco di Milano (professor Massimo Pagani) e l’Istituto Universitario di Scienze Motorie – Università degli Studi di Roma (professor Fabio Pigozzi).

Professor Riccardo Torta, da dove nasce questo progetto?
I pazienti che hanno superato il percorso medico, non sempre riescono a raggiungere un recupero funzionale adeguato dal punto di vista emotivo, perché permane in loro il senso di malattia: è quindi necessario restituire un rapporto fiduciario con la salute, con un corpo che, in qualche modo, un po’ ti ha tradito. In tutti i paesi dove la mortalità in oncologia va drammaticamente riducendosi in senso positivo, sale l’attenzione per persone che sono “guarite”, dove le virgolette sono d’obbligo per sottolineare che questa è una malattia che può ritornare: da qui il senso d’insicurezza e l’esigenza di proteggere il corpo quanto più possibile attraverso stili di vita sani, dieta, attività fisica e abitudini corrette. I “sopravvissuti” devono impegnarsi anche su un recupero della propria immagine corporea, sentire che il loro corpo è ancora lì e che funziona.

Quali i vantaggi nella pratica dell’attività sportiva?
In ognuno di noi nascono di continuo cellule tumorali, che sono poi uccise dal sistema immunitario: un tumore si sviluppa perché ci possono essere dei geni di suscettibilità che, per qualche motivo emozionale, ambientale, occasionale, il sistema immunitario non riesce a contenere. E poiché è risaputo che l’attività fisica svolge un ruolo importante nel potenziare il sistema immunitario, è chiaro che, superata la fase acuta della malattia, praticare attività fisica è di grande giovamento, anche sul tono dell’umore: il malato depresso ha meno difese. Naturalmente questo non è l’unico parametro, altrimenti gli sportivi professionisti non si ammalerebbero mai di tumore… Ma per un paziente che è sopravvissuto e che ha già completato tutte le cure che la medicina gli può garantire, l’attività fisica può svolgere un ruolo essenziale sia dal punto di vista fisico (come rinforzo immunitario, appunto) che psicologico (per recuperare il rapporto con il proprio corpo). Questo è un concetto ampiamente diffuso e avvalorato dalla letteratura medica; ora, con il nostro progetto noi intendiamo impostare un percorso strutturato e qualificato, che possa essere utilizzato come linea guida per la riabilitazione del paziente oncologico.

A che punto è il progetto?
Il progetto è già stato presentato ed è pronto sia dal punto di vista clinico che scientifico, ma purtroppo mancano i fondi per farlo partire. Nelle nostre intenzioni il lavoro, che include il coinvolgimento di tre città pilota (Torino, Milano e Roma), è impostato su tre step:
1. valutazione psiconcologia per selezionare i soggetti valutazione 3(emozionalmente non tutti hanno voglia di cominciare a praticare attività sportiva);
2. valutazione della medicina dello sport per stabilire quale tipo di attività sia maggiormente indicata per questo o per quel paziente (chi ha avuto un cancro alla prostata, per esempio, è meglio che non pratichi il ciclismo);
3. “consegna” del soggetto a operatori di scienze motorie o a strutture in qualche modo validate, certificate dal punto di vista della qualità clinica e scientifica. Premessa la necessità di mantenere un controllo, soprattutto qualitativo e valutativo, l’intenzione è quella di demedicalizzare il più possibile il soggetto, portandolo fuori dai circuiti medici tradizionali.

Quando un paziente oncologico finisce di essere considerato tale? Quando smette di fare terapia attiva ed entra in una dinamica di controlli periodici: è a questo punto che si inserisce il nostro progetto. Sia chiaro, non che l’attività fisica non si possa praticare anche durante le cure, m a noi vorremmo chiudere il percorso di malattia ed entrare in un percorso di recupero, anche psicologicamente è importante.

Come è impostato il progetto?
Il protocollo scientifico prevede la valutazione di specifici parametri, sia biologici che psicologici. I parametri biologici sono sostanzialmente quelli immunitari: come aumentano i natural killer (cellule di difesa contro le cellule oncologiche) o come si riducono gli ormoni dello stress. I parametri psicologici riguardano la qualità di vita, il senso di autoefficienza, lo stile di coping. Coping è un termine inglese che non ha una specifica corrispondenza in italiano, ma indica come un soggetto si adatta a situazione stressanti, nel nostro caso come il paziente si confronta con la malattia: con atteggiamento di negazione, di fatalismo, di spirito combattivo…
Abbiamo poi previsto valutazioni specifiche legate all’ansia, alla depressione, alla “fatigue”, ovvero quel senso drammatico di stanchezza che sentono quasi tutti i malati oncologici, anche quando la malattia o le cure non sono di per sé giustificanti: è stato già sperimentato che, paradossalmente, la “fatigue” migliora con l’attività fisica, piuttosto che con il riposo forzato.
Prevediamo un tempo di realizzazione di 3 mesi + 3, con valutazioni a T0, T3 e T6 mesi, e un gruppo di controllo con cui lavoriamo solo con tecniche di rilassamento.

Attualmente, quando un paziente conclude il ciclo di cure, gli è solo suggerito di praticare attività fisica oppure potete comunque indirizzarlo a specifici centri di rieducazione e riabilitazione?
Il punto è estremamente dolente. Noi stiamo cercando di formulare un protocollo nazionale per indagare quale sia la reale offerta di riabilitazione oncologica, perché in effetti i centri sono pochi e spesso operano con interventi limitati: per noi la riabilitazione oncologica non si deve limitare al recupero del danno chirurgico, come può essere lo svuotamento del cavo ascellare dal linfedema post chirurgico; per noi è un concetto molto più allargato. Inoltre queste strutture si trovano per lo più all’interno degli istituti o dei reparti di oncologia e noi vorremmo superare questo impasse, che anche dal punto di vista psicologico è penalizzante: un conto è dare un appuntamento in ospedale per un massaggio, un conto è trovarsi al parco per una passeggiata…

I TUMORI IN ITALIA (dati relativi al 2007)
Ogni anno in Italia si registrano circa 240 mila nuovi casi di tumore e 140 mila sono i decessi. Ci sono dunque quasi un milione e mezzo di persone affette da questa malattia, fra pazienti guariti, nuovi casi e quelli in trattamento. Oggi in Italia la sopravvivenza relativa standardizzata a cinque anni dalla diagnosi è del 45,7% negli uomini e del 57,5% nelle donne, per tutti i tumori esclusi i carcinomi della cute. Ci sono però differenze dal punto di vista geografico: in genere, la sopravvivenza al Nord e al Centro è più alta di circa il 10% rispetto al Sud. La percentuale di sopravvivenza dipende in modo significativo dal tipo di tumore: i più mortali sono i mesoteliomi (8,2%), i tumori dell’esofago (11,5%), del fegato (10,5% per gli uomini e 11,6% per le donne), delle vie biliari (13,7%), del pancreas (5,1% per gli uomini e 7,8% per le donne), del polmone (11,9% per gli uomini e 15,3% per le donne) e dell’encefalo (18,9% per gli uomini e 20,4% per le donne). Le prospettive di sopravvivenza migliori, invece, sono per i tumori al labbro (89,5%), i melanomi della pelle (79% per gli uomini e 87% per le donne), i tumori della mammella (82,6%), del corpo dell’utero (75,9%), della prostata (78,5%), del testicolo (88,1%), della tiroide (79,1% per gli uomini e 88,1% per le donne) e i linfomi di Hodgkin (80%).

Fonte: ISS, Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute

PROFESSOR RICCARDO TORTA
Professore Associato di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Neuroscienze di Torino; direttore della Struttura Complessa di Psiconcologia del Dipartimento di Oncologia dell’Università e dell’A.S.O San Giovanni Battista di Torino. È autore di oltre 550 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali in ambito psicologico clinico, psichiatrico, neurologico, oncologico, neuropsicofarmacologico e di 18 libri su tali argomenti.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 5/2009  

15 minuti al giorno

Sulla rivista medico-scientifica The Lancet, è stato recentemente pubblicato uno studio osservazionale di grandi dimensioni di Chi Pang Wen e colleagues, che dimostra come anche una piccola quantità di tempo libero dedicata all’attività fisica riduce la mortalità totale, la mortalità per malattia cardiovascolare e per cancro. In realtà, ci sono molti altri studi che hanno già documentato come la pratica costante di moderata attività fisica sia in grado di ridurre la mortalità di molte patologie; tuttavia, le raccomandazioni della sanità pubblica in molti paesi sono di fare l’equivalente di almeno 30 minuti al giorno a piedi, quasi tutti i giorni della settimana, cioè 150 minuti per settimana. Wen e colleghi con questo nuovo studio dimostrano che anche la metà di questa quantità di attività fisica (15 minuti al giorno per 6 giorni alla settimana) è sufficiente a ridurre la mortalità per qualsiasi causa del 14%, la mortalità per cancro del 10%, e la mortalità per malattie cardiovascolari del 20%. Questo è il primo studio osservazionale di grandi dimensioni che documenta in modo preciso e inequivocabile l’importante relazione fra benefici globali per la salute e una ridotta dose di attività fisica.
La statistica dei benefici ricavati dall’attività fisica segue una curva dose-risposta (figura 1), che lancet2pmostra chiaramente come, anche se una piccola quantità di attività fisica è sufficiente per ottenere dei miglioramenti, più se ne fa e meglio è. La “quota” ideale dovrebbe essere di circa 300 minuti di moderata attività fisica a settimana, ma i dati della maggior parte dei paesi mostrano che tale quantità di attività fisica si ottiene solo da una piccola parte di popolazione. La ragione di questa realtà è multifattoriale e complessa, oltre che individuale, legata a fattori psicosociali, ambientali e culturali. Wen e colleghi suggeriscono che un intervento sicuramente efficace per contribuire all’effettivo aumento dell’attività fisica nella popolazione potrebbe essere messo in atto dai medici, che dovrebbero consigliare ripetutamente ai loro pazienti di introdurre nelle loro giornate l’abitudine al movimento. A causa della natura osservazionale dello studio, Wen e colleghi non possono stabilire il nesso causale fra attività fisica e malattia, ma i risultati ottenuti sono pienamente coerenti con le scoperte di altri studi prospettici randomizzati per la prevenzione secondaria cardiovascolare, che mostrano un chiaro, diretto e inconfutabile beneficio per la salute dalla pratica di esercizio fisico. L’esercizio fisico può ridurre il rischio di mortalità cardiovascolare e, in particolare, di mortalità coronarica, per molti meccanismi, tra cui il miglioramento del tono, e quindi della funzione endoteliale, che porta alla prevenzione e alla stabilizzazione dell’aterosclerosi coronarica, in modo da ridurre il rischio di sindromi coronariche acute. Il cancro condivide diversi fattori di rischio con la malattia coronarica, come la cattiva alimentazione, l’obesità, e l’inattività fisica. Pertanto, la riduzione di alcuni di questi fattori di rischio ottenuta con un regolare esercizio fisico potrebbe plausibilmente spiegare i benefici registrati da Wen e colleghi rispetto alla mortalità per cancro. Gli effetti oncoprotettivi dell’esercizio fisico sono certamente un argomento di ricerca in espansione e oggetto di futuri studi. Sapere che sono sufficienti 15 minuti al giorno di esercizio fisico per ridurre sostanzialmente il rischio di un individuo di morire potrebbe incoraggiare molti più individui a inserire una piccola quantità di attività motoria nelle proprie abitudini quotidiane. I governi e i professionisti della salute hanno un ruolo importante da svolgere per diffondere questa informazione e convincere le persone dell’importanza di essere almeno minimamente attiva.

Wen CP, Wai JPM, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; published online Aug 16. DOI:10.1016/S0140-6736(11)60749-6 
a cura di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 12/2011