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Dieta, fitness e altre prigioni


“In un momento storico di grandi incertezze, in cui l’individuo sente di avere poco controllo sulla  propria esistenza e sente un senso di inefficacia sulle possibilità di cambiare il proprio destino, si avverte la necessità di riportare il controllo sui propri confini corporei. Il progetto corpo è uno dei pochi territori in cui il singolo individuo sente che le proprie azioni hanno ancora una qualche efficacia: dieta, palestra, attività fisica, sono pratiche attraverso cui il corpo può essere oggettivamente modificato. Questo restituisce, in qualche modo, un equilibrio o una falsa idea di controllo. Io credo che l’anoressia (non la patologia primaria declinata dai manuali medici, ma la ‘nuova’ anoressia) sia una metafora del nostro modo di relazionarci al mondo, una sorta di ‘grammatica’ diventata di uso comune, come se la malattia fosse entrata nel nostro modo di pensare, nel discorso, e le persone se ne fossero appropriate per dire altre cose, per difendersi. Da questo punto di vista, tutti i comportamenti di controllo sul proprio corpo possono essere considerati figli di questa declinazione”.

Luisa Stagi

Fitness e body building sono attività fisiche che, a differenza di tutti gli sport, non ambiscono a un risultato prestativo “esterno”, in cui il corpo è il mezzo per ottenere un risultato, ma sono attività in cui il risultato è la stessa costruzione o modifica del corpo. Non è ancora così frequente che una persona si iscriva in un centro fitness “solo” per sentirsi meglio, a meno che non si tratti di un “over 60”. Quasi sempre, il cliente vuole vedersi meglio e cerca di raggiungere un obiettivo specifico: perdere peso, rassodare, definire, aumentare la massa, dando anche specifiche indicazioni dei distretti anatomici che vorrebbe vedere modificati (glutei, addominali, pettorali, gambe ecc.). Quasi tutti già hanno in testa un modello ben preciso a cui puntare, un obiettivo che spesso, nella sua idealizzazione, si preannuncia già come difficilmente raggiungibile; la costruzione di un corpo irreale, che corrisponde a un modello mediatico impossibile da imitare e sempre più estremo nella sua definizione. In questo progetto di costruzione del corpo i centri fitness rappresentano, loro malgrado e più o meno consapevolmente, un luogo di coltura fertile, ideale per la maturazione di modelli comportamentali deviati. Molto spesso, chi si iscrive in un centro fitness coltiva aspettative molto elevate e ambisce a risultati che non sempre corrispondono all’impegno che intende dedicare alla loro realizzazione. Dunque, all’istruttore si pone da subito una questione: lavorare sull’impegno o sull’ambizione del risultato? Sull’accettazione di sé o sull’esasperazione della prestazione? La cura verso il proprio corpo non è di per sé ossessiva, così come il centro fitness non rappresenta necessariamente il tempio di tale ossessione: proprio per questo le palestre non possono più prescindere da un ruolo educativo, seppur rigorosamente definito nei suoi confini. Ne abbiamo parlato con Luisa Stagi, sociologa, esperta in disturbi del comportamento alimentare e autrice del libro “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni”, a cui abbiamo rubato il titolo per questo articolo.

Nel suo libro si legge che l’anoressia è cambiata e sta cambiando da un decennio a questa parte: è maggiormente indotta dal modello sociale, si è diluita nella sua profondità e si è allargata nella sua espansione. Ci spiega meglio questo concetto?
I primi anni in cui si cominciava a diffondere e a studiare, l’anoressia era, in particolari condizioni psicopatologiche, il tentativo di controllare/rifiutare le trasformazioni dell’età puberale. Attraverso il controllo della condotta alimentare si negava la propria femminilità. La nuova anoressia, invece, è maggiormente indotta dal modello sociale, in cui la ricerca non è tanto dell’identità quanto dell’omologazione. L’anoressia maschile o vigoressia è un fenomeno in grande espansione che si inquadra bene con questo nuovo modello, così come anche l’ortoressia. L’anoressia maschile può sviluppare due modelli di comportamento differenti: l’annullamento del corpo, oppure lo sviluppo esagerato della massa muscolare (anoressia inversa). L’incertezza trasmessa da una società che non lancia più segnali precisi di identificazione, una società in cui alcuni attributi maschili non sono più riconosciuti importanti o, per lo meno, in cui gli uomini sentono di non avere messaggi chiari rispetto a ciò che ci si aspetta da loro, determina una grande fragilità e la necessità, in qualche modo, di esercitare un controllo: lavorando sul proprio corpo, annullando, togliendo pezzi, oppure aggiungendo e rinforzando. Il corpo diventa un territorio in cui riusciamo a lavorare e a vedere degli effetti, in cui, finalmente, riusciamo a verificare la validità e l’efficacia delle nostre azioni.

“Controllo” mi pare una parola chiave: un comportamento, una necessità, una pratica che, se sfugge di mano, può diventare ossessione. Nelle palestre molto spesso si praticano e si inducono comportamenti di controllo sul corpo: controllo del peso, della taglia, del battito cardiaco, dei risultati dell’allenamento, controllo della modalità di frequenza della palestra, controllo delle calorie ingerite e di quelle spese…
La dimensione del controllo è diffusa in tutto ciò che ci circonda, perché è un po’ quello che ci manca: le pratiche che aiutano ad avere controllo, aiutano a sentirsi meglio. Se, tuttavia, queste pratiche aiutano a stare meglio, senza entrare nel patologico, io credo che possano andare bene. Avere qualcuno che ci dice cosa è bene e cosa è male alle volte aiuta a mantenere un sottile, ma fondamentale, equilibrio: l’importante è averne consapevolezza. Il controllo diventa ossessione quando è presente una fragilità personale, in chi ha determinate caratteristiche cognitive e in persone che sono più fragili socialmente, perché l’insoddisfazione li rende più vulnerabili. La pressione sociale verso la magrezza, la bellezza, verso l’espiazione, è talmente forte che non è facile liberarsene: starci dentro con consapevolezza mi sembra già un passo importante.

Non crede che anche questo modo di comunicare il problema dell’obesità in termini di pandemia e trasferendo esclusivamente sulla sfera individuale le responsabilità, puntando sul senso di colpa, possa essere un’anticipazione di queste tendenze, una degenerazione anche del modello adottato da molti in cui l’attività fisica viene prescritta in modo rigido e doveristico?
L’individuo sente la necessità di dimostrare di aver capito come è giusto stare all’interno della società e lo deve dimostrare con pratiche che lo manifestino con evidenza. La nostra è una società in cui la malattia viene fatta passare innanzitutto come un peso per il “welfare state”: il concetto di fondo di questo nuovo salutismo è che tutti dobbiamo guadagnarci quel poco rimasto del “welfare state” comportandoci bene, sotto ogni aspetto. L’obeso sfugge al controllo sociale, in una socializzazione che non passa più per istituzioni forti e ferme, ma passa attraverso i corpi. Noi interiorizziamo come è giusto comportarsi e attraverso il corpo dobbiamo dimostrare agli altri che lo abbiamo capito: chi non lo fa, sta dicendo che non accetta queste regole, sfugge al controllo sociale e quindi dà fastidio, come danno fastidio tutti i devianti. In realtà, né l’anoressico né l’obeso sono i modelli giusti e conformi per la nostra società. Chi davvero risponde in toto alle richieste della nostra società è il bulimico, che da un lato consuma e dall’altro rimane magro. Per questo, la bulimia è la forma di disturbo del comportamento alimentare più diffusa e anche la meno riconoscibile.

Sempre nel suo libro si legge “L’attenzione ossessiva per l’immagine corporea, il culto della magrezza, non sono la causa dei disturbi alimentari; piuttosto la loro funzione sembra quella di fornire una strada, un contenitore in cui un malessere più profondo riesce a incanalarsi e a esprimersi”. Quale ruolo può avere, in questo contesto, il centro fitness?
Io credo che istruttori, personal trainer, preparatori atletici siano figure veramente importanti per il ruolo educativo che potrebbero assumere, anche perché spesso rappresentano dei modelli di riferimento, ma dovrebbero avere maggiore coscienza del proprio ruolo. Per la stesura del mio lavoro ho parlato con molti gestori, proprietari e responsabili di centri fitness e ho rilevato grande sensibilità a questi argomenti: si tratta, ora, di cominciare a mettere dei “semini di consapevolezza” in chi ha, di fatto, grandi responsabilità.

LUISA STAGIstagi027
Insegna Sociologia e Metodologia e tecniche della ricerca sociale presso l’Università degli Studi di Genova. Nella stessa città collabora con il Centro per la cura dei disturbi alimentari e con il centro interdisciplinare per la ricerca in sessuologia. Per FrancoAngeli ha pubblicato “La società bulimica” (2002) e “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni” (2008). “Il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore”.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 5/2012

Amarcord

Immagine 1p Appartengo a quella numerosa popolazione di ex sportivi che ha ceduto al lavoro e alla famiglia il tempo per praticare un po’ di attività fisica, ma ha serbato la coscienza di quanto ci si senta bene in seguito a una sgambata o una nuotata. Dopo aver tergiversato per anni cercando di incanalare i miei sensi di colpa in sedute di pseudo jogging, molto spesso ostacolate dal meteo, dalle cattive condizioni ambientali (Milano!) e dalla generale fatica del vivere, decido di iscrivermi in palestra. Beh, a dire il vero non è stato così immediato: diciamo che un’offerta promozionale e la complicità di un’amica hanno fatto la differenza. La palestra si trova proprio vicino a casa, è molto grande e sulla carta offre tutti i servizi che uno potrebbe desiderare da un moderno centro fitness, pardon wellness (o forse nothingness?): enorme sala pesi, diverse sale corsi con una programmazione fittissima, sauna, bagno turco, vasca idromassaggio, piscina… Il costo dell’abbonamento per 12 mesi è di 499 euro e può anche essere utilizzato da 2 persone, 6 mesi ciascuna. Se a questa cifra aggiungiamo 60 euro di tassa d’iscrizione siamo a 310 euro per un abbonamento semestrale open, dalle 7 di mattina alle 23, sabato e domenica inclusi: wow! Lo start up non è così immediato e infatti passano un paio di settimane dall’acquisto (fatto on line) a quando io e la mia amica ci presentiamo in palestra, con il nostro coupon e il certificato medico. Sono le 11,30 di mattina e c’è già un bel viavai. Noi ci siamo portate tutto l’occorrente per iniziare la nostra nuova attività: scarpe, tuta, asciugamani. Siamo determinate, ma non abbiamo tenuto conto delle procedure burocratiche. Passiamo prima alla reception, consegniamo coupon e documenti, recitiamo i nostri dati anagrafici al diligentissimo boy che, dopo aver sbrigato le sue pratiche, ci fa accomodare sui “divanetti”. Da lì, un altro boy ci invita al tour della palestra e quindi ci prega di seguirlo nel suo ufficio, dove ci attende un’altra compilazione di fogli, con il contratto e il regolamento da firmare. Nel frattempo ci spiega che, se vogliamo, possiamo pagare altri 90 euro, di cui 60 per fare la visita medica e 30 per avere 3 sedute con il personal trainer. Ma noi il certificato medico l’abbiamo già e quindi si volatilizza anche l’offerta del personal trainer. A questo punto mi sorge un dubbio, ma so che è solo uno scrupolo, una domanda oziosa, comunque la faccio lo stesso:
«c’è qualcuno in sala pesi che ci prepara una scheda per cominciare?» 
Il boy numero 2 mi guarda come se gli avessi chiesto se in sala c’è qualcuno che può tagliarmi i peli del naso e mi dice:
«ma certo che no! Voi potete seguire i corsi di gruppo, lì c’è l’istruttore; in sala pesi potete andare, ma la scheda di allenamento la deve preparare un personal trainer!» 
Io insisto, veramente sbigottita:
«ma come… da quando funziona così?» 
«Ma da sempre!»  risponde lui.
Allora mi impunto, perché io in un certo senso sono del mestiere:
«eh no, scusa, ma prima non era così!». E lui:
«allora diciamo che adesso abbiamo deciso che non è più così!»
Appunto. Sconsolante, ma non mi faccio fregare ora che, dopo anni di rimuginio, sono qui, con il mio bel abbonamento attivato! Anzi, sento di dover rincuorare anche la mia amica, così le dico: «non ti preoccupare, te la preparo io una scheda di allenamento!» in fondo dovrò solo rispolverare le mie conoscenze… Ma continuo a pensare a una sala pesi senza istruttori… non mi par vero…
«Scusa, ma se qualcuno fa degli esercizi sbagliati e magari si fa male?» 
«Vabbè, per quello c’è un assistente di sala, che controlla».
Ah ecco, ora è l’assistente di sala, un po’ come quello di volo, che magari ti indica anche le uscite di sicurezza. Nel frattempo il ragazzo finisce di preparare gli incartamenti e io a questo punto fremo di trepidazione, ma lui sorride e dice
«Prego, accomodatevi sui divanetti: una collega sarà presto da voi!».
Maledetti divanetti. Attendiamo ancora 5 minuti, finché la collega ci invita nel suo ufficio. Sta per chiederci di nuovo i dati, ma un moto d’imbarazzo la trattiene e ci confida che ora possiamo dire solo i nostri cognomi. Tutta fiera, verifica il resto dell’anagrafica al computer e ci stampa i tesserini. Ora è il momento dell’offerta strepitosa: solo per qualche giorno un nostro familiare o amico potrà usufruire della nostra stessa agevolazione, ma con uno sconto addizionale di 100 euro, ovvero: 399 euro + 60 di iscrizione per un abbonamento annuale open! Me lo faccio ripetere perché non ci credo, così lei lo scrive sul foglio che ha davanti e che poi mi consegna. Sono basita: ma le cose vanno così male, allora? Eppure non si direbbe: tre persone per completare un’iscrizione già effettuata on line… Mah. Nel frattempo si è fatto tardi, è passata più di un’ora da quando abbiamo varcato la soglia del centro fitness, ovvero il tempo a nostra disposizione per l’allenamento. La mia amica prende la sua borsina fitness, mi saluta e se ne va. Io non mollo: volevo ricominciare oggi e oggi ricomincio, anche se ho poco tempo. Gli spogliatoi sono enormi, con file e file di armadietti a disposizione: peccato che le docce siano fredde! Le signore si lamentano, ma dicono che la caldaia si sia guastata… Pazienza, mi farò la doccia a casa. Mi cambio e vado. Una sala pesi gigante, piena di macchine di ogni tipo. Istruttori: neanche l’ombra. Decido di fare una lezione di gruppo, giusto per partire soft: ce ne sono tre in programma, basta scegliere! Gli istruttori sono in postazione, ognuno nella sua sala corsi, peccato che non ci sia neanche un allievo! E così mi defilo anch’io: una lezione di aerobica o di spinning da sola… te la vedi la tristezza? Bene, non importa! Si è liberato un tapis roulant, quindi mi ci fiondo. Poi ho in mente un programmino interval training leggero, così, poche stazioni, lavoro sui grandi gruppi muscolari, esercizi poliarticolari… E intanto osservo. Una signora in piedi davanti alla lat machine si è appesa alla sbarra e, con le gambe e le braccia belle tese, flette il busto in avanti e ritorna su, soffiando e sbuffando come una locomotiva: ma povera schiena! Un anziano, ma anziano per davvero, ha deciso di farsi tutto il circuito Selection, proprio stamattina, e ora si accanisce sulla shoulder press. Ha selezionato un peso chiaramente esagerato per lui, ma non ne vuole sapere di arrendersi: rosso come un pomodoro, le vene gonfie, il viso contratto in una smorfia di massimo sforzo. Mi sembra di sentire la sua dentiera scricchiolare nella morsa serrata della mandibola. Si aggrappa alle maniglie e spinge con tutto quello che ha a disposizione: inarca la schiena, si solleva dal sedile puntando i piedi. Il pacco pesi viene abbandonato a metà corsa e cade con un rumore orrendo che fa sobbalzare tutti i presenti, ma lui indefesso ricomincia e via! un altro SBAAANG rieccheggia, terribile premonitore di sciagure. Invece niente: il nonnetto è sopravvissuto, anche questa volta. In compenso, l’istruttore non è comparso, neanche al richiamo di un rumore così, diciamo, sospetto. Io ho finito il mio allenamento e me ne vado, scivolando via in quel deserto di corpi, senza neanche sentire il bisogno di salutare qualcuno.

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Anche quando io lavoravo in un centro fitness c’era il nonnetto. Lo chiamavamo Capitan Trombetta, perché ogni volta che si cimentava con gli esercizi addominali scorreggiava rumorosamente. Lui ci rideva e anzi, questa sua ironia aveva portato una nuova confidenza in palestra, che aveva contagiato tutti quanti. Non c’erano hostess, né consulenti di vendita, ma solo la ragazza che stava alla reception: con lei il nuovo cliente faceva “il giro” della palestra e poi compilava il foglio di iscrizione, mentre lei preparava la tessera. Un quarto d’ora al massimo e fine delle pratiche. Gli istruttori in sala pesi c’erano sempre, e il loro numero era in base al numero di frequentatori: al mattino uno, due nella pausa pranzo e nelle ore serali erano quattro, di cui uno era un fisioterapista. Non c’erano personal trainer, né wellness trainer, né assistenti di sala. C’erano le schede prestampate, è vero, ma spesso erano solo un punto di partenza su cui costruire dei moduli personalizzati. Gli istruttori parlavano con le persone, non necessariamente di allenamento, anzi: parlava proprio di tutto. Intessevano relazioni. Peccato che poi qualcuno ha cominciato a chiamarli “centri di costo”. Mi ero ripromessa di non fare l’”amarcord”, la nostalgica, quella che “si stava meglio prima”, che per di più non è proprio nella mia natura. È che proprio non ce la faccio. Perché, fra l’altro, la palestra che ora frequento è la stessa in cui lavoravo, circa vent’anni or sono: mannaggia alla vecchiaia!

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 11/2011