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Demenza e attività fisica: una review sugli studi internazionali

987763_89324658La malattia di Alzheimer è la più diffusa causa di demenza nella popolazione anziana e la sua incidenza aumenta con l’avanzare dell’età, con un culmine fra i 65 e gli 85 anni. La demenza di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500mila ammalati. Alois Alzheimer, neurologo tedesco, fu il primo che, nel 1907, ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici, caratterizzati da placche amiloidi e viluppi neuro-fibrillari presenti nel tessuto cerebrale. L’identificazione di queste anomalie è possibile solo con l’autopsia; per questo è possibile solo fare diagnosi di “probabile” malattia, tramite alcuni test specifici, clinici e neuropsicologici. Tranne che per una limitata percentuale di casi di origine genetica, la sua eziologia è definita multifattoriale. Il decorso, nonostante la presenza di variabili individuali, è abbastanza comune e caratterizzato da tre fasi.

Fase lieve:
- deficit memoria a breve termine
- disorientamento nello spazio
- difficoltà nella risoluzione di problemi quotidiani
- cambiamenti di personalità e alterata capacità di giudizio.

Fase moderata:
- difficoltà nell’eseguire le normali attività quotidiane (alimentarsi, vestirsi, lavarsi)
- agitazione psico-motoria
- disturbi del sonno
- difficoltà nel riconoscere familiari e amici.

Fase grave:
- disturbo di espressione e comprensione del linguaggio
- inappetenza e dimagrimento
- incontinenza
- totale dipendenza dagli altri.

I fattori di rischio non modificabili sono: l’età avanzata, storia familiare di demenza, e la presenza del genotipo dell’apolipoproteina E 4 allele. Diversi studi sono stati compiuti per individuare l’esistenza di fattori di rischio modificabili, che consentano di attuare un intervento preventivo e/o contenitivo della malattia. Partendo dal presupposto che la malattia di Alzheimer rappresenta una delle principali fonti di morbilità e mortalità nelle società di via di invecchiamento e che a tutt’oggi non esiste una cura, sarebbe importante riuscire a individuare delle strategie per ridurre il rischio o ritardarne l’insorgenza, e rallentarne il decorso. Un fattore di rischio modificabile pare essere rappresentato dal livello di istruzione: più è alto, più si rende disponibile una specie di “riserva cognitiva” spendibile sotto forma di strategie compensatorie quando ha inizio il declino mentale. Alcuni studi riconoscono in episodi pregressi di depressione o stress una correlazione con l’insorgenza della demenza senile, così come esposizioni ambientali e occupazionali (collanti, pesticidi e solventi) possono indurre un significativo aumento del rischio di malattia di Alzheimer. Diversi studi hanno collegato l’attività fisica alla malattia di Alzheimer, e quasi tutti hanno dimostrato una significativa relazione inversa tra attività fisica e declino cognitivo, anche se non sempre i risultati hanno mostrato un’associazione significativa. Da una recente revisione è emerso che 20 su 24 studi basati sulla popolazione hanno mostrato un legame tra attività fisica e riduzione del rischio di demenza o declino cognitivo. Dal punto di vista organico, l’esercizio fisico può preservare la funzione cerebrale in quanto migliora il flusso sanguigno cerebrale e la consegna di ossigeno; stimola la crescita dei fibroblasti nell’ippocampo, riducendo la perdita di tessuto cerebrale. L’ippocampo è l’area del cervello più sensibile al danno ischemico, ed è anche una delle prime aree del cervello a essere colpita dalla malattia di Alzheimer. Studi sperimentali eseguiti sui ratti supportano la teoria per cui l’attività fisica svolgerebbe un ruolo di protezione della struttura e della funzione cerebrale. Rispetto ai topi adulti inattivi, i topi adulti attivi hanno ridotto l’accumulo cerebrale di sottoprodotti neurodegenerativi, implicati nella patogenesi della demenza soprattutto a livello dell’ippocampo.

IL FRAMINGHAM STUDY

Uno studio che può vantare una prospettiva longitudinale unica è il Framingham Study, che ha seguito la popolazione della città di Framingham, Massachusetts, dal 1948, indagando i fattori di rischio cardiovascolare. A partire dal 1975, è stato utilizzato anche per il monitoraggio delle prestazioni cognitive, con la somministrazione di una batteria di test neuropsicologici a 3.349 partecipanti, in quel momento senza demenza, e successivamente valutati ogni 2 anni. Dal 1986 è stato introdotto un sondaggio per calcolare un indice di attività fisica quotidiana (PAI) sulla base del tempo speso per svolgere attività fisica: da leggera (come camminare), a moderata (incluse attività quotidiane come lavori di casa o salire le scale), a sport leggeri (come il golf o bowling), fino ad attività pesanti (lavori domestici impegnativi, o fare esercizio fisico intenso come il jogging). La popolazione per questo studio, quindi, comprende 1211 partecipanti inizialmente senza sintomi di demenza, suddivisi in cinque gruppi in base al livello di attività fisica, dalla più bassa (Q1) alla più alta (Q5). In oltre due decenni di follow-up, 242 partecipanti hanno sviluppato demenza (di cui 193 malattia di Alzheimer). I ricercatori hanno verificato che i partecipanti che praticavano da moderati a forti livelli di attività fisica avevano un rischio circa il 40% più basso di sviluppare qualsiasi tipo di demenza. Inoltre, le persone che avevano riferito i più bassi livelli di attività fisica avevano il 45% di probabilità in più di sviluppare qualsiasi tipo di demenza rispetto a coloro che avevano riportato maggiori livelli di attività.

LO STUDIO DI ERIC LARSON

Uno degli studi maggiormente citati in letteratura è quello condotto dai ricercatori del Group Health Cooperative di Seattle e della University of Washington, coordinati da Eric Larson, e pubblicato sugli Annals of Internal Medicine. Obiettivo di questo studio prospettico di coorte è determinare se la pratica di un regolare esercizio fisico sia associato a un ridotto rischio di demenza e malattia di Alzheimer. 1740 persone di età superiore ai 65 anni senza sintomi di demenza e dotate di elevate prestazioni cognitive, sono state seguite negli anni misurando la frequenza di esercizio, la funzione cognitiva, la funzione fisica, la depressione, le condizioni di salute, le caratteristiche dello stile di vita, e altri potenziali fattori di rischio per la demenza (per esempio, l’apolipoproteina E 4); la valutazione per la demenza è stata eseguita ogni due anni. Il livello di esercizio fisico è stato valutato chiedendo ai partecipanti il numero di giorni alla settimana in cui hanno svolto ciascuna delle seguenti attività, per almeno 15 minuti, nell’anno precedente l’indagine: passeggiate, escursioni, ciclismo, fitness, ginnastica, nuoto, acqua gym, stretching, o altro esercizio. Quindi, le persone che hanno svolto attività motoria per almeno 3 volte la settimana sono state classificate come “gruppo di esercizio fisico regolare”. La funzione fisica è stata valutata in base alla prestazione ottenuta in quattro test di performance:

- il tempo per percorrere 10 metri a piedi;

- il tempo per passare 5 volte dalla posizione seduta a quella eretta;

- prova di resistenza in equilibrio;

- forza di presa della mano dominante.

A ogni test è stato attribuito un punteggio da 0 a 4; il PPF punteggio finale equivale alla somma dei punteggi per le 4 prove, da 0 a 16.

La funzione cognitiva è stata valutata utilizzando il CASI, un modello che fornisce una valutazione quantitativa di attenzione, concentrazione, orientamento, memoria a breve e a lungo termine, capacità di linguaggio ecc. Sono state altresì valutate la depressione, le condizioni di salute, le caratteristiche dello stile di vita (fumo, consumo di alcol e assunzione di integratori dietetici). I partecipanti allo studio sono stati seguiti dal maggio 1994 all’ottobre 2003, con un follow-up medio di 6.2 anni. Di 1740 partecipanti, 1185 sono rimasti senza demenza, 158 hanno sviluppato demenza (107 la malattia di Alzheimer, 33 demenza vascolare e 18 altri tipi di demenza); 121 si sono ritirati e 276 sono deceduti. Dopo circa 6 anni, il tasso di incidenza di demenza è stata di 13 per 1000 persone/anno per i partecipanti che hanno svolto attività fisica 3 o più volte la settimana, rispetto al 19,7 per 1000 persone/anno per coloro che esercitavano meno di 3 volte la settimana. L’interazione tra esercizio e la performance- based funzionalità fisica è risultata statisticamente significativa (P = 0,013). Inoltre, è stata rilevato un rallentamento della progressione della malattia nei soggetti che durante lo studio avevano manifestato i primi sintomi della patologia. Lo studio non ha valutato in modo preciso quantità, intensità e durata dell’attività fisica, pertanto non è possibile definire esattamente un effetto dose/risposta, che si presume potrà essere materia di studio per ricerche successive. In ogni caso, questi risultati sono coerenti con le osservazioni di studi precedenti in cui si apprezzano gli effetti positivi di attività motoria anche di modesta entità. Inoltre, la forma delle curve di sopravvivenza F1.large(vedi figura) indica che l’esercizio fisico non impedisce la demenza, ma potrebbe essere associato a un ritardo della sua comparsa. Se questi risultati sono confermati, gli anziani possono avere un motivo in più per praticare attività motoria, anche quando comincia a ridursi la funzionalità di base. Questi risultati sono confermati da studi sperimentali eseguiti con persone anziane sane, che dimostrano come un programma di condizionamento fisico migliori le funzioni cognitive superiori (in genere funzione esecutiva, memoria e funzione visuospaziale), le cui modificazioni rappresentano in genere i primi segni e sintomi della malattia di Alzheimer.

ANCORA CONFERME

Altri studi hanno dimostrato che mantenersi fisicamente attivi può rallentare il declino cognitivo. Nell’Asia Aging Study Honolulu è stato evidenziato che uomini anziani che avevano camminato più di 2 miglia al giorno avevano un rischio del 40% inferiore di contrarre la demenza rispetto a coloro che camminavano distanze più brevi. Lo studio Health, Aging and Body Composition Study di Deborah E. Barnes, professore assistente di psichiatria presso la University of California e ricercatore in geriatria presso il San Francisco VA Medical Center, e colleghi, ha confrontato i cambiamenti nei livelli di attività fisica, nei livelli di efficienza cognitiva e composizione corporea per un periodo di 7 anni su un campione di 3.075 anziani fra i 70 e i 79 anni. I partecipanti sono stati classificati sedentari (0 minuti alla settimana), bassa intensità (meno di 150 minuti a settimana) o alta (150 minuti alla settimana o più). La funzione cognitiva è stata valutata utilizzando il 3MS test (Modified Mini-Mental State Examination- revised è un breve test cognitivo progettato per rilevare la compromissione cognitiva, spesso utilizzato in Canada e USA. Una volta considerate le altre variabili (età, sesso, razza, educazione, luogo di studio, diabete, ipertensione, fumo, consumo di alcool e 3MS punteggio basale), i ricercatori hanno scoperto che il tasso medio di declino mentale è stato di 0,62 punti/anno in coloro che sono stati costantemente sedentari; 0,54 punti/anno nei soggetti con livelli di attività fisica in calo; 0,44 punti/anno nei pazienti con livelli di attività altalenante; 0,40 punti/anno in coloro che hanno mantenuto alti livelli di attività motoria. «Abbiamo scoperto – ha dichiarato Deborah Barnes – che gli adulti anziani sedentari non solo avevano, all’inizio dello studio, i livelli più bassi di funzione cognitiva, ma che avevano subìto il più rapido tasso di declino cognitivo… Il declino cognitivo è stato più veloce anche nei soggetti che, durante tutti il periodo dello studio, hanno diminuito costantemente il loro livello di attività fisica». Secondo i ricercatori, gli anziani sedentari che hanno iniziato nuovi programmi di esercizio aerobico durante lo studio, hanno sperimentato un miglioramento della funzione cognitiva, in particolare della capacità di elaborare informazioni complesse velocemente. «Gli individui sedentari dovrebbero essere incoraggiati a impegnarsi in attività fisica, almeno occasionalmente – continua la Barnes – mentre le persone che già praticano attività fisica dovrebbero essere incoraggiate a mantenere o ad aumentare i loro livelli di attività».

ALZHEIMER EUROPA: LINEE GUIDA

10 esercizi per le persone con demenza e per chi li assiste 

(Ideato e scritto dal Dr. Hanna Jedrkiewicz. Disegni di Krystyna Lipka-Sztarballo)

Le istruzioni vanno scandite lentamente, con chiarezza e con calma. Il malato e l’istruttore siedono uno di fronte all’altro in una stanza ben aerata e fanno insieme gli esercizi. Si consiglia di cominciare con 3-4 esercizi, ripetendoli 10 volte. Poi si intensifica gradualmente il programma. La durata degli esercizi non deve superare i 20 minuti. Se il malato li svolge volentieri, si possono ripetere due volte al giorno, variandone la serie. È importante incoraggiare pazientemente il malato. Per rendere gli esercizi più divertenti, si può tenere un sottofondo musicale. I primi risultati si hanno dopo tre settimane, sia per il malato sia per chi lo assiste.

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di Mia Dell’Agnello
pubblicato in Fitmed online 12-2010
 

Alzheimer café: ha senso parlare di cura?

CAFFE

La malattia di Alzheimer non è guaribile, è degenerativa e le funzionalità perse non possono essere riacquisite; dunque, che senso ha parlare di riabilitazione funzionale? L’intervento non farmacologico è fondamentalmente indirizzato a rallentare il decorso della malattia, un intervento di tipo conservativo perché i sintomi si manifestino il più tardi possibile. Il livello di “cura”, inteso come il “care” anglosassone (ovvero “prendersi cura, avere attenzione”), è di tipo “psicosociale”, perché la sua finalità è mantenere le capacità cognitivo comportamentali attraverso l’utilizzo di differenti percorsi e tecniche, che poggiano tutte su di un principio fondamentale: non ci si concentra su ciò che non c’è più, ma si dà valore a ciò che c’è ancora. Il miglioramento delle condizioni di vita del paziente passa attraverso l’accettazione e soprattutto la valorizzazione di ciò che lui è, in quel momento della vita, a quel punto della malattia. Se si prescinde da questo, nel vano tentativo di rincorrere funzionalità perdute, ogni intervento non potrà che essere una sconfitta. Questo tipo di azione, oltre a rallentare il decorso degenerativo della malattia, contiene in sé un valore prezioso, che innesta un circolo virtuoso fondamentale per il benessere del paziente. Infatti, al deterioramento cognitivo concorrono due fattori, spesso di pari importanza: il primo è chiaramente la malattia stessa, con l’alterazione delle funzioni cerebrali; il secondo è rappresentato dal contesto psico-sociale in cui si trova il malato. Quasi sempre anziano, spesso solo, consapevole dei suoi insuccessi, il malato di Alzheimer tende a chiudersi sempre di più in se stesso, restando intrappolato in un atteggiamento apatico e depresso. La possibilità di ristabilire una relazione positiva ed efficace con l’ambiente, spesso porta con sé il miglioramento di aspetti motori, cognitivi e affettivi, e fornisce l’occasione di risvegliare delle capacità residue, non attaccate dalla malattia in sé, ma dall’incapacità di affrontarla.

ALZHEIMER CAFÉ

Il primo Alzheimer Café è nato in Olanda nel 1997, dal progetto dello psicogeriatra olandese Bere Miesen. Tra gli obiettivi principali, indicati dallo stesso Miesen, informare sugli aspetti medici e psico-sociali della demenza e prevenire l’isolamento dei malati e dei loro familiari, condividendo senza vergogna la propria esperienza. Gli Alzheimer Cafè non sono tanto dei luoghi veri e propri, quanto “situazioni”; sono dei punti di incontro e aggregazione per pazienti e care giver, per portare la cura della malattia anche fuori dalle strutture sanitarie. Lì si discute di nuove terapie, di possibilità di intervento, lì si confrontano esperienze personali, ma anche si propongono tecniche di supporto, quali la terapia della reminiscenza, la psicodanza, la logopedia e la musicoterapia. In genere si tratta di un appuntamento settimanale, della durata di due ore, mix di momenti conviviali e formativi, che si svolge in una struttura pre-esistente sul territorio: associazioni, cooperative, circoli cral, ma anche bar veri e propri. L’associazione Al Confine Onlus nel 2007 ha aperto, presso la sede del Circolo Arci Métissage di Milano, un Alzheimer Café: abbiamo intervistato il presidente Silvana Botassis, medico di medicina generale.

Gli Alzheimer Cafè sono diversi per origine e natura: o nascono come derivazione diretta di asl, o di centri sociali e culturali, o associazioni di malati. L’idea che li accomuna tutti è di non occuparsi della malattia, ma della salute, uscendo dalle strutture sanitarie, prescindendo dalla diagnosi e promuovendo la persona; ogni progetto è poi declinato nelle forme pù svariate: da dove nasce il vostro Alzheimer Cafè?

Vent’anni di medicina sul territorio mi hanno convinta che la salute per tutti, ma soprattutto per i vecchi, non sta nell’assenza di malattia, ma soprattutto nelle qualità delle relazioni. In questi 20 anni la medicina è cambiata, e dal curare i malati siamo arrivati all’ossessione della diagnosi precoce. Così mi sono trovata, come medico di famiglia, in una situazione in cui non riuscivo più a fornire una risposta ai bisogni essenziali dei miei pazienti, soprattutto di quelli più anziani, che sono bisogni di comunicazioni, di vicinanza, di un benessere conquistato nelle limitazioni che la vecchiaia impone. La medicalizzazione della vecchiaia non fa che peggiorare le condizioni delle persone anziane e quindi ho sentito forte la necessità di fare qualcosa per promuovere le relazioni dove non ci sono: per questo è nato l’Alzheimer Cafè, per combattere la solitudine e l’isolamento, anche di chi non ha necessariamente la malattia, anche di chi ha una famiglia. Del nostro gruppo fanno parte sia persone cognitivamente integre, ma che magari hanno problemi di disabilità motoria e di solitudine, sia persone che si trovano al grado estremo di disorientamento spazio-temporale e di disintegrazione della memoria, recente e remota.by Brian Tomlinsonbis

Come è strutturato il vostro intervento?

Attualmente proponiamo due pomeriggi alla settimana: il primo gruppo lavora con il metodo Validation, che è basato sull’ascolto empatico e sulla convalida delle emozioni. Il che non vuol dire dare sempre ragione a chi ci sta davanti, ma legittimare quello che lui sta vivendo: l’atteggiamento consolatorio è una delle cose più terribili per chi sta male, perché non lo legittima nella sua sofferenza, negandola. Il secondo pomeriggio è dedicato, in modo alterno, a un’attività teatrale per anziani, e alla danza-movimento-terapia. Il gruppo Validation è strutturato in tre momenti diversi. I primi 30/40 minuti sono di colloquio su un tema, proposto dall’operatore, che ha sempre un forte impatto emotivo, per aiutarli a far emergere quelle emozioni che fuori di qui loro comprimono: paura, rabbia, tristezza, ansia che, non trovando mai un ascolto legittimatorio, ma il più delle volte consolatorio, gli anziani hanno imparato a nascondere. All’inizio non è stato facile, perché tutti volevano parlare e nessuno ascoltava, ma poi, poco per volta, la gara “a chi stava peggio” si è trasformata in solidarietà ed è nato un gruppo di amici. Successivamente dedichiamo 20 minuti all’attività motoria e gli ultimi 20 sono un momento conviviale. Nel gruppo Validation abbiamo attribuito dei ruoli, scelti secondo le inclinazioni e le storie di ciascuno, e che danno un po’ il valore di quella persona nel gruppo. Abbiamo una signora responsabile dell’attività motoria, perché è iscritta a un corso di ginnastica per la terza età ed è lei a coinvolgere tutto il gruppo. L’esecuzione è da seduti, in cerchio, lavorando sulla respirazione e su tutti i gruppi muscolari. Poi ci alziamo in camminata libera, ogni tanto utilizziamo delle immagini e poi giochiamo con una palla di gommapiuma. Il movimento ha sicuramente una validità a livello fisico per mantenere livelli di mobilità articolare e di tono muscolare, ma ha soprattutto una grande funzione relazionale e ludica; è un momento scherzoso e gioioso che consente di liberare le energie intense mosse nel dialogo e farle circolare in un modo più rilassato. All’altro appuntamento pomeridiano, dedicato all’attività teatrale e alla danza-movimento-terapia, accogliamo persone anche molto gravemente deteriorate. Nelle lezioni di danza-movimento-terapia, guidate da Simone De Padova, educatore dell’associazione La Tela, attraverso lo stimolo musicale e l’evocazione di immagini molto semplici si stimola il movimento di ciascuno non secondo uno schema precostituito, ma in modo che ognuno trovi il suo movimento, il suo ritmo, la sua espressività corporea e la sua modalità di accostarsi alla corporeità dell’altro. Il movimento come strumento di comunicazione non verbale acquista un valore enorme per chi ha difficoltà di espressione verbale.

Quali sono requisiti necessari per partecipare all’Alzheimer Cafè?

Non esistono criteri quantitativi o qualitativi rigidi. Cerchiamo più che altro di capire quali siano i bisogni della persona per verificare se possono essere soddisfatti dall’inserimento nel gruppo oppure no. Fondamentale è il bisogno di contatto con gli altri: se questo manca, non sussistono le premesse necessarie. Altre volte, ci sono persone che hanno la necessità di muoversi continuamente, oppure molto compromesse nella capacità verbale: in questi casi, sono invitate a frequentare solo il pomeriggio della danza-movimento e il gruppo del teatro. Anche la posizione dei familiari è importante, perché il familiare tende a vedere il lato perdita, non il lato ancora vitale, perché è quello che lo fa maggiormente soffrire e quindi o nega la perdita o l’assolutizza.

Se ciò che si è perso non lo si recupera più, parlare di rieducazione funzionale è del tutto fuori luogo?

Nell’Alzheimer le funzioni motorie sono le ultime a venir meno anzi, molto spesso i malati camminano tantissimo anche negli stadi avanzati della malattia; forse si può parlare di rieducazione funzionale in senso lato, perché nel momento in cui tu recuperi una certa consapevolezza corporea, usi meglio quello che hai di residuo, in modo più efficiente. Soprattutto parlerei di attivazione di benessere. Teniamo presente che tutte le persone anziane hanno un rapporto conflittuale con il proprio corpo: un corpo pesante, per certi aspetti abbandonato e dimenticato, e per altri fin troppo presente, invadente nelle sue limitazioni. Il corpo, che fino a un certo punto della loro vita è stato veicolo di relazioni, ora ne rappresenta l’ostacolo, e quindi viene percepito come nemico. Vivere un momento di benessere corporeo rappresenta anche un momento di riconciliazione con il proprio corpo, riappropriazione di una dimensione vitale, gioiosa e liberatoria.

Sei soddisfatta dei risultati ottenuti?

Sono molto felice, ma non soddisfatta, perché vorrei aumentare il numero dei partecipanti, e soprattutto perché vorrei che da qui partisse un’ulteriore diramazione di rete, per lavorare dentro i condomini in cui queste persone abitano; una rete condominiale che possa essere promossa da loro, perché possano sentirsi protagonisti di un cambiamento sociale secondo un’immagine che loro hanno ancora dentro (esperienze abitative in cui c’erano maggiori possibilità di condivisione con i propri vicini, complici anche le stesse strutture architettoniche, tipo le case di ringhiera). Vorremmo anche potenziare delle attività intergenerazionali coinvolgendo i bambini, perché rispetto agli anziani hanno ritmi diversi, ma complementari e gli uni hanno bisogno degli altri. Purtroppo questa è un’infanzia poco educata alle relazioni. Crediamo che questo incontro tra generazioni sia vitale per i vecchi, ma anche per i bambini e per i giovani, per non far crescere generazioni senza radici.

 

AL CONFINE ONLUS

L’Associazione Al Confine Onlus nasce dalla consapevolezza dei confini rigidi (a volte vere e proprie barriere) che la cultura occidentale contemporanea ha creato all’interno della società, interrompendo di fatto quel libero scorrere di rapporti che nelle società tradizionali costituiva la base della solidarietà, della trasmissione di saperi e della convivialità: confini che separano le generazioni, ma anche le diverse condizioni biologiche, emotive, mentali e sociali definendo chi è sano e chi è malato, chi è produttivo e chi no, in sostanza chi è dentro e chi è fuori dai parametri di “normalità” generalmente riconosciuti. Un confine netto quindi tra membri attivi e passivi della società, “confinati” appunto questi ultimi al ruolo di fruitori di servizi impersonali confezionati per loro da “esperti”, svuotati perciò di ogni competenza su se stessi, oggetti di provvedimenti anziché soggetti della loro esistenza. Ci sentiamo perciò interpellati a rispondere portando il nostro contributo, in sintonia con diverse voci della cultura contemporanea, alla sperimentazione di pratiche che consentano la promozione della dignità della persona umana in ogni situazione esistenziale, riconoscendone il ruolo di soggetto della propria esistenza e delle proprie relazioni, restituendole competenza attraverso il potenziamento di tutte le risorse di cui il soggetto è depositario, favorendo lo scambio relazionale tra diverse componenti della società civile. Ci siamo quindi rivolti alla vecchiaia come tema in cui si incrociano e si concentrano molti stereotipi contemporanei, e insieme come ambito in cui riscoprire e valorizzare molta ricchezza umana spesso inespressa. E al rapporto tra generazioni come luogo privilegiato per la sperimentazione di nuove pratiche di convivialità. I soci fondatori dell’associazione provengono da una lunga esperienza nel campo delle professioni di aiuto, in contesto sanitario o educativo, e hanno maturato attraverso la loro esperienza professionale l’esigenza di sottrarre all’ambito strettamente sanitario la prevenzione e la cura del deterioramento cognitivo, negando la rigida equivalenza tra salute e assenza di deficit, alla ricerca di nuovi modelli di salute possibile, fondati sulle risorse presenti e sul reciproco scambio.

di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato su Fitmed online 12/2010