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Scoliosi: trattamento riabilitativo in età evolutiva. Un estratto dalle Linee Guida nazionali

La Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione (SIMFER), sulla base delle indicazioni del Ministero della Sanità, ha dato incarico a una Commissione di suoi Soci (vedi BOX) la stesura di Linee Guida sul “Trattamento riabilitativo del paziente in età evolutiva affetto da deformità del rachide”. Le Linee Guida si rivolgono a tutti gli operatori impegnati nel campo della riabilitazione e del trattamento conservativo delle deformità del rachide e sono applicabili a tutti i pazienti di interesse riabilitativo e conservativo affetti dalle patologie di cui sono oggetto. La metodologia seguita si è basata sul recupero e analisi di tutta la bibliografia e letteratura internazionale esistenti. È stata quindi stabilita una scala della forza delle evidenze scientifiche, codificata sulla base delle classiche indicazioni usate per la stesura di Linee Guida (vedi tabella). Schermata 2013-11-25 alle 13.52.57Dato che l’argomento oggetto delle Linee Guida è caratterizzato da una sovrabbondanza di lavori descrittivi e da prassi principalmente basate sul consenso, più che su evidenze scientifiche, si è ritenuto utile ampliare l’ultima voce (E), suddividendola in tre gradazioni diverse di Consenso Scientifico.

DEFINIZIONE
La scoliosi idiopatica è una complessa deformità strutturale della colonna vertebrale che si torce sui tre piani dello spazio:
- sul piano frontale, si manifesta con un movimento di flessione laterale;
- sul piano sagittale, con un’alterazione delle curve, il più spesso provocandone un’inversione;
- sul piano assiale, con un movimento di rotazione.
Per definizione, la scoliosi idiopatica non riconosce una causa nota, e probabilmente nemmeno una causa unica. Da un punto di vista eziopatogenetico, quindi, la deformazione vertebrale provocata dalla scoliosi idiopatica può essere definita come il segno di una sindrome complessa a eziologia multifattoriale. Questa sindrome si manifesta quasi sempre con la sola deformità, ma non si identifica con essa, in quanto con una indagine più approfondita è possibile trovare altri segni sub-clinici che appaiono significativi.
La definizione classica della Scoliosis Research Society, definisce la scoliosi come una curva di più di 10° Cobb sul piano frontale senza considerare il piano laterale, le cui modificazioni incidono significativamente sull’evoluzione della scoliosi e la trattabilità ortesica. In base a questo dato, molti dei lavori pubblicati sull’efficacia del trattamento conservativo della scoliosi (fisioterapia, corsetti gessati, busti) utilizzano come unico parametro la modificazione dei gradi Cobb. Questo aspetto è destinato nel futuro a essere rivisto, in particolare considerando l’importanza della rotazione vertebrale, valutabile sia radiograficamente che clinicamente. Le scoliosi idiopatiche possono essere classificate secondo la localizzazione iniziale della deformità: toraciche, toracolombari, lombari, a doppia curva, e secondo l’età di insorgenza: infantili, giovanili e adolescenziali. Le menomazioni del paziente scoliotico sono classificabili come danni neuromotori, biomeccanici, cardio-respiratori ed estetici. Per quanto riguarda le problematiche relative alle limitazioni delle attività, queste riguardano in gran parte la scoliosi adulta. Il dolore, per esempio, o una significativa riduzione della capacità di sforzo o delle attività della vita quotidiana o professionale non fanno parte delle caratteristiche del giovane paziente scoliotico. Viceversa, ci sono due elementi tipici dell’età evolutiva che pure si riflettono pesantemente anche sull’età adulta: le limitazioni delle attività (disabilità) dovute a motivi psicologici e altre definibili come iatrogene, laddove il ragazzo affetto da scoliosi non viene rispettato in quanto persona colta in un duplice momento delicato, quello della crescita e sviluppo puberale e quello dell’incontro/scontro con il proprio corpo affetto da una forma di patologia che ne mina una struttura portante, che non per niente si chiama “colonna”. Tutti questi elementi devono ovviamente essere valutati in base all’entità della curvatura scoliotica, laddove al di sotto dei 20° Cobb quasi mai ci sono manifestazioni di limitazioni delle attività, che divengono però sempre più importanti con l’aggravarsi della patologia.

IL TRATTAMENTO
Il trattamento della scoliosi ripercorre tutte le fasi tipiche della prevenzione. Quando la patologia è lieve, il trattamento, definito “libero” è una prevenzione dell’evolutività della scoliosi (esercizi con controlli medici periodici) e riguarda la cosiddetta scoliosi minore (di norma al di sotto dei 20° Cobb). La prevenzione dell’evolutività diviene poi terapia per evitare che possa evolvere in scoliosi maggiore. La forma di prevenzione dell’evolutività principalmente applicata sono gli esercizi specifici e la cinesiterapia: si tratta di un lavoro finalizzato al miglioramento di capacità neuromotorie, adattato e controllato sulla base della patologia e delle caratteristiche individuali del singolo paziente. Il complesso degli esercizi è teso a migliorare le capacità specifiche dell’individuo (equilibrio, coordinazione e controllo oculo-manuale) rispettando gli equilibri biomeccanici (l’azione è sui tre piani dello spazio). Un secondo aspetto è quello della prevenzione secondaria, vale a dire del trattamento per evitare i danni conseguenti alla presenza della patologia conclamata. I confini possono essere fatti coincidere con un livello di patologia che richiede di intervenire con una ortesi. Lo scopo primario in questa fase è quello di evitare l’aggravamento della scoliosi, quindi di curare la malattia, ma anche, purtroppo a volte dimenticato, di trattare le menomazioni, di evitare le limitazioni dell’attività (disabilità) e della partecipazione (handicap). Quindi, se l’elemento principe è l’ortesi, il trattamento delle menomazioni e della disabilità sono tipiche dell’intervento riabilitativo, sia cinesiterapico e con esercizi specifici, che psicologico, ma anche educativo. Ovvia l’articolamente questo intervento è interdisciplinare è vede la compartecipazione delle diverse figure del team: fisiatra, ortopedico, fisioterapista, tecnico ortopedico, laureato in scienze motorie, paziente, famiglia. Infine, va considerata la prevenzione terziaria, spesso fatta direttamente coincidere “tout court” con la riabilitazione. Questo momento è tipico del recupero post-intervento e/o del superamento dei danni iatrogeni in età dell’accrescimento. La curvatura scoliotica non strutturata, o paramorfismo, o atteggiamento scoliotico, non è una condizione patologica e non rientra nell’oggetto di queste Linee Guida.

CINESITERAPIA ED ESERCIZI SPECIFICI
Attualmente non c’è evidenza sufficiente per raccomandare o sconsigliare l’utilizzo della cinesiterapia e di esercizi specifici. Peraltro, introducendo accanto ai concetti di efficacia ed efficienza, quello di accettabilità delle terapie, le famiglie hanno dimostrato di preferire l’effettuazione di esercizi specifici a scopo preventivo all’attesa di una eventuale evoluzione da trattare in seguito con corsetto. Inoltre, l’esame della letteratura a disposizione permette di ipotizzare un’efficacia di esercizi specifici nel rallentare l’evolutività delle curve patologiche in pazienti affetti da scoliosi idiopatica con curve minori. Non esistono pubblicazioni scientifiche rigorose sull’efficacia terapeutica dell’uso di manipolazioni, plantari (non rialzi), byte, medicinali convenzionali e omeopatici, agopuntura, accorgimenti alimentari per la correzione della scoliosi idiopatica in età evolutiva.

RACCOMANDAZIONI
- La scelta delle opzioni terapeutiche deve essere fatta dal clinico esperto di patologie vertebrali sulla base di tutti i parametri anamnestici, obiettivi e strumentali (E1).
- Una curvatura scoliotica non strutturata e la scoliosi inferiore ai 10±5° Cobb non devono essere trattate in modo specifico, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E1). Piuttosto, è necessario che siano ricontrollate periodicamente sino al superamento del picco puberale, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E2). Si raccomandano, nelle curve minori, gli esercizi specifici come primo gradino di approccio terapeutico alla scoliosi idiopatica per prevenirne l’evolutività (C). – Si raccomanda la costituzione di équipe terapeutiche specifiche (non necessariamente con rapporto di lavoro diretto), con una stretta collaborazione tra medico e rieducatore (E3), specificamente formato ed esperto nel trattamento della scoliosi (E2).
- Gli esercizi devono essere svolti individualmente o, meglio ancora, in piccolo gruppo con programmi individualizzati (E3); se ne raccomanda la continuità, sino alla fine del trattamento (E2). Gli esercizi, individualizzati sulla base delle necessità dei pazienti (E2), devono essere finalizzati a un miglioramento del controllo neuromotorio e posturale del rachide, dell’equilibrio e della propriocezione e a un rinforzo della funzione tonica della muscolatura del tronco (E2). Si raccomanda che gli esercizi non incrementino l’articolarità e la mobilità del rachide, con esclusione della fase di preparazione all’uso di un’ortesi (E2).
- Si raccomanda di evitare per la cinesiterapia l’uso esclusivo di singoli metodi, nessuno dei quali si adatta a tutte le fasi terapeutiche per il ragazzo affetto da scoliosi idiopatica (E2), utilizzando in ogni fase del trattamento il metodo, le tecniche e gli esercizi più idonei a perseguire gli obiettivi terapeutici necessari per il paziente (E2).
- Si raccomandano esercizi per migliorare la funzionalità respiratoria in pazienti affetti da scoliosi idiopatica che ne abbiano necessità (D).

ATTIVITÀ SPORTIVA
L’attività sportiva consente un riequilibrio psico-motorio che è consigliabile per tutti e che deve trovare spazio nell’adolescente scoliotico con le dovute modalità a seconda del tipo di paziente e della gravità ed evolutività della curva. Il paziente scoliotico deve giocare “come e più di tutti gli altri”, anche perché l’attività motoria consente di intervenire sugli aspetti psicologici e sociali correlati alla negatività di immagine del proprio corpo, mantenendo il paziente inserito nel suo gruppo. Il nuoto non è la panacea delle scoliosi e ci sono studi che tendono ad evidenziarne alcuni limiti o addirittura controindicazioni. Perplessità sono state espresse negli anni rispetto alle attività fisiche generalmente mobilizzanti, quali in particolare ginnastica artistica e danza. Quindi, lo sport non deve essere prescritto come un trattamento per la scoliosi idiopatica (E2), ma si raccomanda lo svolgimento di attività sportive di carattere generale per vantaggi aspecifici in termini psicologici, neuromotori e organici generali (E2), anche durante il periodo d’uso di un corsetto (E3). In base all’entità della curva e alla fase evolutiva, a giudizio del clinico esperto di patologie vertebrali, possono essere poste limitazioni rispetto ad alcune particolari attività (E2).

PER APPROFONDIMENTI
SIMFER: www.simfer.it
ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale): www.isico.it Fondazione Don Gnocchi ONLUS: www.dongnocchi.it
GRUPPO DI STUDIO DELLA SCOLIOSI: www.gss.it
ASSOCIAZIONE BACK SCHOOL: www.backschool.it

I MEMBRI DELLA COMMISSIONE
Stefano Negrini, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano e Fondazione Don Gnocchi ONLUS – IRCCS, Milano Lorenzo Aulisa, Clinica Ortopedica, Università degli Studi Cattolica di Roma Claudio Ferraro, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Fraschini, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Stefano Masiero, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Simonazzi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Claudio Tedeschi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Andrea Venturin, Azienda Ospedaliera, Università degli Studi di Padova Claudia Guerra, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Vincenzo Pirola, Azienda Ospedaliera “Salvini”, Garbagnate Milanese Simona Pochintesta, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Umberto Selleri, Azienda Ospedaliera “Bufalini”, Cesena Dinetta Bianchini, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Wanda Bilotta, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Isabella Fusaro, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Marco Monticane, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano 
di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 7/2009

Demenza e attività fisica: una review sugli studi internazionali

987763_89324658La malattia di Alzheimer è la più diffusa causa di demenza nella popolazione anziana e la sua incidenza aumenta con l’avanzare dell’età, con un culmine fra i 65 e gli 85 anni. La demenza di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500mila ammalati. Alois Alzheimer, neurologo tedesco, fu il primo che, nel 1907, ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici, caratterizzati da placche amiloidi e viluppi neuro-fibrillari presenti nel tessuto cerebrale. L’identificazione di queste anomalie è possibile solo con l’autopsia; per questo è possibile solo fare diagnosi di “probabile” malattia, tramite alcuni test specifici, clinici e neuropsicologici. Tranne che per una limitata percentuale di casi di origine genetica, la sua eziologia è definita multifattoriale. Il decorso, nonostante la presenza di variabili individuali, è abbastanza comune e caratterizzato da tre fasi.

Fase lieve:
- deficit memoria a breve termine
- disorientamento nello spazio
- difficoltà nella risoluzione di problemi quotidiani
- cambiamenti di personalità e alterata capacità di giudizio.

Fase moderata:
- difficoltà nell’eseguire le normali attività quotidiane (alimentarsi, vestirsi, lavarsi)
- agitazione psico-motoria
- disturbi del sonno
- difficoltà nel riconoscere familiari e amici.

Fase grave:
- disturbo di espressione e comprensione del linguaggio
- inappetenza e dimagrimento
- incontinenza
- totale dipendenza dagli altri.

I fattori di rischio non modificabili sono: l’età avanzata, storia familiare di demenza, e la presenza del genotipo dell’apolipoproteina E 4 allele. Diversi studi sono stati compiuti per individuare l’esistenza di fattori di rischio modificabili, che consentano di attuare un intervento preventivo e/o contenitivo della malattia. Partendo dal presupposto che la malattia di Alzheimer rappresenta una delle principali fonti di morbilità e mortalità nelle società di via di invecchiamento e che a tutt’oggi non esiste una cura, sarebbe importante riuscire a individuare delle strategie per ridurre il rischio o ritardarne l’insorgenza, e rallentarne il decorso. Un fattore di rischio modificabile pare essere rappresentato dal livello di istruzione: più è alto, più si rende disponibile una specie di “riserva cognitiva” spendibile sotto forma di strategie compensatorie quando ha inizio il declino mentale. Alcuni studi riconoscono in episodi pregressi di depressione o stress una correlazione con l’insorgenza della demenza senile, così come esposizioni ambientali e occupazionali (collanti, pesticidi e solventi) possono indurre un significativo aumento del rischio di malattia di Alzheimer. Diversi studi hanno collegato l’attività fisica alla malattia di Alzheimer, e quasi tutti hanno dimostrato una significativa relazione inversa tra attività fisica e declino cognitivo, anche se non sempre i risultati hanno mostrato un’associazione significativa. Da una recente revisione è emerso che 20 su 24 studi basati sulla popolazione hanno mostrato un legame tra attività fisica e riduzione del rischio di demenza o declino cognitivo. Dal punto di vista organico, l’esercizio fisico può preservare la funzione cerebrale in quanto migliora il flusso sanguigno cerebrale e la consegna di ossigeno; stimola la crescita dei fibroblasti nell’ippocampo, riducendo la perdita di tessuto cerebrale. L’ippocampo è l’area del cervello più sensibile al danno ischemico, ed è anche una delle prime aree del cervello a essere colpita dalla malattia di Alzheimer. Studi sperimentali eseguiti sui ratti supportano la teoria per cui l’attività fisica svolgerebbe un ruolo di protezione della struttura e della funzione cerebrale. Rispetto ai topi adulti inattivi, i topi adulti attivi hanno ridotto l’accumulo cerebrale di sottoprodotti neurodegenerativi, implicati nella patogenesi della demenza soprattutto a livello dell’ippocampo.

IL FRAMINGHAM STUDY

Uno studio che può vantare una prospettiva longitudinale unica è il Framingham Study, che ha seguito la popolazione della città di Framingham, Massachusetts, dal 1948, indagando i fattori di rischio cardiovascolare. A partire dal 1975, è stato utilizzato anche per il monitoraggio delle prestazioni cognitive, con la somministrazione di una batteria di test neuropsicologici a 3.349 partecipanti, in quel momento senza demenza, e successivamente valutati ogni 2 anni. Dal 1986 è stato introdotto un sondaggio per calcolare un indice di attività fisica quotidiana (PAI) sulla base del tempo speso per svolgere attività fisica: da leggera (come camminare), a moderata (incluse attività quotidiane come lavori di casa o salire le scale), a sport leggeri (come il golf o bowling), fino ad attività pesanti (lavori domestici impegnativi, o fare esercizio fisico intenso come il jogging). La popolazione per questo studio, quindi, comprende 1211 partecipanti inizialmente senza sintomi di demenza, suddivisi in cinque gruppi in base al livello di attività fisica, dalla più bassa (Q1) alla più alta (Q5). In oltre due decenni di follow-up, 242 partecipanti hanno sviluppato demenza (di cui 193 malattia di Alzheimer). I ricercatori hanno verificato che i partecipanti che praticavano da moderati a forti livelli di attività fisica avevano un rischio circa il 40% più basso di sviluppare qualsiasi tipo di demenza. Inoltre, le persone che avevano riferito i più bassi livelli di attività fisica avevano il 45% di probabilità in più di sviluppare qualsiasi tipo di demenza rispetto a coloro che avevano riportato maggiori livelli di attività.

LO STUDIO DI ERIC LARSON

Uno degli studi maggiormente citati in letteratura è quello condotto dai ricercatori del Group Health Cooperative di Seattle e della University of Washington, coordinati da Eric Larson, e pubblicato sugli Annals of Internal Medicine. Obiettivo di questo studio prospettico di coorte è determinare se la pratica di un regolare esercizio fisico sia associato a un ridotto rischio di demenza e malattia di Alzheimer. 1740 persone di età superiore ai 65 anni senza sintomi di demenza e dotate di elevate prestazioni cognitive, sono state seguite negli anni misurando la frequenza di esercizio, la funzione cognitiva, la funzione fisica, la depressione, le condizioni di salute, le caratteristiche dello stile di vita, e altri potenziali fattori di rischio per la demenza (per esempio, l’apolipoproteina E 4); la valutazione per la demenza è stata eseguita ogni due anni. Il livello di esercizio fisico è stato valutato chiedendo ai partecipanti il numero di giorni alla settimana in cui hanno svolto ciascuna delle seguenti attività, per almeno 15 minuti, nell’anno precedente l’indagine: passeggiate, escursioni, ciclismo, fitness, ginnastica, nuoto, acqua gym, stretching, o altro esercizio. Quindi, le persone che hanno svolto attività motoria per almeno 3 volte la settimana sono state classificate come “gruppo di esercizio fisico regolare”. La funzione fisica è stata valutata in base alla prestazione ottenuta in quattro test di performance:

- il tempo per percorrere 10 metri a piedi;

- il tempo per passare 5 volte dalla posizione seduta a quella eretta;

- prova di resistenza in equilibrio;

- forza di presa della mano dominante.

A ogni test è stato attribuito un punteggio da 0 a 4; il PPF punteggio finale equivale alla somma dei punteggi per le 4 prove, da 0 a 16.

La funzione cognitiva è stata valutata utilizzando il CASI, un modello che fornisce una valutazione quantitativa di attenzione, concentrazione, orientamento, memoria a breve e a lungo termine, capacità di linguaggio ecc. Sono state altresì valutate la depressione, le condizioni di salute, le caratteristiche dello stile di vita (fumo, consumo di alcol e assunzione di integratori dietetici). I partecipanti allo studio sono stati seguiti dal maggio 1994 all’ottobre 2003, con un follow-up medio di 6.2 anni. Di 1740 partecipanti, 1185 sono rimasti senza demenza, 158 hanno sviluppato demenza (107 la malattia di Alzheimer, 33 demenza vascolare e 18 altri tipi di demenza); 121 si sono ritirati e 276 sono deceduti. Dopo circa 6 anni, il tasso di incidenza di demenza è stata di 13 per 1000 persone/anno per i partecipanti che hanno svolto attività fisica 3 o più volte la settimana, rispetto al 19,7 per 1000 persone/anno per coloro che esercitavano meno di 3 volte la settimana. L’interazione tra esercizio e la performance- based funzionalità fisica è risultata statisticamente significativa (P = 0,013). Inoltre, è stata rilevato un rallentamento della progressione della malattia nei soggetti che durante lo studio avevano manifestato i primi sintomi della patologia. Lo studio non ha valutato in modo preciso quantità, intensità e durata dell’attività fisica, pertanto non è possibile definire esattamente un effetto dose/risposta, che si presume potrà essere materia di studio per ricerche successive. In ogni caso, questi risultati sono coerenti con le osservazioni di studi precedenti in cui si apprezzano gli effetti positivi di attività motoria anche di modesta entità. Inoltre, la forma delle curve di sopravvivenza F1.large(vedi figura) indica che l’esercizio fisico non impedisce la demenza, ma potrebbe essere associato a un ritardo della sua comparsa. Se questi risultati sono confermati, gli anziani possono avere un motivo in più per praticare attività motoria, anche quando comincia a ridursi la funzionalità di base. Questi risultati sono confermati da studi sperimentali eseguiti con persone anziane sane, che dimostrano come un programma di condizionamento fisico migliori le funzioni cognitive superiori (in genere funzione esecutiva, memoria e funzione visuospaziale), le cui modificazioni rappresentano in genere i primi segni e sintomi della malattia di Alzheimer.

ANCORA CONFERME

Altri studi hanno dimostrato che mantenersi fisicamente attivi può rallentare il declino cognitivo. Nell’Asia Aging Study Honolulu è stato evidenziato che uomini anziani che avevano camminato più di 2 miglia al giorno avevano un rischio del 40% inferiore di contrarre la demenza rispetto a coloro che camminavano distanze più brevi. Lo studio Health, Aging and Body Composition Study di Deborah E. Barnes, professore assistente di psichiatria presso la University of California e ricercatore in geriatria presso il San Francisco VA Medical Center, e colleghi, ha confrontato i cambiamenti nei livelli di attività fisica, nei livelli di efficienza cognitiva e composizione corporea per un periodo di 7 anni su un campione di 3.075 anziani fra i 70 e i 79 anni. I partecipanti sono stati classificati sedentari (0 minuti alla settimana), bassa intensità (meno di 150 minuti a settimana) o alta (150 minuti alla settimana o più). La funzione cognitiva è stata valutata utilizzando il 3MS test (Modified Mini-Mental State Examination- revised è un breve test cognitivo progettato per rilevare la compromissione cognitiva, spesso utilizzato in Canada e USA. Una volta considerate le altre variabili (età, sesso, razza, educazione, luogo di studio, diabete, ipertensione, fumo, consumo di alcool e 3MS punteggio basale), i ricercatori hanno scoperto che il tasso medio di declino mentale è stato di 0,62 punti/anno in coloro che sono stati costantemente sedentari; 0,54 punti/anno nei soggetti con livelli di attività fisica in calo; 0,44 punti/anno nei pazienti con livelli di attività altalenante; 0,40 punti/anno in coloro che hanno mantenuto alti livelli di attività motoria. «Abbiamo scoperto – ha dichiarato Deborah Barnes – che gli adulti anziani sedentari non solo avevano, all’inizio dello studio, i livelli più bassi di funzione cognitiva, ma che avevano subìto il più rapido tasso di declino cognitivo… Il declino cognitivo è stato più veloce anche nei soggetti che, durante tutti il periodo dello studio, hanno diminuito costantemente il loro livello di attività fisica». Secondo i ricercatori, gli anziani sedentari che hanno iniziato nuovi programmi di esercizio aerobico durante lo studio, hanno sperimentato un miglioramento della funzione cognitiva, in particolare della capacità di elaborare informazioni complesse velocemente. «Gli individui sedentari dovrebbero essere incoraggiati a impegnarsi in attività fisica, almeno occasionalmente – continua la Barnes – mentre le persone che già praticano attività fisica dovrebbero essere incoraggiate a mantenere o ad aumentare i loro livelli di attività».

ALZHEIMER EUROPA: LINEE GUIDA

10 esercizi per le persone con demenza e per chi li assiste 

(Ideato e scritto dal Dr. Hanna Jedrkiewicz. Disegni di Krystyna Lipka-Sztarballo)

Le istruzioni vanno scandite lentamente, con chiarezza e con calma. Il malato e l’istruttore siedono uno di fronte all’altro in una stanza ben aerata e fanno insieme gli esercizi. Si consiglia di cominciare con 3-4 esercizi, ripetendoli 10 volte. Poi si intensifica gradualmente il programma. La durata degli esercizi non deve superare i 20 minuti. Se il malato li svolge volentieri, si possono ripetere due volte al giorno, variandone la serie. È importante incoraggiare pazientemente il malato. Per rendere gli esercizi più divertenti, si può tenere un sottofondo musicale. I primi risultati si hanno dopo tre settimane, sia per il malato sia per chi lo assiste.

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di Mia Dell’Agnello
pubblicato in Fitmed online 12-2010