Il corpo è diventato un campo di battaglia: non riusciamo più ad accettarne il naturale sviluppo, ognuno con il suo bagaglio genetico, ognuno secondo i propri limiti. Il corpo perde il suo valore nel presente e diventa un progetto su cui perseverare, inseguendo un’idea, una rappresentazione che nulla ha a che fare con la materia che abbiamo a disposizione. Il corpo è diventato il centro di tutto, occupa lo spazio dei pensieri anche perché, dicono i sociologi, rappresenta l’unico punto fermo in una realtà “liquida” che di punti fermi non ne ha più. Il corpo viene tatuato, schiarito, scurito, ridisegnato, gonfiato, sgonfiato, tagliato e ricucito, sottoposto a regimi alimentari che stenta a sopportare, a fatiche fisiche, cure dolorose. Il corpo ingurgita farmaci, per trovare un rimedio chimico a qualsiasi difficoltà, per inseguire un miracolo o solo per alleviare sofferenze da noi stessi provocate. E sarebbe ingenuo non considerare quanto incidano, su questi cambiamenti sociali, gli interessi di Big Pharma, le grandi case farmaceutiche che investono molto più denaro in marketing che in ricerca e sviluppo, i cui guru della comunicazione sono spesso orientati alla creazione di nuove malattie, o all’allargamento dei loro target con l’inclusione di fasce sempre più ampie di popolazione. La timidezza diventa fobia sociale, la tensione premestruale diventa una sindrome. La menopausa, anziché un normale processo fisiologico, è una malattia da deficienza ormonale. Osteoporosi, ipertensione, colesterolo alto: i fattori di rischio si sono trasformati essi stessi in malattie, ovviamente croniche, e per questo molto remunerative. Nelle linee guida, spesso scritte con le penne delle case farmaceutiche, il confine della normalità di alcuni parametri si sposta sempre più, in modo da aumentare il numero di malati e quindi il bacino d’utenza dei farmaci. Secondo le ultime classificazioni dei livelli di colesterolo, sarebbero circa 40 milioni gli americani che necessitano di cure, mentre il 90% degli anziani sarebbe colpito dall’ipertensione. Normalissime esperienze umane sono vendute come sintomi evidenti di qualche malattia: essere sovrappeso, perdere i capelli, essere timidi, tristi, insoddisfatti delle proprie prestazioni sessuali… le case farmaceutiche sono sempre a caccia di nuove malattie, e noi siamo ben disposti al gioco, pur di avere una facile soluzione per tutto ciò che non ci soddisfa. È la nuova tossicodipendenza, fatta di psicofarmaci, perché la medicalizzazione del disagio è socialmente accettata e la sostanza viene assunta non per fuggire (come nel caso degli stupefacenti), ma per “guarire” il disagio stesso. Quando la ricerca della salute giunge a livelli estremi e ossessivi, diventa essa stessa fonte di malattia.
Anche nello sport stiamo assistendo a un fenomeno di medicalizzazione pericoloso, non solo nella sostanza, ma anche nella forma, come approccio comportamentale, perché suggerisce l’assunzione di “altro” e coinvolge anche e sempre più lo sport non agonistico e gli atleti di giovane età. Si fa spesso ricorso ad aiuti esterni per un corpo che non ce la fa a rispondere ad aspettative elevate: dagli integratori ai farmaci fino ad arrivare al doping, la priorità non è la salute di quel corpo, quanto il risultato che quel corpo può raggiungere. Così il corpo è un terreno su cui esercitare il proprio controllo: un corpo che deve diventare indifferentemente più veloce, più muscoloso, più resistente, più magro, più bello. Impossibile non individuare un filo conduttore comune fra queste diverse espressioni di “eccesso”, che qualcuno definisce “patologie dell’immagine” in cui, dai disturbi alimentari per arrivare al doping, si delinea una dinamica psicologia analoga, ove la dipendenza da un oggetto esterno, sia esso cibo o sostanza chimica, porta con sé una valenza distruttiva, vissuta in modo compulsivo. Una dinamica psicologica che trae sostentamento e forza dagli stessi input sociali e dai medesimi modelli comunicativi. In tutto questo pensiamo che il fitness giochi un ruolo fondamentale. Per discostarsi da quel modello, e per non contribuire a questo gioco al massacro è importante, crediamo, una presa di posizione netta, che mira ancora una volta al riconoscimento del centro fitness come luogo dove si va per stare meglio, partendo dal corpo per arrivare alla testa. Il ruolo educativo è, a questo punto, inevitabile nei confronti di tutti coloro che vi approdano, attirati come mosche al miele. Anoressiche, bulimiche, ortoressici, body builder estremi, malati della forma a tutti i costi, atleti, che dal loro corpo pretendono ciò che naturalmente non riusciranno mai a ottenere, impantanati in un gioco perverso di cui spesso chiedono al professionista del fitness di tracciare le regole: consigli alimentari, supplementazioni, tabelle di allenamento, tutto può diventare strumento atto allo scopo. Da questo gioco è bene prendere le distanze, prima che qualcuno possa trasformare il fitness in una malattia e le palestre in luoghi di perdizione.
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Dal termalismo tradizionale a quello del benessere
L’Italia è fra le nazioni maggiormente ricche di acque termali, fonti distribuite su tutto il territorio, con una concentrazione maggiore in Emilia Romagna, Veneto, Campania e Toscana. Dati riferiti al 2005 parlano di 390 stabilimenti termali, di cui 308 attivi, dislocati in 159 località. Sui 308 stabilimenti attivi, 65 sono società di capitali; di queste, solo 19 hanno un fatturato che supera i 5 milioni di euro, mentre 22 aziende (circa il 34%) presentano un fatturato compreso fra 1 e 2 milioni di euro, per un giro d’affari totale del sistema termale pari a 317,9 milioni di euro che, includendo l’indotto, sale a 2.140 milioni di euro (dati relativi al 2002). Nel secondo Rapporto su sistema termale in Italia 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore), per la prima volta si utilizza il concetto di benessere termale, inteso “come prodotto che trae forte valore aggiunto dall’utilizzo di risorse, di strumenti ed esperienze termali: in altre parole si validano e si ca ratterizzano quei trattamenti benessere, che possono essere praticati solo nei centri termali, distinguendoli dagli altri che possono essere effettuati ovunque. Il benessere termale è inteso come superamento e integrazione della distinzione e contrapposizione, fino a oggi esistente, fra la concezione termale tradizionale e quella del benessere”.
UN CAMBIAMENTO FATICOSO
Attualmente quello del benessere termale è un mercato molto dinamico e in forte rilancio competitivo, che sta mettendo in discussione il concetto stesso di terme, tradizionalmente ancorato quasi esclusivamente alla cura della salute fisica, con un’offerta di tipo terapeutico, preventivo o riabilitativo. In effetti, le aziende termali tradizionali erano imprese che gravitavano nel regime protetto del Sistema Sanitario Nazionale, la cui proprietà demaniale e gestione pubblica spesso rappresentava un vincolo per il loro sviluppo. Nel momento in cui si è vista la possibilità di allargare l’offerta termale per accogliere la crescente richiesta di benessere, un ulteriore freno è stato dato dalla diffidenza di chi voleva difendere il valore terapeutico delle acque termali dalle contaminazioni del mercato emergente, visto come minaccia da evitare più che opportunità da cogliere. Atteggiamento, questo, abbastanza comprensibile, considerata l’ambiguità con cui veniva volontariamente condotta la comunicazione del mercato benessere. Una comunicazione che spesso danneggiava le aziende termali, proponendo un utilizzo improprio delle parole terme, termale, spa, ecc., abuso compiuto sia dai centri erogatori di servizi benessere (fitness, estetici, day spa, e altri) che dagli stessi mass media. La confusione generata portò a emettere una legge di riordino del settore termale (L n° 323 del 2000), nella quale è stabilito che:
- acque termali sono “le acque minerali naturali utilizzate a fini terapeutici”;
- cure termali sono “le cure, che utilizzano acque termali o loro derivati, aventi riconosciuta efficacia terapeutica per la tutela globale della salute nelle fasi della prevenzione, della terapia e della riabilitazione delle patologie erogate negli stabilimenti termali”.
Pertanto: “I termini terme, termale, acqua termale, fango termale, idrotermale, idrominerale, thermae, spa (salus per aquam) sono utilizzati esclusivamente con riferimento alle fattispecie aventi riconosciuta efficacia terapeutica”. Una serie di fattori ha contribuito a modificare l’atteggiamento di chiusura nei confronti del nuovo:
- il forte calo di cure termali tradizionali (oltre il 38% dal 1990 ad oggi), sempre meno prescritte dai medici di base e sempre meno finanziate dal SSN;
- il processo di privatizzazione della gestione delle aziende termali che, a partire dal 1997, sta lentamente coinvolgendo tutto il comparto;
- la domanda sempre più pressante di prodotti e servizi legati al concetto di benessere.
IL NUOVO PRODOTTO TERMALE
In alcuni casi la scelta di ampliare l’offerta è stata “tirata” dalle richieste del mercato, senza che ci fosse un chiaro disegno strategico, senza consapevolezza, con un atteggiamento ancora poco orientato al mercato. In altri casi, invece, si è cercato un vero nuovo posizionamento competitivo, che fosse frutto di idonee scelte gestionali. L’implementazione dell’offerta non è di così facile attuazione, sia dal punto di vista strutturale (razionalizzazione di spazi per collocare i nuovi servizi), che organizzativo e gestionale, in quanto richiede un forte cambiamento del sistema di offerta e di vendita del prodotto termale. Nello schema successivo sono riassunte le principali caratteristiche delle differenti tipologie di clienti termali. Rispetto alle imprese che si stanno riposizionando in funzione del benessere, si possono identificare due differenti tipologie:
- realtà orientate al benessere in senso stretto che, accanto ai trattamenti medici tradizionali, offrono pacchetti diffe renziati di trattamenti estetici, fitness e terapie alternative;
- realtà che interpretano il benessere in senso più ampio, come svago, relax, l’”otium” dei latini, e che pertanto sono molto legate alla ricettività turistica e alla capacità di intrattenimento.
TERME E FITNESS
Esistono senza dubbio dei fenomeni di convergenza intersettoriale che coinvolge i clienti dei centri fitness, estetici e termali, volti alla ricerca di un’offerta di servizi sempre più integrata. L’ampliamento dell’offerta da parte degli operatori termali non può comunque prescindere dalla necessità di proporre un prodotto personalizzato, che dipende dalla peculiarità delle singole strutture, dalla qualità delle acque, dalla tipologia di clientela, dall’integrazione con i servizi esistenti e dalle caratteristiche del territorio, evitando il fenomeno dell’omologazione dell’offerta, che così tanto e male caratterizza il mercato del fitness. Anche l’offerta di servizi fitness non può essere proposta indiscriminatamente da tutte le aziende termali presenti sul territorio e deve essere adeguata alle aspettative della clientela, chiaramente diverse rispetto a quelle del cliente abituale del centro fitness. Innanzitutto, il tempo a disposizione per le attività è limitato alla permanenza del soggiorno, quindi il cliente termale non si aspetta miglioramenti visibili, non è alla ricerca di una maggiore tonificazione muscolare o performance, quanto piuttosto di una migliore forma psicofisica generale, associata a una cosciente percezione del proprio corpo. La pratica del fitness in questi luoghi è quasi sempre “light”, e può essere considerata come l’occasione buona per insegnare ad associare il movimento con sensazioni positive e per favorire la socialità. Altro discorso riguarda le attività di fitness inserite nei programmi di dimagrimento, in cui la programmazione rigorosa di attività cardio è strutturata all’interno di percorsi alimentari e trattamenti estetici che devono rispondere alle chiare aspettative del cliente. Forse più che in altri luoghi, gli istruttori devono essere dotati di grande capacità comunicativa, flessibilità ed empatia, oltre che, naturalmente, avere tutte le capacità tecniche necessarie per affrontare una clientela molto differenziata. Molte aziende termali offrono attività open air, favorite dalla location delle strutture immerse in ambienti naturalmente privilegiati o in luoghi interessanti dal punto di vista artistico, storico e culturale. Le proposte variano da lezioni di yoga, stretching e attività a corpo libero, a semplici passeggiate, trekking, escursioni in mountain bike fino ad attività sportive vere e proprie come tennis e golf. In molte strutture, (Terme di Saturnia, Terme Felsinee) la presenza di piscine termali, sia interne che esterne, favorisce la proposta di attività acquatiche, i cui benefici sono da assommare alle numerose azioni biologiche esercitate dalle diverse acque minerali termali: – vasodilatazione cutanea e conseguente riduzione della pressione arteriosa;
- effetto miorilassante e antinfiammatorio;
- effetto fluidificante sulle secrezioni;
- naturale azione di peeling, con proprietà esfolianti, detergenti ed antisettiche.
I corsi di acquagym svolti in acqua termale sono studiati in funzione di specifici obiettivi di salute e benessere: dal lavoro cardio-vascolare e di tonificazione muscolare generale, al miglioramento della mobilità osteo-articolare e delle capacità di coordinazione, alla ginnastica antalgica, per la cura di dolori posturali, reumatismi, artrosi e decalcificazioni ossee, fino al fitness vascolare per chi ha problemi circolatori. In alcuni casi esiste un vero e proprio fitness club all’interno delle strutture, che può essere frequentato indipendentemente dai servizi termali, oppure può essere incluso in alcuni “pacchetti benessere”. È il caso delle Terme di Bormio, Terme di Merano, Istituto Talassoterapico di Grado, Terme Pompeo. In altre strutture, invece, il centro fitness, in genere di dimensioni più modeste, è a uso esclusivo dei clienti termali, spesso accompagnati dalla presenza di un personal trainer. Alcuni esempi sono le Terme di Saturnia, Adler Thermae di Bagno Vignoni, Regina Beauty Fitness and Thermal Resort di Aqui Terme. Nelle sale corsi le attività “body&mind” sono quelle maggiormente proposte, accessibili a tutti e per loro stessa natura perfettamente integrate e in linea con le altre offerte del centro termale: ginnastica dolce, Pilates, Yoga, Pancafit, attività che abbinano benefici fisici e psichici, accompagnate dal tipico ritmo “slow” dell’ambiente termale, e che possono essere facilmente offerte con un approccio attento e personalizzato.
Evoluzione del settore termale, Mirella Migliaccio, Franco Angeli 2005 Secondo Rapporto su sistema termale in Italia nel 2004, realizzato da Federterme-Confindustria con la collaborazione di Mercury srl (società che ha curato la realizzazione del volume) e de Il Sole24 ore (editore) Di Mia Dell’Agnello Pubblicato su Professione Fitness 4/2007
Disturbi del comportamento alimentare: generalità
Chi soffre di disturbi alimentari molto spesso, nel proprio percorso patologico, approda in un centro fitness: persone in soprappeso, obesi, ma anche anoressiche, bulimici, ortoressici… Tutti con un solo scopo: dimagrire, bruciare calorie. Tutti con un’ossessione, più o meno grave, più o meno consapevole: il proprio corpo, inadeguato, malato, sbagliato, non accettato, spesso soggetto a una visione totalmente distorta.
Tendenzialmente, si individuano tre tipi di disturbo alimentare: Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Anche se a volte si manifestano già a partire dall’infanzia, sicuramente il loro picco riguarda l’età adolescenziale e la prima parte dell’età adulta. Il problema fondamentale è che sono caratterizzate da un esordio in sordina, e per questo insidioso, che spesso ritarda drammaticamente la diagnosi e l’intervento terapeutico. Il più delle volte si ha a che fare con malati invisibili, perché è labile il confine con condizioni di “normalità”: prima di arrivare alla malattia conclamata, infatti, il soggetto vive lunghi periodi di “incubazione” in cui si strutturano tutti i comportamenti che caratterizzeranno poi la malattia. In genere, sono patologie di lunga durata, con un alto tasso di cronicizzazione, caratterizzate da elevati indici di mortalità (dal 5 al 18%, in base alla durata), dovuta a complicazioni (soprattutto a livello del sistema cardiocircolatorio) e non raramente a suicidio. I disturbi del comportamento alimentare rappresentano, per chi ne è affetto, la soluzione, la risposta a un dolore. Si possono individuare alcuni sintomi caratteristici generali:
- irragionevole paura della propria immagine corporea e del giudizio delle altre persone, perché lì tutto è riposto;
- ansia eccessiva riferita al proprio peso, che si manifesta con un utilizzo ossessivo della bilancia, piuttosto che, al contrario, un rifiuto caparbio alla sua misurazione;
- continuo controllo del proprio corpo allo specchio;
- confronto esasperato del proprio aspetto fisico con quello degli altri;
- comportamento nevrotico nei confronti del cibo, caratterizzato da alternanze di digiuni/abbuffate, esagerato utilizzo di prodotti dimagranti e ipocalorici, fino ad arrivare al consumo di diuretici e lassativi; il cibo è il condensato simbolico di tutta la vita affettiva ed emotiva;
- esercizio fisico smodato, anche se non presente in tutti i quadri di DCA.
Non è necessario che tutti questi comportamenti siano manifesti, così come non è detto che rappresentino un DCA in esordio: anzi, molti di questi caratterizzano il periodo puberale e generalmente si risolvono senza conseguenze. La distorsione dell’immagine corporea è centrale nello sviluppo dei DCA, stimolata dai modelli estetici proposti dalla società: il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni si sente soprappeso, mentre il 50% non è soddisfatta del proprio corpo. Inoltre, vale la pena di sottolineare come non tutti i comportamenti considerati “anomali” debbano avere una spiegazione ed essere inquadrati come sintomi preliminari di chissà quale patologia psicotica. Tuttavia, è tendenzialmente vero che i comportamenti sopra descritti sono un segnale di difficoltà, di fronte al quale, senza alcun allarmismo, è bene “drizzare le antenne”.
ANORESSIA E BULIMIA
L’anoressia nervosa è caratterizzata da una profonda paura di aumentare di peso, accompagnata da una visione distorta di sé e da un continuo e progressivo timore di perdere il controllo del proprio corpo. Reprimere lo stimolo della fame innesca un gioco perverso di conferma del proprio potere: più lo stimolo è presente, più si ha soddisfazione nel dominarlo; spesso, questo esercizio di disciplina e capacità di controllo, porta la persona anoressica a sentirsi superiore rispetto agli altri e la spinge a un progressivo allontanamento dagli ambiti sociali. Il disturbo ossessivo-compulsivo, determinato dai continui pensieri sul cibo e sul corpo, spinge la persona anoressica a cercare una propria stabilità instaurando riti e abitudini che caratterizzano giornate e attività. Dal punto di vista clinico, un indice di massa corporea inferiore a 17,5 è sicuramente un segnale molto sospetto, soprattutto se accompagnato da amenorrea (assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi).
La bulimia nervosa è caratterizzata da frequenti abbuffate e dalla totale perdita di controllo sul cibo: le persone bulimiche mangiano per mezz’ora di seguito ingurgitando di tutto, senza scegliere gli alimenti, senza neanche sentirne i sapori. Le abbuffate sono seguite poi da profondi sensi di colpa, e da una grande vergogna per avere perso il controllo. Da qui seguono due comportamenti differenti: nel primo, caratterizzato da condotte di eliminazione, la persona bulimica si induce il vomito per eliminare quello che ha mangiato; nel secondo, senza condotte di eliminazione, l’abbuffata è compensata con periodi di digiuno, attività fisica estrema, utilizzo di diuretici e lassativi. La diagnosi è particolarmente difficile anche perché questi soggetti mantengono un peso normale e spesso riescono a tenere segreti i loro comportamenti. A volte la bulimia è associata a forme di autolesionismo più o meno gravi.
Sia anoressia che bulimia sono disturbi tipicamente femminili (rapporto di 1 a 20) anche se i disturbi alimentari nei maschi rappresentano una realtà epidemiologica in aumento. Mentre nelle donne il tempo medio di latenza è di 4 anni, in genere un maschio entra in terapia dopo 7 anni di malattia, il cui esordio si segnala generalmente intorno all’adolescenza, quando il giovane comincia a strutturare la propria identità adulta. Invece di anoressia, si parla spesso di anoressia inversa, o vigoressia, o dismorfia muscolare, poiché nei maschi la principale causa di dimagrimento è determinata da un eccesso di esercizio fisico; per questo, generalmente, non si arriva mai a perdite di peso gravemente invalidanti. I sintomi maggiormente riconoscibili sono l’assenza di massa grassa e la ricerca, urgente e continuamente insoddisfatta, di incrementare la propria massa muscolare tramite esercizio fisico compulsivo e rigorose diete alimentari fino ad arrivare, talvolta, all’uso di steroidi anabolizzanti.
TRIADE DELL’ATLETA
A volte si ricorre all’attività fisica perché già si soffre di un DCA, alle volte è il praticare un’attività sportiva che può favorire l’insorgenza di un DCA, soprattutto praticando quegli sport in cui il rapporto peso-forma è fondamentale per una prestazione ottimale (ginnastica artistica e ritmica, pattinaggio, danza…). In particolare, in un’atleta di sesso femminile, si parla di “triade dell’atleta” quando compaiono contemporaneamente tre sintomi:
- ridotta disponibilità di energia, che causa un peggioramento della performance;
- irregolarità mestruale;
- fragilità ossea.
Nel tentativo di ridurre al minimo la propria massa grassa, queste atlete diminuiscono eccessivamente l’apporto di cibo, aumentando contemporaneamente le sedute di allenamento e utilizzano lassativi e diuretici in maniera indiscriminata. Il controllo del peso diventa così un’ossessione che, oltre a incidere negativamente sulla performance, predispone l’atleta a fratture, strappi muscolari e a gravi complicanze cardiache e renali.
DISTURBI DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
I sintomi che caratterizzano gli affetti da disturbi da alimentazione incontrollata, in inglese Binge (orgia) Eating Disorder, possono essere paragonati a quelli delle persone bulimiche, con la differenza che i “Binge” non cercano di compensare le calorie introdotte in eccesso. Studi recenti sostengono che a questa categoria appartengano circa il 20% delle persone obese: si abbuffano regolarmente in modo compulsivo e incontrollato, generalmente da soli. Spesso le “crisi” sono precedute da un’emozione o un avvenimento scatenante e sono seguite da disgusto e senso di colpa, una sorta di autopunizione per un disagio interiore che non trova soluzione adeguata, e che si preferisce nascondere con decine di chili di soprappeso. La paura è la condizione cronica che innesca il circolo vizioso: paura di non essere all’altezza, di non essere accettati e rifiutati. Perché si possa inquadrare come un DCA, i soggetti devono avere un indice di massa corporea di almeno il 30% superiore alla normalità, e le crisi di alimentazione incontrollata devono presentarsi con una frequenza di almeno 2 volte alla settimana per 6 mesi.
ORTORESSIA
Consideriamo, infine, un DCA di recente definizione, l’ortoressia, caratterizzato dall’ossessione per un’alimentazione e uno stile di vita salutare, che porta alla selezione esasperata dei cibi e al totale rifiuto di interi gruppi di alimenti, al praticare fitness estremo con un’attenzione psicotica verso il proprio corpo.
Coltivare talenti. Strumenti di fidelizzazione del personale nei centri fitness
Nel settore fitness, la fidelizzazione del cliente è un tema che conosciamo quasi a memoria. Eletto dai vari “markettari” come l’argomento degli argomenti, su di esso si sfidano a colpi di strategie di successo, campagne mirate, tecniche vincenti… I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con una media di fidelizzazione del cliente dichiarata che oscilla fra il 60 e il 65% (quella reale pare, dico pare, che sia decisamente inferiore…). Che sia poco o tanto in termini assoluti non ci è dato di sapere, ma sicuramente è insufficiente per le esigenze del mercato. Dunque, vista la perseveranza con cui ci si ostina ad affrontare l’argomento, perché non proviamo, se non altro, a cambiare il punto di vista, l’oggetto delle nostre attenzioni? Perché non cominciamo a parlare di fidelizzazione dei collaboratori? Il turnover del personale non è negativo di per sé: esistono ruoli e mansioni che, per loro stessa natura, non prevedono un consolidamento all’interno dell’azienda. Ma il problema si pone quando il continuo ricambio di personale diventa un costo eccessivo, un investimento di tempo e denaro che non riesce più a essere ammortizzato. Inoltre, anche nel settore fitness e sport, per una volta, proviamo a usare il termine “Risorse Umane”: buffo, no? Risorse, si usa dire, ovvero “qualsiasi mezzo che ponga in condizioni di affrontare e superare una difficoltà di ordine materiale o spirituale”. Dunque non un centro di costo, ma una risorsa? Strano, questo punto di vista. Bene, per assurdo, continuando su questo percorso, perché non provare anche a considerare che fra queste Risorse ci possono essere dei Talenti, ovvero persone particolarmente dotate di cui non solo riconosciamo l’utilità per l’azienda nel presente, ma di cui intravediamo anche un possibile vantaggio nel futuro? Collaboratori su cui investire per avere poi al proprio fianco persone preparate, di fiducia e responsabili. Una chimera, in un mercato del lavoro precario come questo? Eppure, qualcosa si può fare, oltre al solito quanto svilente mercanteggiare intorno a una tariffa oraria. Esistono strumenti di fidelizzazione un po’ più “evoluti” ed efficaci, e non per questo “costosi” per l’azienda. Ne abbiamo parlato con Lara Carrese, Responsabile delle Risorse Umane DeAgostini (divisione prodotti collezionabili).
Gestione delle risorse umane: da dove partire?
Presupposto fondamentale per tutti i discorsi che ruotano attorno al management del personale è che l’azienda debba porsi un obiettivo specifico, (ad esempio, diventare entro un triennio leader di zona del settore fitness), per il cui raggiungimento è necessario mettere in atto determinate strategie da cui dipende e cui corrisponde una data struttura organizzativa, caratterizzata da specifiche qualifiche, competenze ed esperienze. Una volta definita la strategia di business, è possibile individuare l’assetto organizzativo migliore e i parametri per la gestione delle risorse umane. Normalmente, la retribuzione si basa sul concetto di Total Rewad, ovvero un modello di retribuzione cui contribuiscono: retribuzione base, retribuzione variabile (MBO) e una serie di fattori meno misurabili, ma assolutamente impattanti (social benefits e intangibles).
Come stabilire la retribuzione base?
La retribuzione base deve essere chiara e definita: a un certo tipo di professionalità deve corrispondere un certo tipo di retribuzione. È necessario che le regole del gioco siano inequivocabili e coerenti, per evitare di creare iniquità di trattamento. Una pratica molto utilizzata dalle aziende è quella di individuare diversi scaglioni di categorie professionali, seguendo determinati parametri di riferimento, come gli anni di esperienza, le competenze acquisite, il titolo di studio, esperienze chiave, certificazioni, conoscenze… All’interno di ogni scaglione si stabiliscono quindi delle forbici di retribuzione minime e massime cui attenersi.
In cosa consiste la quota variabile?
La quota variabile della retribuzione è generalmente rappresentata dai “premi aziendali”. Naturalmente, è più facile e immediato stabilire un sistema di premi per chi è a diretto contatto con il mercato, i venditori, i cui risultati sono più facilmente valutabili. Ciò non esclude la possibilità di applicare questo sistema incentivante anche a posizioni di staff meno di linea, ma ugualmente valutabili. A questo punto, però, diventa fondamentale stabilire con esattezza i termini di valutazione. Nel caso della receptionist, ad esempio, dimostrare una “costumer orientation” alta, attraverso la qualità e la tempistica delle risposte, è sicuramente uno dei parametri validi su cui effettuare una valutazione. Il sistema funziona ma, per poter essere applicato con successo, presuppone un fattore fondamentale: un responsabile che sappia porre gli obiettivi in modo chiaro, preciso, inequivocabile e motivante. In caso contrario, risulterà essere solo un passaggio burocratico privo di significati, piuttosto che un boomerang. I premi per obiettivi devono assolutamente essere condivisi; sia che si tratti di obiettivi quantitativi che qualitativi, devono poter essere misurabili. Soprattutto nel caso di obiettivi qualitativi, il rapporto fra valutatore e valutato è un aspetto chiave, che deve essere caratterizzato da una comunicazione costante e trasparente. Solo in questo modo, sia la fase di attribuzione di un valore agli obiettivi fissati che la valutazione finale, potranno essere svolte da entrambi con serena consapevolezza e onestà intellettuale. Il sistema premiante è valido per due fondamentali ragioni: dal punto di vista puramente gestionale/economico, permette all’azienda di toccare solo in modo marginale la quota fissa della retribuzione, consentendo, dal punto di vista manageriale, un controllo dei costi. Allo stesso tempo, permette di motivare le persone rendendole, in un certo senso, corresponsabili della propria performance. Il sistema premiante MBO (Management By Objective), che si aggiunge alla retribuzione base, rappresenta un cambiamento epocale dello stile manageriale, perché si passa dal concetto puro di “obbedienza” alla condivisione di responsabilità, limitatamente, sia chiaro, al raggiungimento dei propri obiettivi, stabiliti di concerto con il datore di lavoro. Sempre parlando di incentivi monetari, si possono stabilire dei “piani di fidelizzazione” rivolti a determinate professionalità, individuate come particolarmente chiave per l’azienda. Ad esempio, molto banalmente, si può stabilire che, dopo tre anni di servizio, al proprio collaboratore sarà riconosciuto un premio pari a una percentuale della sua retribuzione annua, una cifra fissa che lo invogli a restare in azienda, mettendo a disposizione i propri servizi.
Cosa sono i benefits e gli intangibles?
La leva economica è molto utilizzata dalle aziende, ma da sola può risultare inefficace. Spesso è necessario anche utilizzare delle chiavi più “soft”, che agiscono sulla motivazione a rimanere: i benefit e gli intangibles. I benefits sono degli incentivi non monetari rappresentati da strumenti o da servizi che l’azienda mette a disposizione dei propri collaboratori. Strumenti possono essere il cellulare, il PC portatile, l’auto aziendale o, nel nostro caso, attrezzature per svolgere al meglio le sessioni di personal trainig. Servizi sono da considerare tutti quei benefit che facilitano la vita del proprio collaboratore, mettendolo in condizione di lavorare meglio e di migliorare la propria performance. Si basano sul concetto di “Work-life balance”, ovvero riuscire a conciliare con il giusto equilibrio la vita privata e quella lavorativa. Qualche esempio: convenzioni con servizi di lavanderia, possibilità di utilizzare un “factotum aziendale” cui affidare piccole mansioni (pagare le bollette, effettuare consegne), consulenza fiscale. Altro benefit molto considerato è la possibilità di accedere a pacchetti assicurativi agevolati (assicurazione infortuni, mediche, pensionistiche) sia per il collaboratore che per il suo nucleo familiare. Nel caso dei centri fitness, ad esempio, può essere considerato un benefit la possibilità di offrire un certo numero di abbonamenti open al proprio collaboratore per i suoi familiari. Intangibles sono tutti quei fattori intangibili che agiscono come motivazionali e fidelizzanti sui collaboratori: corsi di formazione, piani di sviluppo e crescita, modalità che contribuiscono a creare il senso di appartenenza all’azienda. Fra queste sottolineo sicuramente l’importanza della pratica di “self assesment”, ovvero di autovalutazione. Può essere proposta a tutti i collaboratori con un alto grado di performance, indipendentemente dal loro inquadramento e ruolo. Base di partenza è una sessione di autovalutazione, che ha lo scopo di identificare le aree in cui quella persona ha bisogno di migliorare, di costruire più competenze, che siano manageriali o tecniche. Sulla base del self assesment e nell’ambito delle proprie esigenze strutturali, l’azienda offre la possibilità di intraprendere un percorso di crescita e apprendimento, che si sviluppa tramite corsi di formazione e aggiornamento, delineando piani di sviluppo e carriera per quella persona all’interno dell’azienda stessa. Si crea così una specie di “patto di fiducia” fra il collaboratore e l’azienda, molto fidelizzante e poco oneroso, perché non impatta direttamente sulla retribuzione, ma è considerato un valore aggiunto molto importante. Altro strumento sicuramente fidelizzante è offrire ampliamenti di responsabilità e di “esposizione”, dichiarando qualcuno totalmente responsabile, “proprietario” è il termine che si usa in gergo manageriale, di una determinata area di attività o competenza. Tipico esempio all’interno del centro fitness è l’istruttore in sala pesi che, dopo un certo tempo e a fronte di buone prestazioni, diventa responsabile di tutto il settore tecnico. È una leva motivazionale molto forte, che rende quella persona consapevole del proprio posto nell’azienda; questo avanzamento di carriera, naturalmente, deve andare di pari passo con un’adeguata crescita retributiva.
Qual è il suo pensiero su meeting, convention riunioni incentivanti?
Innanzitutto, io credo che l’aspetto fondamentale sia rappresentato dalla comunicazione interna, che deve essere il più possibile trasparente e condivisa. Condividere informazioni e dati non ha solo il vantaggio di aumentare il livello di efficienza di tutti i comparti, ma ha anche un riflesso molto positivo sul clima interno di tutta la società. Una comunicazione interna ben gestita rafforza il senso di appartenenza all’azienda e questo è importante anche per aziende di piccole dimensioni. Comunicare obiettivi e progetti strategici, richiedere pareri e sollecitare colloqui: tutto ciò contribuisce a creare un senso di consapevolezza e anche, se vogliamo, di orgoglio aziendale. In questo ambito sono assolutamente positivi anche degli incontri periodici, come meeting e convention, che possono anche diventare momenti di condivisione sociale e culturale. Molte aziende propongono meeting sociali obbligatori, organizzati un paio di volte all’anno, in genere in occasione del Natale e prima dell’estate, il cui scopo fondamentale è quello di favorire la socializzazione. Questo tipo di intervento può avere senso solo se supportato da un messaggio aziendale generale e costante di condivisione di visioni e di comunicazione aperta. I momenti di socializzazione in contesti fertili sono positivi, rappresentano un tassello di supporto a una cultura organizzativa basata sulla condivisione e sulla partecipazione. Se non esistono questi presupposti, è meglio lasciar perdere: la Regola d’oro nella gestione del personale, al di là di tutte le teorie, resta ancora quella del buon senso.
LARA CARRESE
10 anni di esperienza, maturata sia in Italia che all’estero, nell’ambito della gestione del personale presso realtà aziendali multinazionali (Deloitte Consulting, Tenaris). Attualmente HR Manager presso la divisione prodotti collezionabili di DeAgostini, con responsabilità su tutti i Paesi nei quali la divisione è presente.
Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Professione Fitness 3/2007
Fitness e salute: il cerchio si stringe. Ma chi ci guadagna?
Il medico intercetta e riconosce il soggetto dismetabolico, ma ancora raramente prescrive di svolgere un’attività motoria e ancor più raramente fornisce indicazioni precise riguardo alla modalità di svolgimento. Se poi valutiamo le possibilità di interazione e cooperazione del settore della medicina con quello del fitness, ci accorgiamo che la distanza è ancora enorme, da una parte dovuta ad atteggiamenti pregiudiziali e dall’altra sostenuta da atteggiamenti etici e professionali quantomeno ambigui. Nonostante ciò, qualche tentativo comincia a emergere sul territorio: ma la direzione è quella giusta?
È ormai conclamato che, introducendo nel “sistema uomo” delle quantità di attività motoria e sottraendo eccesso alimentare, l’incidenza di patologie dell’apparato cardiovascolare (ictus, accidenti cardiovascolari, infarti), dell’apparato locomotore (degenerazioni artrosiche) e delle fondamentali funzioni metaboliche (diabete, dislipidemie) si riduce in maniera evidente e significativa. L’efficacia di questa operazione in molti casi è addirittura superiore a quella che si ottiene introducendo nel “sistema uomo” i soli farmaci. Eppure sono ancora poche e poco significative le iniziative messe in atto per aiutare le persone a modificare il proprio stile di vita. O meglio, ancora si fa fatica a trovare una giusta dinamica d’intervento, che evidentemente non può essere di esclusivo appannaggio del settore medico: cambiare uno stile di vita è un atto medico o un atto sociale? In altre parole, se l’interesse della collettività è quello di diminuire la spesa sanitaria, il contesto in cui avviene il cambiamento dello stile di vita è un contesto a basso impatto di medicalizzazione. Il mondo medico può e deve dare le linee guida per la trasformazione dei soggetti da “sedentari” a soggetti “motori”, ma il sistema funziona se la proposta di cambiamento è sufficientemente leggera e demedicalizzata, oltre che sicura per il singolo. Il medico intercetta e riconosce il soggetto dismetabolico, ma ancora raramente prescrive di svolgere un’attività motoria e ancor più raramente fornisce indicazioni precise riguardo alla modalità di svolgimento. Se poi valutiamo le possibilità di interazione e cooperazione del settore della medicina con quello del fitness, ci accorgiamo che la distanza è ancora enorme, da una parte dovuta ad atteggiamenti pregiudiziali e dall’altra sostenuta da atteggiamenti etici e professionali quantomeno ambigui. Nonostante ciò, qualche tentativo comincia a emergere sul territorio, sollecitato anche da programmi ministeriali nazionali (“Guadagnare salute” del 2007) e iniziative della comunità europea. A noi critiche e scetticismo.
IL CENTRO FITNESS È SOLO UN CONTENITORE
L’azienda Sanitaria Locale di Chioggia ha recentemente presentato il progetto “Metti in moto la salute”, realizzato in collaborazione con i medici di famiglia e con sei palestre del territorio. Strutturato dal Dipartimento di prevenzione in accordo con i medici di medicina generale, il progetto prevede che l’attività fisica sia prescritta, proprio come un medicinale, a quelle persone che, pur non assumendo ancora terapie farmacologiche, sono considerate potenzialmente a rischio, per sovrappeso, pressione arteriosa elevata, glicemia alterata. A queste persone i medici prescriveranno attività motoria aerobica indicando la frequenza cardiaca massima; il medico riporterà alcuni dati (pressione arteriosa, indice di massa corporea, glicemia), in una scheda che loro presenteranno al loro ingresso in una delle sei palestre convenzionate. In questo caso si punta sull’effetto psicologico “doveristico-prescrittivo”, presumendo che le persone rispettino la “posologia” di un’attività somministrata come se fosse un farmaco. Il ruolo riservato alla palestra sembra essere solo di logistica: l’intervento degli istruttori fitness pare limitato al controllo e alla registrazione dei dati.
QUALI VANTAGGI CON LA SALUTE?
Decisamente più complesso è il progetto Lifestyle Gym dell’Azienda Sanitaria Locale di Rimini, per il trattamento del diabete mellito di tipo II e delle malattie dismetaboliche, coordinato dal dottor Paolo Mazzuca. Il progetto fa parte del Piano della prevenzione 2010-2012 della regione Emilia Romagna “La prescrizione dell’attività fisica: primi indirizzi per l’attuazione del progetto Palestra sicura. Prevenzione e benessere”. Ma andiamo con ordine. Nel progetto Lifestyle Gym il medico (di famiglia o specialistico) deve individuare pazienti affetti da diabete mellito tipo II e/o obesità e/o ipertensione arteriosa e inviarli al servizio di diabetologia, dove sarà attivato un progetto personalizzato che contempla un programma di educazione alimentare (tramite il colloquio motivazionale individuale e di gruppo) e di attività motoria. Per l’intera durata del progetto (sei mesi) i pazienti, in gruppi di 10, svolgeranno l’attività fisica e il programma di educazione alimentare seguiti da un medico, una dietista e un laureato in scienze motorie o diplomato Isef. In seguito, il paziente sarà invitato a proseguire autonomamente l’attività fisica prescritta e il programma di educazione alimentare. Rispetto al caso della Asl di Chioggia, qui è richiesta una partecipazione attiva della palestra e dei suoi istruttori, ma non senza condizioni. Innanzitutto le palestre che vogliono aderire al progetto devono essere iscritte all’elenco “Palestre Sicure – Prevenzione Benessere”. Il progetto “Palestra Sicura”, coordinato dal Servizio Salute Mentale, Dipendenze Patologiche e Salute nelle carceri, è nato inizialmente (nel 2009) dall’esigenza di prevenire e contrastare l’utilizzo e la diffusione di sostanze dopanti. Successivamente, aggiungendo la dicitura “Prevenzione Benessere”, si è voluto creare “…un circuito di palestre che promuovano il benessere, inteso come garanzia di sicurezza sotto il profilo professionale (presenza di personale qualificato), promozione di una corretta alimentazione e di limitazione dell’uso di integratori alimentari”. Come si fa a far parte di questo elenco di virtuosi che possono lavorare in partnership con le Asl, avendo ottenuto il “riconoscimento” dal Servizio Sanitario Regionale? Prima di tutto è necessario sottoscrivere il Codice Etico da cui emerge: “…l’intendimento di effettuare la somministrazione dell’esercizio fisico per il benessere del cliente e, laddove necessario, sotto il controllo medico; l’impegno a non pubblicizzare al proprio interno prodotti farmaceutici che possano avere effetti dopanti; l’impegno a partecipare a iniziative di formazione dell’A.USL o degli Enti Locali; l’impegno a veicolare campagne, dell’A.USL o della Regione o degli Enti Locali, di promozione della salute e stili di vita salutari; accettano di sottoporsi a controlli senza preavviso dell’A.USL o degli Enti Locali”. Le palestre che aderiscono al “Codice Etico” acquisiscono il riconoscimento di “Palestra Etica”, ma non basta: “…per lo svolgimento dell’attività fisica prescritta dal Servizio Sanitario Regionale è necessaria la presenza di personale specializzato e appositamente formato. A tal fine, a partire dall’autunno 2011, verrà attivato, in collaborazione con la Facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Bologna, un primo corso di formazione speciale per laureati in Scienze motorie e diplomati ISEF con l’obiettivo di aggiornare personale qualificato che somministri un’attività fisica personalizzata e tutorata come un vero e proprio farmaco, sia nella popolazione generale che in soggetti con patologia e/o fattori di rischio, indirizzata sia alla prevenzione primaria che a quella secondaria. Esso intende pertanto preparare personale qualificato che possa operare in rete con il Servizio Sanitario Regionale”. Il corso, organizzato dalla Fondazione Carlo Rizzoli, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna e della Facoltà di Scienze Motorie dell’Università degli Studi di Bologna, è articolato su due livelli. Un Corso Base, per i laureati in Scienze Motorie e i diplomati ISEF, è dedicato alla gestione dei soggetti a basso rischio cardiovascolare, dismetabolici, con disordini minori dell’apparato locomotore, all’anziano e ai disabili. Con il titolo conseguito (“Referente per la salute nella prevenzione e nel benessere”) si ha accesso al Corso Avanzato, dedicato alla gestione dei pazienti trapiantati di fegato, cuore e rene, dei soggetti a rischio cardiovascolare alto e/o medio-alto, ai diabetici insulino-dipendenti e ai grandi obesi. Il corso base è strutturato in cinque moduli didattici di 12 ore ciascuno + 3 argomenti trasversali di 4 ore ciascuno: un totale di 72 ore per un costo di 2.000 euro. Al primo corso hanno partecipato 36 studenti, che moltiplicati per 2.000 euro fanno un totale di 72.000 euro: mica male! Siamo sicuri che sia la strada giusta?
Artrite reumatoide: primo rapporto sociale
L’Associazione Nazionale Malati Reumatici (ANMAR), la Società Italiana di Reumatologia (SIR) e la fondazione Censis, hanno recentemente presentato il Primo rapporto sociale sull’artrite reumatoide, un’indagine nazionale (svolta su un campione di 646 pazienti), con lo scopo di analizzare la condizione delle persone affette da questa malattia, il carico assistenziale e l’impatto economico e sociale, in modo da valutare, attraverso le indicazioni dei diretti interessati, le possibili aree di miglioramento. Dal punto di vista anagrafico, i dati emersi confermano che le donne sono maggiormente colpite dalla malattia, rappresentando il 72,6% del campione; per quanto riguarda l’età, i pazienti intervistati tendono a concentrarsi nella fascia compresa tra i 45 e i 64 anni (38,5%), mentre il 9,4% ha meno di 45 anni, il 30,7% ha tra i 65 e i 74 anni, e gli over75 sono il 21,4% del campione.
IL PESO DELLA MALATTIA
La natura progressiva e invalidante dell’Artrite Reumatoide impatta in maniera significativa sulla qualità della vita di coloro che ne sono affetti e configura una serie di modificazioni che spesso finiscono per pesare anche sulla percezione di sé e delle proprie possibilità di realizzazione. Infatti, solo l’8,5% del campione definisce completamente soddisfacente il proprio modo di vivere al momento dell’intervista; la maggioranza dei pazienti intervistati considera il proprio modo di vivere abbastanza soddisfacente (il 55,3%), mentre non troppo soddisfacente è il 36,2%: più di un paziente su tre. Dal punto di vista lavorativo, il 22,7% del campione segnala una modificazione seria della propria attività lavorativa a causa della patologia, con conseguenze di differenti entità. È consistente il numero dei lavoratori che ha segnalato episodi di ripetuta assenza dal lavoro a causa di problemi legati alla malattia: se si prendono in considerazione le fasce d’età attive, il dato risulta pari al 35,0% degli under 44, mentre è pari al 43,6% dei 44- 65enni. Tra i principali esiti a lungo termine della patologia vi è la totale inabilità al lavoro, soprattutto per le persone impiegate nelle mansioni fisicamente più impegnative e che rappresentano, spesso, le fasce di cittadini più deboli. Anche l’impatto della malattia sulla sfera psicologica emerge in modo assolutamente evidente: l’83,7% dei pazienti è preoccupato dall’evoluzione della malattia e dal rischio di invalidità, e il 68,7% si sente normale fino a quando non sopraggiunge una fase acuta. Più della metà dei pazienti, il 50,8% (in particolare donne) vive periodi di depressione; poco meno di un paziente su tre (il 28,2%) sente di essere un peso per gli altri, soprattutto i pazienti più anziani (il 44,7% dei pazienti con più di 75 anni), mentre il 25% circa prova vergogna per i segni che la malattia lascia sul proprio corpo. Bisogna ricordare che l’AR incide profondamente anche nella vita di tutti i giorni, costringendo i malati a sperimentare, nella loro quotidianità, una quantità significante di limitazioni: un’azione semplice, ma per molti aspetti indispensabile, come girare una chiave nella serratura o aprire un vasetto risultano estremamente difficoltose per più della metà dei pazienti intervistati (il 59,0%).
IL COSTO DELLA MALATTIA
Per determinare il costo sociale dell’AR, nello studio si è deciso di non tener conto dei costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma di concentrare l’attenzione su due tipologie di costi:
- i costi diretti sostenuti dal paziente per la cura dell’artrite reumatoide (farmaci, ricoveri, visite, trasporti) e per l’assistenza a pagamento di cui ha beneficiato;
- i costi indiretti, relativi cioè al tempo sottratto a un’attività lavorativa sia per coloro che sono affetti da AR che per i familiari che lo assistono gratuitamente. La valorizzazione di questa assistenza informale è avvenuta attraverso la stima dei costi che sarebbe stato necessario sostenere nel caso di impiego di personale retribuito. Nel complesso, il Costo Medio Annuo per Paziente (CMAP), comprensivo sia dei costi diretti che indiretti (a esclusione dei costi sostenuti dal SSN), è risultato pari a poco più di 11.000 euro. Alla quantificazione di questo costo medio annuo concorrono in particolare i costi indiretti, che pesano per poco meno del 90%. I costi diretti medi annui (12,4% del totale) risultano essere invece pari a quasi 1.400 euro, a cui contribuiscono per circa 630 euro gli esborsi per l’assistenza privata e per 576 euro le spese sostenute per l’acquisto di farmaci.
OLTRE AI FARMACI
È ormai opinione comune che un programma di attività fisica mirato rappresenti una componente importante della strategia terapeutica. Ma perché questo abbia successo, è necessario informare con chiarezza il paziente rispetto a tipologia, intensità e frequenza degli esercizi da eseguire. Essendo inoltre una patologia dolorosa, caratterizzata da fasi acute particolarmente invalidanti, è necessario incoraggiare il paziente e sostenerne la motivazione per evitare che l’attività fisica possa essere associata agli stimoli dolorosi e acquisire, di conseguenza, una valenza negativa. Proponiamo di seguito alcuni suggerimenti, studiati in base alla classificazione standard della malattia.
Classe 1: completa abilità e capacità di eseguire tutti i lavori abituali. Classe 2: abilità adeguata per attività normale, nonostante handicap parziale, fatica, difficoltà e ridotta mobilità a una o più articolazioni. Classe 3: abilità limitata o annullata per le normali occupazioni o rispetto all’autosufficienza.
Classe 4: invalidità ampia o totale. Il paziente è costretto a letto o su sedia a rotelle; scarsa autosufficienza.
Fitness per soggetti affetti da AR classe 1 e classe 2. Ogni seduta può durare in totale dai 45 ai 90 minuti. Una parte è dedicata all’allenamento cardiovascolare, lavorando a una FC<75- 80% di quella massimale teorica (valutata tramite test). Si possono utilizzare i normali attrezzi da cardiofitness, escludendo il vogatore e privilegiando bike o walking su nastro trasportatore. Esercizi isotonici possono essere svolti al 40-50% del carico massimale, 10/15 ripetizioni per esercizio, meglio con modalità di circuit training; i protocolli personalizzati devono escludere movimenti con le articolazioni colpite. Completano il programma esercizi di stretching, mobilità articolare e ginnastica respiratoria.
Programmazione:
- anamnesi generale e sportiva;
- valutazione globale ed esame obiettivo motorio;
- valutazione funzionale;
- scelta e verifica dei parametri dell’allenamento;
- verifica tramite valutazione funzionale ogni 4/6 settimane;
- raccolta dati;
- riassetto e programmazione del training.