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Quanto pesa l’uomo sulla terra? Stima della biomassa umana e dell’incidenza del grasso corporeo sull’ecosistema

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Dal punto di vista ecologico, il fabbisogno energetico delle specie animali è in funzione del numero di organismi e della loro massa media. Per quanto riguarda la popolazione umana, è sempre stata posta grande attenzione al numero di persone viventi sul globo terrestre,ma non si è mai stimata la massa media, nonostante sia inconfutabile che la massa corporea media è in aumento. In questo studio è stata realizzata una stima globale della biomassa umana, la sua distribuzione per regione e la proporzione della biomassa causata da sovrappeso e obesità. Per ogni paese sono stati utilizzati i dati relativi alla massa corporea (BMI) e all’altezza media della popolazione per quantificare la massa corporea di un essere adulto; è stata quindi calcolata la biomassa totale come prodotto della popolazione per massa corporea media. Per esempio, nel Nord America risiede il 6% della popolazione mondiale,ma il 34% della biomassa causata da obesità. In Asia vive il 61% della popolazione mondiale,ma il 13% della biomassa causata da obesità. Una tonnellata di biomassa umana corrisponde a circa 12 adulti in Nord America e 17 adulti in Asia. Se tutti i paesi avessero lo stesso BMI degli USA, l’aumento della biomassa umana equivarrebbe a un extra di 935.000.000 di persone con massa corporea media, con esigenze energetiche equivalente a quelle di 473 milioni di adulti. 

LE FONTI DEI DATI
Per ciascun paese, è stata considerata la popolazione nel 2005 ritratta nel database delle Nazioni Unite, suddivisa per età e sesso [1] . I dati relativi all’indice di massa corporea (BMI) e le stime di altezza media per i 190 paesi sono state ricavate da indagini nazionali sulla salute, da relazioni dell’OMS [2] e da ricerche demografiche e sanitarie. La biomassa degli individui in sovrappeso è stato calcolata come il prodotto del numero di persone in sovrappeso e la loro massa corporea media. La biomassa a causa di sovrappeso è stata calcolata stimando la biomassa di sovrappeso (partendo da un BMI di 25) e sottraendo questo dalla loro effettiva biomassa. Utilizzando un metodo simile è stata stimata la biomassa causata dall’obesità, partendo da un BMI di 30. Per ciascun paese, è stata poi calcolata la biomassa umana totale, la biomassa causata dal sovrappeso e la biomassa causata dall’obesità, aggiungendo le stime relative a età e sesso. Utilizzando formule e valori del FAO [3], è stata quindi calcolata la quantità di energia e di cibo necessaria per sostenere la biomassa umana.

RISULTATI
Nel 2005, a livello mondiale, la biomassa umana adulta era di circa 287 milioni di tonnellate, di cui 15 milioni di tonnellate dovute a sovrappeso (BMI> 25): una massa equivalente a quella di 242 milioni di persone di massa corporea media (5% del globale biomassa umana). La biomassa in presenza di obesità è stata di 3,5 milioni di tonnellate: l’equivalente di massa di 56 milioni di persone di massa corporea media (1,2% della biomassa umana). Utilizzando il metodo descritto, gli studiosi hanno provato ad applicare il BMI della popolazione degli Stati Uniti (suddivisa in gruppi per età e sesso) alla popolazione del Giappone, considerando gli stessi gruppi relativi. Questi paesi sono stati scelti perché, pur essendo entrambi ad alto reddito e con una nutrizione adeguata, hanno valori di BMI medio prossimi agli estremi globali. Per ciascuno scenario è stata poi calcolata la biomassa globale e la biomassa causata da sovrappeso e obesità. In Nord America è presente la più alta media di biomassa di ogni continente: 80,7 kg; una tonnellata di biomassa umana corrisponde a circa 12 adulti. Oltre il 70% della popolazione nordamericana è in sovrappeso e la biomassa determinata dall’obesità è di 1,2 milioni di tonnellate. In Nord America vive il 6% della popolazione mondiale, ma il 34% della “biomassa obesa”. In Asia c’è la massa corporea media più bassa di ogni continente (57,7 kg); un tonnellata di biomassa umana corrisponde a 17 adulti. In Asia vive il 61% della popolazione mondiale, ma solo il 13% della “biomassa obesa” (449 mila tonnellate). Il BMI medio in Giappone nel 2005 era di 22.9; se tutti i paesi avessero la stessa distribuzione di BMI (per età e sesso), la biomassa totale scenderebbe di 14,6 milioni di tonnellate, una riduzione del 5% della biomassa globale, pari a 235 milioni di persone con massa corporea media. Questa riduzione della biomassa diminuirebbe la richiesta di energia media di 59 kcal/giorno per adulto che vive sul pianeta, equivalente al fabbisogno energetico di 107 milioni di adulti. La “biomassa obesa” sarebbe ridotta del 93%. Il BMI medio negli Stati Uniti nel 2005 è stato di 28,7; se tutti i paesi avessero la stessa distribuzione di BMI (per età-sesso), il totale della biomassa umana aumenterebbe di 58 milioni di tonnellate, con un incremento del 20% della biomassa globale, equivalente a 935 milioni di persone di massa corporea media. Questo aumento della biomassa potrebbe aumentare la richiesta energetica di 261 kcal/giorno per adulto, che è l’equivalente al fabbisogno energetico di 473 milioni di adulti. La “biomassa obesa” aumenterebbe del 434%. figura 1La tabella 1 mostra la distribuzione della biomassa causa di obesità per i paesi con più dell’1% della “biomassa obesa”. Se la Cina avesse la stessa distribuzione di BMI degli Stati Uniti, la sua biomassa, determinata solo dall’obesità, sarebbe equivalente al 121% del totale mondiale di “biomassa obesa”. L’energia necessaria per mantenere questa “biomassa obesa” corrisponde al fabbisogno energetico di 24 milioni di adulti di massa corporea media. L’energia richiesta per mantenere la “biomassa soprappeso” corrisponde al fabbisogno energetico di 111 milioni di adulti di massa corporea media. Negli Stati Uniti, l’energia necessaria per mantenere la “biomassa soprappeso” corrisponde al fabbisogno energetico di 23 milioni di adulti di massa corporea media. Se tutti paesi avessero la stessa distribuzione di BMI degli Stati Uniti, l’energia necessaria per mantenere la “biomassa obesa” aumenterebbe da 481%, corrispondente al fabbisogno energetico di 137 milioni di adulti. In questo scenario, l’energia necessaria per mantenere la “biomassa soprappeso” corrisponde al fabbisogno energetico di 406 milioni di adulti.

IMPLICAZIONI ECOLOGICHE
I risultati di questo studio sottolineano la necessità di mantenere una massa corporea media anche in considerazione delle implicazioni ecologiche della crescita della popolazione. A questo proposito, le proiezioni delle Nazioni Unite suggeriscono che entro il 2050 la popolazione mondiale potrebbe aumentare di un ulteriore 2,3 miliardi di persone [1]. Le implicazioni ecologiche di questa crescita saranno aggravate da un aumento della massa corporea media. Anche se il maggiore aumento di popolazione è prevista in Asia e in Africa sub-sahariana, i risultati di questo lavoro suggeriscono che l’aumento di popolazione negli Stati Uniti porterà più peso di quanto i numeri da soli possono esplicitare. In questi si prevede un aumento da 310 milioni (dato del 2010) a 403 milioni entro il 2050 [4]. Anche se la maggior parte dell’aumento sarà dovuto alla migrazione, nella misura in cui presumibilmente i migranti adotteranno la dieta e lo stile di vita del paese ospitante, possiamo ragionevolmente aspettarci che la loro biomassa aumenterà. In Africa e in Asia le popolazioni urbane sono in aumento più rapidamente di quanto le popolazioni rurali [5] e anche questo avrà implicazioni per la massa corporea media [6]. Considerato l’attuale trend di crescita del BMI, se la biomassa globale dovesse aumentare fino agli stessi livelli degli Stati Uniti, l’aumento della biomassa sarebbe pari a un miliardo di persone in più di massa corporea media. Anche se questo aumento non corrisponde esattamente a un ulteriore miliardo di persone in termini di fabbisogno energetico, è stato calcolato che corrisponde al fabbisogno energetico di circa 473 milioni di adulti con massa corporea media.

CONCLUSIONI
L’aumento della biomassa avrà importanti implicazioni per il fabbisogno di risorse globali e per l’impronta ecologica della nostra specie sul pianeta terra. Queste implicazioni ecologiche sono significative e dovrebbero essere prese in considerazione nel valutare le tendenze future e nel pianificare le risorse del nostro pianeta. Gli scenari presentati in questo studio suggeriscono che il trend di crescita del BMI avrà anche importanti implicazioni finanziarie: affrontare la grassezza della popolazione può essere fondamentale per la distribuzione delle risorse alimentari, la sicurezza e la sostenibilità ecologica. L’aumento della domanda mondiale di cibo derivante dall’incremento della biomassa può contribuire all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. A causa del maggiore potere d’acquisto di nazioni più benestanti (che hanno anche livelli medi più elevati di massa corporea), gli effetti più drammatici di questo aumento saranno subiti dai poveri del mondo.

REFERENCES
1. United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division:World Population Prospects: The 2010 Revision, CD-ROM Edition.: UN; 2011. accessed 20th April 2012.
2. WHO Global Infobase Team: The SuRF report 2. Surveillance of chronic disease risk factors: country-level data and comparable estimates. Geneva: World Health Organization; 2005.
3. FAO: Human energy requirements. Report of a Joint FAO/WHO/UNU Export Consultation. Rome: 17–24 October 2001, accessed 15th April 2012.
4. Finucaine MM, Stevens GA, Cowan MJ, Danaei G, Lin JK, et al: National, regional, and global trends in body-mass index since 1980: systematic analysis of health examination surveys and epidemiological studies with 960 country-years and 9.1 million participants. Lancet 2011, 377:557–567.
5. United Nations:World Urbanisation Prospects: Then2009 Revision. New York: Department of Economicnand Social Affairs, Population Division; 2010.
6. Fezeu LK, Assah FK, Balkau B, Mbanya DS, Kengne AP, Awah PK, Mbanya JCN: Ten-year changes in central obesity and BMI in rural and urban Cameroon. Obesity 2008, 16(5):1144–1147.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 11/2012

Gli effetti dell’inattività fisica sulla diffusione delle malattie non trasmissibili in tutto il mondo: un’analisi del Lancet Physical Activity Working Group

adultoThe Lancet ha recentemente pubblicato una nuova analisi sugli studi internazionali presenti in letteratura (pubblicati su Medline ed Embase) per quantificare l’impatto globale dell’inattività fisica sulle principali patologie non trasmissibili come la malattia coronarica, il diabete di tipo 2, i tumori della mammella e del colon. Gran parte della popolazione mondiale è inattiva e questo rappresenta un importante problema di salute pubblica: ma è possibile quantificare l’effetto che l’inattività fisica ha su queste importanti malattie? È possibile stimare quanto potrebbero essere evitate se le persone inattive dovessero diventare attive? E stimare l’aumento di aspettativa di vita nella popolazione? Gli studiosi del Lancet ci hanno provato, incrociando dati ufficiali e utilizzando raffinati metodi di analisi di studi provenienti da tutta la letteratura scientifica internazionale.

ATTIVITÀ FISICA E SALUTE
Nell’antichità i medici (già in Cina nel 2600 aC e poi con Ippocrate intorno al 400 aC), credevano nel valore dell’attività fisica per la salute. A partire dal XX secolo, tuttavia, si è sviluppata, nella classe medica, anche una tendenza diametralmente opposta, in cui l’esercizio era visto soprattutto con un’accezione negativa, come un pericolo potenziale a cui preferire il riposo: in quel periodo, per esempio, ai pazienti con infarto miocardico acuto veniva prescritto il completo riposo a letto. L’epidemiologo Jerry Morris è stato sicuramente uno dei pionieri, il cui lavoro ha contribuito a cambiare l’opinione popolare riguardo l’esercizio fisico, conducendo i primi rigorosi studi epidemiologici per indagare l’inattività fisica e il rischio di malattia cronica (pubblicati nel 1953). Da allora, molti altri studi hanno chiaramente documentato i numerosi benefit dell’attività fisica sulla salute ma, nonostante questa conoscenza, gran parte della popolazione mondiale rimane fisicamente inattiva. Per quantificare l’effetto dell’inattività fisica sulle malattie non trasmissibili più importanti, gli studiosi del Lancet hanno stimato quale percentuale di queste malattie potrebbe essere evitata se le persone inattive dovessero diventare attive, nonché quanto potrebbe aumentare la speranza di vita della popolazione. Sono state considerate le malattie non trasmissibili indicate dalle Nazioni Unite come una minaccia alla globale alla salute: malattie coronariche, il cancro, specificamente tumori della mammella e del colon, e diabete di tipo 2.

INATTIVITÀ FISICA: DEFINIZIONE
Si definisce “inattività fisica” un livello di attività insufficiente a soddisfare le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicate nel 2010. Lì si legge che l’attività fisica comprende tutte le forme ricreative o di svago, le modalità di spostamento (per esempio a piedi o in bicicletta), le attività professionali, le faccende domestiche e tutte le forme di esercizio fisico inserite nel contesto delle attività quotidiane, familiari e di comunità. Al fine di migliorare l’efficienza cardiorespiratoria e muscolare, la salute ossea e ridurre il rischio di malattie non trasmissibili e la depressione, l’OMS raccomanda che gli adulti dai 18 anni in su:
1) svolgano almeno 150 minuti di attività fisica aerobica a moderata intensità durante la settimana, o almeno 75 minuti di attività fisica aerobica intensa, o una combinazione equivalente delle due;
2) effettuino l’attività aerobica per almeno 10 minuti consecutivi;
3) per ottenere ulteriori benefici per la salute, gli adulti dovrebbero aumentare la loro attività fisica aerobica di moderata intensità a 300 minuti a settimana, o 150 minuti di attività fisica aerobica intensa, o una combinazione equivalente delle due;
4) due o più giorni a settimana dovrebbero svolgere un’attività di potenziamento muscolare, coinvolgendo i principali gruppi muscolari;
5) a partire dai 65 anni, gli adulti con scarsa mobilità dovrebbero svolgere attività fisica per migliorare l’equilibrio e prevenire le cadute 3 o più giorni a settimana.
Nelle raccomandazioni dell’OMS si legge anche che, in generale, per tutti i gruppi di età, seguire queste raccomandazioni e essere fisicamente attivi comporta maggiori benefici che danni.

RISULTATI DELL’ANALISI
È stata stimata la prevalenza di inattività fisica nei casi studiati, per malattia coronarica, diabete di tipo 2, cancro al seno e cancro al colon. La prevalenza più elevata è stata osservata in persone che hanno sviluppato il diabete di tipo 2, seguiti da quelli che hanno sviluppato il cancro al colon, la malattia coronarica e il tumore alla mammella. Questi risultati suggeriscono che l’inattività fisica provoca il 6% di morti per malattia cardiaca coronarica, il 7% per il diabete di tipo 2, il 10% per cancro al seno e il 10% per cancro al colon. Anche se la rimozione del fattore di rischio “inattività fisica” ha avuto, in termini di percentuale di riduzione, l’effetto maggiore per il cancro al colon e il minore per la malattia coronarica, vista la maggior incidenza di quest’ultima, avrebbe un effetto molto più grande riguardo al numero di casi che possono essere potenzialmente evitati. Nel 2008 7,25 milioni di persone nel mondo sono morti per malattia coronarica, contro 647.000 per il cancro al colon-retto. Applicando le percentuali rilevate nell’analisi ai 57 milioni di morti in tutto il mondo nel 2008, gli studiosi hanno stimato che più di 5,3 milioni di morti avrebbero potuto essere evitati se tutte le persone inattive fossero state attive. A livello mondiale è stato inoltre stimato che l’inattività fisica provoca il 6-10% delle principali patologie non trasmissibili, quivi includendo la malattia coronarica, il diabete di secondo tipo e i tumori al seno e al colon. Tali scoperte consentono di considerare l’inattività fisica come un vero e proprio fattore di rischio, alla stessa stregua del fumo e dell’obesità. Anche se i fattori di rischio sono classificati in base a scale differenti rispetto alla “quota di rischio”, è comunque interessante paragonare l’inattività fisica agli altri due fattori, contro cui i governi di tutto il mondo stanno attuando delle strategie d’azione: fumo e obesità. Per esempio, si stima che il fumo causi circa 5 milioni di morti in tutto il mondo (dati riferiti al 2000); così, l’inattività fisica sembra avere un effetto del tutto simile. Per questo è necessario esplorare tutte le vie e supportare tutti gli sforzi per ridurre l’inattività fisica in tutti i Paesi e migliorare la salute della popolazione mondiale in modo sostanziale.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 9/2012

Campagna anti-obesità = campagna anti-fumo?

campagna

FUMO E OBESITÀ: QUALI ANALOGIE
Responsabilità collettiva

«Guardando ciò che sta succedendo con l’obesità, non posso che ricordare quello che successe con il tabacco negli anni ’50, ’60 e ’70, quando si dava molta enfasi alla responsabilità personale e all’autoregolamentazione», sono parole di Stanton Glantz, direttore del Center for Tobacco Control Research ed Education presso l’Università di California, San Francisco. Quell’approccio, ricorda Glantz, non ha funzionato, e gli sforzi per ridurre il numero di fumatori non hanno avuto molto successo finché gli attori delle campagne non hanno spostato l’accento dalla responsabilità individuale alla comunità, cominciando a ritenere i produttori di sigarette direttamente responsabili. Molti esperti credono che un cambiamento simile sia necessario oggi nella lotta contro l’obesità in America. L’obesità non deve essere affrontata come una questione personale, ma è necessario ridefinirla come una sfida dell’intera comunità, che richiede un’azione collettiva e cambiamenti di vasta portata politica e sociale: dalle etichette informative sugli alimenti, ai limiti di commercializzazione per i bambini, alle imposte sui prodotti non salutari. Ma ci sono molti ostacoli, perché la dimensione del problema è molto più vasta rispetto al tabacco e riguarda tutti, nessuno escluso: riguarda il cibo che mangiamo, le bevande che beviamo, la televisione che guardiamo, le attività sedentarie che pratichiamo, le attività sportive che non pratichiamo, il modo in cui sono state progettate le nostre città e altro ancora. A livello politico sono state fatte diverse proposte di cambiamento, ma non si è ancora concretizzata la volontà di attuarle, anche perché, sostiene William Dietz (direttore della divisione di nutrizione, attività fisica e obesità presso il Centro statunitense per il Controllo delle Malattie e la Prevenzione) «la gente non percepisce ancora una minaccia significativa personale».

I bambini al centro
La stragrande maggioranza dei fumatori prende l’abitudine da adolescente; secondo la Campagna Tobacco-Free Kids, un terzo dei ragazzi fumatori morirà prematuramente per malattie legate al tabacco. L’impatto dell’obesità sulla salute è simile. Bambini gravemente sovrappeso sono a maggior rischio di sviluppare una moltitudine di problemi di salute: diabete, malattie del fegato, malattie cardiache, problemi articolari, asma. La letteratura scientifica ha inoltre dimostrato che un bambino sovrappeso avrà più probabilità di diventare un adulto obeso: per questo la prevenzione è un obiettivo centrale di entrambe le campagne, anti-tabacco e anti-obesità. David Ludwig, esperto di obesità infantile presso la Harvard Medical School, sostiene che il primo passo da fare è preservare la salute dei propri figli, limitando nella loro dieta quei cibi e bevande eccessivamente calorici che i ragazzi consumano in abbondanza e che minano la loro salute, tracciando errati percorsi biologici per la regolazione dell’appetito e del peso corporeo.

Cambiare le norme sociali
Il divieto di fumare nei luoghi pubblici ha fortemente contribuito alla riduzione del numero di fumatori. Lo stesso cambiamento nelle norme sociali è chiesto – e raggiungibile – quando si tratta di obesità infantile: «I nostri gusti in materia di alimentazione e attività motorie, le nostre preferenze, i nostri comportamenti sono appresi e possono essere modificati», ha dichiarato David Katz, direttore del Yale University Prevention Research Centre. Non sarà facile e non sarà veloce, ma «abbiamo a che fare con una popolazione che vorrebbe essere più magra e, in questo, opera in nostro favore».

FUMO E OBESITÀ: QUALI DIFFERENZE
Non possiamo limitarci a dire di no al cibo. Il tabacco può essere definitivamente eliminato dalle nostre abitudini: non ne abbiamo bisogno. Lo stesso non può dirsi per il cibo e questo rende la lotta contro l’obesità un problema molto più complicato. Il messaggio per i bambini e per le loro famiglie non può essere «fermo! non farlo!», ma deve essere «fai le scelte giuste, usa la moderazione», un messaggio che è molto più difficile da trasmettere. Inoltre, mentre fumare crea un’elevata dipendenza, le risposte biologiche collegate al mangiare sono ancora più profondamente radicate, avendo a che fare con l’evoluzione della specie: gli esseri umani vivevano in un ambiente dove il cibo era scarso e difficile da ottenere; per questo si sono biologicamente specializzati a immagazzinare calorie e a custodirle, una volta assunte. Per questo motivo Stephen Daniels, presidente del dipartimento di Pediatria presso l’University of Colorado School of Medicine, sostiene che, in un certo senso, si potrebbe dire che, nel caso di persone sovrappeso e obese, la nostra biologia è il nostro peggior nemico.

La varietà di prodotti è maggiore
Il tabacco è una sostanza unica, con un insieme circoscritto e ben definito di aziende che producono sigarette e prodotti correlati. Al contrario, l’industria alimentare è enorme, con una vasta gamma di prodotti offerti praticamente ovunque: casa, ristorante, negozi, distributori automatici… Questo rende la lotta contro l’obesità molto più difficile della lotta contro il tabacco.

Non esiste il danno da “cibo passivo”
L’opinione pubblica si è molto allarmata quando ha appreso che anche il fumo passivo era pericoloso, e questo è stato di fondamentale importanza per accelerare l’intolleranza delle persone al fumo e la loro volontà di vedere il governo agire. Non esiste un equivalente nella lotta contro l’obesità: l’essere obeso è solo un problema altrui. Il miglior argomento per coinvolgere la collettività potrebbe essere che l’obesità consuma enormi risorse sanitarie, spingendo al rialzo il costo delle cure mediche per tutti. Secondo molti, tuttavia, si tratta di un concetto troppo astratto, che non scatenerà mai lo stesso senso di indignazione e coinvolgimento personale.

Il ruolo dell’industria è meno chiaro
Nella lotta anti-fumo è stato facile dipingere le aziende del tabacco come il nemico disposto a mentire e manipolare l’opinione pubblica americana per il bene dei profitti. Rispetto all’industria alimentare, il rapporto è molto più sfumato: non è possibile demonizzare, ma è necessario lavorare in cooperazione con l’industria per aiutare il cambiamento dei gusti e delle abitudini dei consumatori.

CONCLUSIONI
L’argomento è chiaramente ancora aperto e siamo ben lungi da una soluzione, ma questo articolo ci sembra molto interessante perché, mai come ora, lo scenario si apre ad ambiti operativi molto più vasti. Finalmente la lotta all’obesità esce dagli stretti confini della medicina e della farmacologia per entrare, è il caso di dire ‘pesantemente’, in uno spazio giurisdizionale ben più vasto che coinvolge l’educazione, l’urbanistica, la produzione industriale, il mondo del lavoro come quello della scuola. Il richiamo a un cambiamento culturale e sociale forte in cui tutti siamo coinvolti, ognuno per la sua parte, nessuno escluso.

di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato in Fitmed online 6/2012

Dieta, fitness e altre prigioni


“In un momento storico di grandi incertezze, in cui l’individuo sente di avere poco controllo sulla  propria esistenza e sente un senso di inefficacia sulle possibilità di cambiare il proprio destino, si avverte la necessità di riportare il controllo sui propri confini corporei. Il progetto corpo è uno dei pochi territori in cui il singolo individuo sente che le proprie azioni hanno ancora una qualche efficacia: dieta, palestra, attività fisica, sono pratiche attraverso cui il corpo può essere oggettivamente modificato. Questo restituisce, in qualche modo, un equilibrio o una falsa idea di controllo. Io credo che l’anoressia (non la patologia primaria declinata dai manuali medici, ma la ‘nuova’ anoressia) sia una metafora del nostro modo di relazionarci al mondo, una sorta di ‘grammatica’ diventata di uso comune, come se la malattia fosse entrata nel nostro modo di pensare, nel discorso, e le persone se ne fossero appropriate per dire altre cose, per difendersi. Da questo punto di vista, tutti i comportamenti di controllo sul proprio corpo possono essere considerati figli di questa declinazione”.

Luisa Stagi

Fitness e body building sono attività fisiche che, a differenza di tutti gli sport, non ambiscono a un risultato prestativo “esterno”, in cui il corpo è il mezzo per ottenere un risultato, ma sono attività in cui il risultato è la stessa costruzione o modifica del corpo. Non è ancora così frequente che una persona si iscriva in un centro fitness “solo” per sentirsi meglio, a meno che non si tratti di un “over 60”. Quasi sempre, il cliente vuole vedersi meglio e cerca di raggiungere un obiettivo specifico: perdere peso, rassodare, definire, aumentare la massa, dando anche specifiche indicazioni dei distretti anatomici che vorrebbe vedere modificati (glutei, addominali, pettorali, gambe ecc.). Quasi tutti già hanno in testa un modello ben preciso a cui puntare, un obiettivo che spesso, nella sua idealizzazione, si preannuncia già come difficilmente raggiungibile; la costruzione di un corpo irreale, che corrisponde a un modello mediatico impossibile da imitare e sempre più estremo nella sua definizione. In questo progetto di costruzione del corpo i centri fitness rappresentano, loro malgrado e più o meno consapevolmente, un luogo di coltura fertile, ideale per la maturazione di modelli comportamentali deviati. Molto spesso, chi si iscrive in un centro fitness coltiva aspettative molto elevate e ambisce a risultati che non sempre corrispondono all’impegno che intende dedicare alla loro realizzazione. Dunque, all’istruttore si pone da subito una questione: lavorare sull’impegno o sull’ambizione del risultato? Sull’accettazione di sé o sull’esasperazione della prestazione? La cura verso il proprio corpo non è di per sé ossessiva, così come il centro fitness non rappresenta necessariamente il tempio di tale ossessione: proprio per questo le palestre non possono più prescindere da un ruolo educativo, seppur rigorosamente definito nei suoi confini. Ne abbiamo parlato con Luisa Stagi, sociologa, esperta in disturbi del comportamento alimentare e autrice del libro “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni”, a cui abbiamo rubato il titolo per questo articolo.

Nel suo libro si legge che l’anoressia è cambiata e sta cambiando da un decennio a questa parte: è maggiormente indotta dal modello sociale, si è diluita nella sua profondità e si è allargata nella sua espansione. Ci spiega meglio questo concetto?
I primi anni in cui si cominciava a diffondere e a studiare, l’anoressia era, in particolari condizioni psicopatologiche, il tentativo di controllare/rifiutare le trasformazioni dell’età puberale. Attraverso il controllo della condotta alimentare si negava la propria femminilità. La nuova anoressia, invece, è maggiormente indotta dal modello sociale, in cui la ricerca non è tanto dell’identità quanto dell’omologazione. L’anoressia maschile o vigoressia è un fenomeno in grande espansione che si inquadra bene con questo nuovo modello, così come anche l’ortoressia. L’anoressia maschile può sviluppare due modelli di comportamento differenti: l’annullamento del corpo, oppure lo sviluppo esagerato della massa muscolare (anoressia inversa). L’incertezza trasmessa da una società che non lancia più segnali precisi di identificazione, una società in cui alcuni attributi maschili non sono più riconosciuti importanti o, per lo meno, in cui gli uomini sentono di non avere messaggi chiari rispetto a ciò che ci si aspetta da loro, determina una grande fragilità e la necessità, in qualche modo, di esercitare un controllo: lavorando sul proprio corpo, annullando, togliendo pezzi, oppure aggiungendo e rinforzando. Il corpo diventa un territorio in cui riusciamo a lavorare e a vedere degli effetti, in cui, finalmente, riusciamo a verificare la validità e l’efficacia delle nostre azioni.

“Controllo” mi pare una parola chiave: un comportamento, una necessità, una pratica che, se sfugge di mano, può diventare ossessione. Nelle palestre molto spesso si praticano e si inducono comportamenti di controllo sul corpo: controllo del peso, della taglia, del battito cardiaco, dei risultati dell’allenamento, controllo della modalità di frequenza della palestra, controllo delle calorie ingerite e di quelle spese…
La dimensione del controllo è diffusa in tutto ciò che ci circonda, perché è un po’ quello che ci manca: le pratiche che aiutano ad avere controllo, aiutano a sentirsi meglio. Se, tuttavia, queste pratiche aiutano a stare meglio, senza entrare nel patologico, io credo che possano andare bene. Avere qualcuno che ci dice cosa è bene e cosa è male alle volte aiuta a mantenere un sottile, ma fondamentale, equilibrio: l’importante è averne consapevolezza. Il controllo diventa ossessione quando è presente una fragilità personale, in chi ha determinate caratteristiche cognitive e in persone che sono più fragili socialmente, perché l’insoddisfazione li rende più vulnerabili. La pressione sociale verso la magrezza, la bellezza, verso l’espiazione, è talmente forte che non è facile liberarsene: starci dentro con consapevolezza mi sembra già un passo importante.

Non crede che anche questo modo di comunicare il problema dell’obesità in termini di pandemia e trasferendo esclusivamente sulla sfera individuale le responsabilità, puntando sul senso di colpa, possa essere un’anticipazione di queste tendenze, una degenerazione anche del modello adottato da molti in cui l’attività fisica viene prescritta in modo rigido e doveristico?
L’individuo sente la necessità di dimostrare di aver capito come è giusto stare all’interno della società e lo deve dimostrare con pratiche che lo manifestino con evidenza. La nostra è una società in cui la malattia viene fatta passare innanzitutto come un peso per il “welfare state”: il concetto di fondo di questo nuovo salutismo è che tutti dobbiamo guadagnarci quel poco rimasto del “welfare state” comportandoci bene, sotto ogni aspetto. L’obeso sfugge al controllo sociale, in una socializzazione che non passa più per istituzioni forti e ferme, ma passa attraverso i corpi. Noi interiorizziamo come è giusto comportarsi e attraverso il corpo dobbiamo dimostrare agli altri che lo abbiamo capito: chi non lo fa, sta dicendo che non accetta queste regole, sfugge al controllo sociale e quindi dà fastidio, come danno fastidio tutti i devianti. In realtà, né l’anoressico né l’obeso sono i modelli giusti e conformi per la nostra società. Chi davvero risponde in toto alle richieste della nostra società è il bulimico, che da un lato consuma e dall’altro rimane magro. Per questo, la bulimia è la forma di disturbo del comportamento alimentare più diffusa e anche la meno riconoscibile.

Sempre nel suo libro si legge “L’attenzione ossessiva per l’immagine corporea, il culto della magrezza, non sono la causa dei disturbi alimentari; piuttosto la loro funzione sembra quella di fornire una strada, un contenitore in cui un malessere più profondo riesce a incanalarsi e a esprimersi”. Quale ruolo può avere, in questo contesto, il centro fitness?
Io credo che istruttori, personal trainer, preparatori atletici siano figure veramente importanti per il ruolo educativo che potrebbero assumere, anche perché spesso rappresentano dei modelli di riferimento, ma dovrebbero avere maggiore coscienza del proprio ruolo. Per la stesura del mio lavoro ho parlato con molti gestori, proprietari e responsabili di centri fitness e ho rilevato grande sensibilità a questi argomenti: si tratta, ora, di cominciare a mettere dei “semini di consapevolezza” in chi ha, di fatto, grandi responsabilità.

LUISA STAGIstagi027
Insegna Sociologia e Metodologia e tecniche della ricerca sociale presso l’Università degli Studi di Genova. Nella stessa città collabora con il Centro per la cura dei disturbi alimentari e con il centro interdisciplinare per la ricerca in sessuologia. Per FrancoAngeli ha pubblicato “La società bulimica” (2002) e “Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni” (2008). “Il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore”.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 5/2012

Downsize Fitness: se sei magro non entri!

downsize1Con sedi a Chicago e Las Vegas, il centro fitness ha aperto i battenti pochi anni or sono e ci si può iscrivere solo se si hanno almeno 50 libbre (22,6 kg circa) da perdere. Il format di Downsize Fitness è stato sviluppato appositamente per le persone in soprappeso, che spesso si sentono a disagio in una palestra convenzionale, dove temono la propria diversità e il giudizio degli altri frequentatori. La palestra offre un ambiente amichevole e un servizio su misura anche come orientamento nutrizionale. Le finestre della palestra sono smerigliate e la porta è chiusa, per rispettare la privacy.

Il Club Fitness invita alla visita della propria struttura offrendo una consulenza gratuita strutturata su un colloquio personale e un’analisi funzionale. Il colloquio si svolge con un personal trainer specializzato in problemi legati al soprappeso, con cui il potenziale iscritto può condividere la propria storia, raccontando la sua salute presente e passata, gli obiettivi personali, i tentativi falliti e può porre qualsiasi domanda per quanto riguarda il fitness, l’alimentazione e il club. Al colloquio segue una parte di valutazione funzionale tramite una serie di test fra cui la misurazione della composizione corporea, delle circonferenze, del BMI e valutazioni biomeccaniche, per inquadrare il livello di fitness e definire un punto di partenza, qualora il soggetto decida di iscriversi al club. Se si iscrive, con le informazioni e i risultati ottenuti, il team di professionisti crea un programma di allenamento che include:
- allenamento della forza muscolare;
- allenamento cardio-respiratorio;
- flessibilità e balance.
Inoltre viene sviluppato un programma nutrizionale che non è una dieta, ma che deve insegnare a mangiare, educando la persona ai concetti di equilibrio, valori nutrizionali, alimentazione salutare.
Last, but not least, ogni iscritto è seguito da personal trainer che lo accompagneranno lungo tutto il suo percorso, fornendo consigli e supporto motivazionale sia con lezioni one-to-one che a piccoli gruppi (fino a un massimo di 5 componenti).

THE BIGGEST LOSER, MA NON PROPRIO
Per rendere il servizio ancora più stimolante, ma soprattutto per aumentare la cassa di biggestrisonanza, seguendo l’americanissimo motto “Just do it”, il club propone ai soci la possibilità di competere in una sfida: chi riuscirà a perdere la maggior percentuale di peso in sei mesi di attività, si aggiudicherà un premio di 25.000 $! Ogni concorrente sarà pesato per determinare il peso iniziale e in questi sei mesi parteciperà al programma proposto dal Downsize Fitness, che include la frequenza della palestra a piccoli gruppi o con personal trainer individuale e sessioni di consulenza nutrizionale 3-5 volte a settimana. Le regole della competizione sono le seguenti:
- non è consentita la perdita di peso tramite chirurgia bariatrica;
- l’iscrizione è gratuita, ma ogni partecipante deve essere socio del Downsize Fitness per tutta la durata del concorso (6 mesi);
- i concorrenti saranno fotografati mensilmente per monitorare i progressi e le foto potranno essere utilizzate per i materiali promozionali.
L’idea di questo concorso è modellata sul successo dello show televisivo “The Biggest Loser” , un reality game che ha debuttato sulla NBC americana nel 2004. In breve, si tratta di una competizione fra persone obese e soprappeso per perdere il maggior peso possibile, in relazione al peso iniziale. Il format ha avuto successo tanto che, non solo continua a essere proposto dalla NBC americana, ma è stato adottato da più di 20 paesi, in tutti i continenti. Nonostante le diverse varianti, i concorrenti che partecipano al programma televisivo hanno sempre lo stesso obiettivo: perdere la più alta percentuale di peso per aggiudicarsi il montepremi finale, che negli USA ammonta a 250.000 dollari, nel Regno Unito a 25.000 sterline, in Germania a 25.000 euro. Ogni stagione di The Biggest Loser inizia con una pesata collettiva per determinare i pesi di partenza dei concorrenti, che poi sono suddivisi in squadre. Gli episodi sono animati da sfide da superare e tentazioni a cui resistere; ogni settimana la squadra che ha perso meno peso sarà sottoposta alla votazione delle altre squadre, per eliminare uno dei componenti. Quando il numero di partecipanti si è ridotto, le squadre si sciolgono e i concorrenti competono da soli, uno contro l’altro. I personal trainer della trasmissione sono responsabili (in collaborazione con il personale medico) della progettazione degli allenamenti e dei piani nutrizionali, ma i concorrenti sono individualmente responsabili dell’attuazione dei principi insegnati. Il programma è ovviamente soggetto a parecchie critiche, non solo per quelle caratteristiche discutibili su cui poggiano tutti i format reality, ma soprattutto perché in questo caso si ha anche a che fare con la salute (fisica e psichica) dei partecipanti. C’è chi sostiene che si tratti di sfruttamento e ridicolizzazione di persone in seria difficoltà, chi ne contesta i metodi: la perdita di peso competitiva è, nella migliore delle ipotesi, controproducente e, nel peggiore, pericolosa. Alcuni concorrenti arrivano a perdere 10/15 chili in una settimana, quando è a tutti noto che i bruschi cali di peso non sono solo di breve durata, ma rappresentano alti rischi per la salute. È lo stesso format dello spettacolo – un concorso a eliminazioni – a incoraggiare i concorrenti a mettere in pericolo la propria persona. Alcuni di loro hanno pubblicamente ammesso di essere arrivati al digiuno e alla disidratazione pur di restare in gara e, una volta finito lo spettacolo, nel giro di poche settimane hanno riacquistato i chili persi, evidentemente, quasi tutti di acqua.

PALESTRA PER OBESI: QUAL È IL SENSO?
Francis Wisniewski, proprietario dl Downsize Fitness, ci tiene a sottolineare che le finalità della palestra sono totalmente diverse da quelle del programma televisivo: «Il nostro obiettivo è aiutare i membri a cambiare il loro stile di vita… non si tratta solo di seguire una dieta o un allenamento circoscritto nel tempo. Si tratta di insegnare nuove abitudini per offrire ai nostri soci una nuova qualità della vita». E lo sa bene lui, che il percorso l’ha sudato tutto, dimagrendo di 60 chili in un anno; anzi, è proprio dalla sua esperienza che è nata l’idea di un centro specializzato. Una palestra dove, appena raggiunto l’obiettivo, te ne devi andare: sicuramente l’approccio è nuovo, ma è un business che funziona?
Il settore del fitness vive da anni proponendo modelli di corpi scolpiti e da sogno, che tanti considerano irraggiungibili e per questo non acquistano, a priori: «Sanno che non è realistico. Per questo l’industria del fitness, in un certo senso, è il mio peggior nemico». Ma non è solo un problema di comunicazione: «il personale che lavora nei centri fitness sa come vendere gli integratori, ma non conosce il modo di abbracciare le persone che hanno un disperato bisogno di aiuto».
A leggere i commenti nel blog, pare che l’idea piaccia parecchio: sembra che siano in tanti ad aver rinunciato alla palestra esclusivamente perché si sentono a disagio e fuori luogo. E questo non è solo un fenomeno a stelle e strisce.

 di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato in Fitmed online 2/2012

L’Onu e le malattie non trasmissibili

WHO_flag copia1pAlla fine del 2011 si è svolta a New York una riunione dei vertici ONU per definire l’agenda internazionale in merito alla prevenzione delle malattie non trasmissibili e il loro controllo. Le malattie non trasmissibili – come infarto, ictus, cancro, diabete e malattie respiratorie croniche -sono attualmente responsabili di oltre il 63% dei decessi nel mondo. Ogni anno, uccidono 9 milioni di persone sotto i 60 anni, con un impatto socio-economico sconcertante. Questa è la seconda volta nella storia delle Nazioni Unite che l’Assemblea Generale si riunisce per un problema di salute; il primo e unico precedente era stato per l’AIDS. Nel suo intervento Margaret Chan, Direttore Generale dell’OMS, è stata molto chiara rispetto alla necessità di un totale coinvolgimento politico e sociale di ogni nazione: i ministeri della salute, da soli, non possono “riprogettare” le società in modo da proteggere intere popolazioni dai fattori di rischio che portano a queste malattie. Perché è di questo che si tratta: il problema è troppo grande e troppo di ampio respiro, dal momento che l’aumento di queste malattie è strettamente connesso con fenomeni universali, come la rapida urbanizzazione e la globalizzazione. La risposta a cambiamenti ambientali così epocali e dirompenti deve essere di uguale portata, anche perché lo stile di vita malsano che alimenta queste malattie si sta diffondendo a una velocità sorprendente. La disponibilità di farmaci per ridurre la pressione del sangue, abbassare il colesterolo e migliorare il metabolismo del glucosio, se da un certo punto di vista aiuta a tenere la situazione sotto controllo, dall’altro inganna la realtà e ottunde la richiesta urgente di cambiamento della politica. Le cause di queste malattie devono essere affrontate alla radice, e l’obesità crescente rappresenta un segnale di spia: è l’evidenza che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nella politica ambientale. L’obesità diffusa in una popolazione non è un indicatore del fallimento della volontà individuale, ma di un fallimento nelle politiche governative. Alimenti industriali, alto contenuto di sale, grassi trans e zucchero, sono diventati il nuovo cibo di base in quasi ogni angolo del mondo: per un numero crescente di persone, rappresentano il modo più economico per riempire uno stomaco affamato. Così come non si può nascondere l’obesità, non è possibile nascondere gli enormi costi con cui queste malattie gravano sulle economie nazionali. Queste sono malattie che, lasciate senza controllo, portano alla bancarotta: in alcuni paesi, per esempio, la cura per il diabete da sola consuma ben il 15% del budget sanitario nazionale. Uno studio dell’Università di Harvard presentato in un recente World Economic Forum stima che, nel corso dei prossimi 20 anni, le malattie non trasmissibili costeranno all’economia globale più di 30 miliardi di dollari, ovvero il 48 per cento del PIL mondiale del 2010. Si tratta di patologie croniche, che normalmente sono rilevate in ritardo, quando i pazienti hanno già bisogno di cure ospedaliere e farmacologiche; eppure sono ampiamente prevenibili, intervenendo sui fattori di rischio:
- uso di tabacco
- dieta malsana
- consumo eccessivo di alcol
- inattività fisica.
In particolare, l’inattività fisica è stata identificata come il quarto fattore di rischio per mortalità globale (6% dei decessi a livello globale) e si stima che sia la causa principale per circa il 21-25% dei tumori al seno e del colon, il 27% di diabete e circa il 30% delle malattie del sistema cardiocircolatorio. È scientificamente provato che livelli regolari e sufficienti di attività fisica negli adulti riducono il rischio di ipertensione, malattie coronariche, ictus, diabete, cancro al seno e del colon, depressione e il rischio di cadute; migliorano inoltre la salute delle ossa e rappresentano un elemento determinante della spesa energetica, fondamentale quindi per il controllo del peso. Il termine “attività fisica” non deve essere confusa con “esercizio”. L’esercizio fisico è una sottocategoria di attività fisica ed è pianificato, strutturato, ripetitivo e mirato al miglioramento o al mantenimento di uno o più componenti della forma fisica. L’attività fisica comprende tutte le attività che coinvolgono il movimento del corpo e sono effettuate come parte del gioco, di lavoro, trasporto attivo, faccende domestiche e ricreative. Gli attuali livelli di inattività fisica sono dovuti sia a un’insufficiente partecipazione ad attività fisiche organizzate nel tempo libero, sia a un aumento di comportamenti sedentari durante le attività professionali e domestiche e a un aumento nell’uso di “passivo” dei mezzi di trasporto. Un’urbanizzazione rapida e scellerata ha portato allo sviluppo di fattori ambientali che scoraggiano la partecipazione all’attività fisica, come l’insicurezza delle strade, l’alta densità di traffico, l’inquinamento, la mancanza di spazi verdi, marciapiedi e impianti sportivi/ricreativi. Per questo l’aumento di attività fisica è una questione sociale, non solo un problema individuale, e pertanto richiede un approccio multi-settoriale e multi-disciplinare, culturalmente rilevante. La World Health Organization ha sviluppato il documento “Raccomandazioni globale sulla attività fisica per la salute”, in cui sono fornite indicazioni sui “dosaggi” di attività fisica necessaria per la prevenzione di malattie non trasmissibili in base a frequenza, durata, intensità, tipo e quantità totale. Le raccomandazioni sono indirizzate a tre fasce di età, selezionate tenendo in considerazione la natura e la disponibilità dei dati scientifici relativi:
5-17 anni
18-64 anni
dai 65 anni in su.

MALATTIE NON TRASMISSIBILI
Sono malattie di lunga durata e generalmente di lenta progressione. I quattro tipi principali di malattie non trasmissibili sono: le malattie cardiovascolari (come infarto e ictus), il cancro, le malattie respiratorie croniche (come l’asma), il diabete. Le malattie non trasmissibili (NCD) uccidono più di 36 milioni di persone ogni anno: circa l’80% di tutte le morti malattie croniche si verificano nei paesi a basso e medio reddito.
di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato su Fitmed online 10/2011

Soprappeso e obesità: uno sguardo d’insieme

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Nonostante i progressi compiuti dalla medicina, l’aspettativa di vita delle prossime generazioni sarà inferiore a quella attuale. E questo è un orribile paradosso.

 

Soprappeso e obesità sono due argomenti difficili da trattare, indagare e definire e più ci si addentra nella “materia” più se ne scopre la vastità. Dopo aver letto un po’ di tutto a riguardo, se ne può uscire con una sola, limpida certezza: non è pensabile inquadrare la questione solo in termini di consumi calorici. Di conseguenza, la presa in carico di una persona in soprappeso richiede, prima di tutto, che si parta da questa consapevolezza: se l’intervento sarà limitato e circoscritto alla sola somministrazione di attività fisica, l’insuccesso sarà quasi sempre inevitabile.

QUANDO NUMERI E DEFINIZIONI NON AIUTANO                                                                 Soprappeso e obesità non sono la stessa cosa, anche se per la maggior parte dei media non è così; c’è da dire che anche la divulgazione istituzionale, e a volte addirittura quella scientifica, peccano dello stesso pressappochismo, mischiando dati e statistiche che narrano di una razza umana destinata a soccombere sotto il proprio peso. In Italia, secondo le recenti dichiarazioni del direttore del Centro studi sull’obesità dell’università di Milano, Michele Carruba, nel giro di pochi mesi siamo passati da una percentuale del 36% di persone in soprappeso al 50%. Io mi guardo in giro, ma non li vedo mica tutti questi ciccioni: il 50%… non ci credo, guarda un po’, e non mi vergogno a dirlo. Anche l’OMS stenta a portare chiarezza. La classificazione di riferimento si basa su di un parametro che è già di per se stesso discutibile: il BMI, secondo il quale Arnold Schwarzenegger rientrerebbe nel girone degli obesi. E ancora, all’obesità e al soprappeso si associano parole come epidemia e pandemia, riferibili solo a malattie infettive trasmissibili per contagio, la seconda con l’aggravante di una diffusione globale ed elevata mortalità. Non si capisce perché, a questa stregua, non si definisca anche il cancro come una malattia pandemica. Inoltre, come è possibile definire il soprappeso una malattia? A dire il vero, io opinerei anche sull’obesità, ma sul soprappeso non ci possono essere fraintendimenti: si chiama fattore di rischio, non malattia. E non si tratta si speciosità letteraria, di raffinatezza linguistica: qui è un problema di pertinenze. La malattia la cura il medico, con il suo corollario di strutture, esami, farmaci. Il soprappeso non è una condizione da “curare”. Se è vero che la definizione di salute data dall’OMS è espressione di progresso (“stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”), è vero anche che include, volendo, un orribile tranello: non è che, una volta svincolato il concetto di salute dalla stretto significato di “assenza di malattie”, apriamo la strada a nuove interpretazioni di processi finora considerati fisiologici?

L’ASPETTO SOCIO-CULTURALE: VITTIME O COLPEVOLI?                                                                    Le posizioni rispetto alla questione sono molto differenti. Un modello condiviso da molti è quello educativo-colpevolizzante, che si basa sull’assoluta certezza che tutto il problema sia racchiuso nel “Big Two”, ovvero cibo e attività fisica, le uniche due variabili (a parte nei casi di obesità patologica) da cui dipende l’accumulo di adipe. Noi siamo delle macchine che necessitano di energia per lavorare; l’energia è il cibo. Se ne assumiamo in dosi e modalità corrette, la macchina è in equilibrio, altrimenti, se questo rapporto si altera per eccesso di cibo o scarsità di attività fisica o per entrambi i fattori, la macchina uomo accumula grasso. Per cui, i rimedi sono facili ed evidenti: il soprappeso è ricondotto a una questione di volontà e autodisciplina. Se sei grasso è colpa tua. E se fai spendere tanti soldi allo stato per la tua assistenza sanitaria devi assumerti parte di quelle spese. È di questo parere il Prof. Arsenio Veicsteinas, Ordinario di Fisiologia Umana, Direttore dell’Istituto di Esercizio Fisico, Salute e Attività Sportiva, Università degli Studi di Milano che, in modo provocatorio, ha dichiarato che il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe richiedere un “ticket aggiuntivo” ai soggetti in soprappeso, ma sani, che richiedono visite mediche specialistiche ed esami integrativi. Da questa posizione educativo-colpevolizzante partono alcune iniziative politiche “curiose”, come il programma “Pounds for pounds” in fase di sperimentazione nell’Essex, Regno Unito. In pratica, ogni partecipante, obbligatoriamente caratterizzato da forte soprappeso, sarà premiato dal servizio sanitario britannico con una sterlina (sotto forma di buoni shopping) per ogni chilo buttato giù. A questo stesso modello si ispirano le cosiddette “fat tax” adottate in diversi paesi del mondo, Stati Uniti in primis, con differenti modalità di attuazione, tendenti comunque a colpire economicamente produttori, fruitori e “portatori” di grasso. Sulla stessa linea la decisione presa da diverse compagnie aeree di far pagare un sovrapprezzo alle persone obese, perché di fatto occupano due sedili o comunque perché fanno consumare più carburante (così come si paga un extra per il bagaglio che supera un certo peso…). Alcune università americane a numero chiuso selezionano gli studenti anche in base al peso, mentre altre non rilasciano i diplomi di laurea a chi valica la soglia massima di BMI. E ancora, alcune società di assicurazioni fanno pagare una sovrattassa per l’assicurazione sanitaria alle persone in soprappeso. Secondo Jason Docherty, presidente della National Association to Advance Fat Acceptance «l’America è la nazione del politically correct, dove in linea di principio non è consentito neppure fare dell’ironia in base al sesso, all’etnia, alla religione. L’unico caso in cui è diventato accettabile una sorta di linciaggio psicologico, è contro gli obesi».

FAT-ISM                                                                                                                                    Un’altra posizione, diametralmente opposta a quella educativo-colpevolizzante, è quella che riconosce nell’obesità un fortissimo aspetto invalidante, sia legato a disabilità fisiche, che psicologiche e sociali. È di questo avviso Matilde Leonardi, Neurologo e Pediatra dell’Istituto Neurologico “C. Besta” di Milano, che da anni si occupa dei temi legati alla disabilità. Nella definizione di disabilità l’ambiente è l’elemento indispensabile per poterne dare una definizione: la disabilità nasce dal rapporto fra un corpo e un ambiente che non sono totalmente compatibili. Intervenire sulla sola menomazione è un’azione di tipo fallimentare, soprattutto perché spesso si ha a che fare con problemi cronici. Quindi è necessario puntare non solo al miglioramento della funzionalità corporea, ma anche e soprattutto sulla partecipazione sociale. Alla persona obesa viene negato un ruolo sociale e se a questo aggiungiamo che l’indice di massa corporea è più elevata tra i più bassi gruppi socio-economici, appare evidente come il soggetto obeso sia ad altissimo rischio di emarginazione. “Fatism” è il termine utilizzato per definire l’atteggiamento discriminatorio contro le persone soprappeso e obese, ritenute nel pensare comune di essere pigre, con poco controllo, di umore instabile, poco attente all’igiene personale: le persone obese sono considerate responsabili della loro condizione e un corpo imperfetto riflette una persona imperfetta. Trovo bellissima l’interpretazione che Luisa Stagi (dottore di ricerca in Sociologia e Metodologia della ricerca sociale) fa della bulimia come la risposta più conforme alle attese della società; una società che da una parte richiede di consumare e dall’altra esige corpi magri, da una parte spinge all’edonismo e dall’altra premia l’autocontrollo. La persona bulimica si accetta attraverso l’accettazione dell’altro. Da questo punto di vista, al contrario, l’obeso è disprezzato ed emarginato perché non si attiene alle richieste della società, o almeno lo fa solo in parte, consumando.

BIG TWO: UNA TEORIA SUPERATA                                                                                                  La teoria del Big Two negli Stati Uniti è stata da anni messa in discussione, fondamentalmente perché, si è rilevato, non è più sufficiente a spiegare l’impennata di obesità degli ultimi anni. Pur non volendo dar peso ai numeri, è innegabile che una visita alle terre d’oltreoceano sia sufficiente per rendersi conto della portata del fenomeno: impressionante. Proprio nella patria del fitness, del jogging, dello sport scolastico nella sua più ampia espressione. E davanti a questa moltitudine, anche la posizione educativo-colpevolizzante basata sulla responsabilità soggettiva fa acqua da tutte le parti. Ma la mente vergine europea, oltre alle carni in eccesso, nota anche altre cose. Prima di tutto, in questo paese è impossibile sfuggire al cibo, offerto ovunque, a qualsiasi ora, nelle sue infinite varietà. Poi c’è il fenomeno del supersizing, legato al “principio dell’ingordigia” secondo il quale più le dosi sono abbondanti più mangi, indipendentemente dall’appetito. Quindi le porzioni sono più abbondanti che da noi, così come è maggiore, e parrebbe senza controllo, la pubblicità che partecipa attivamente alla costruzione di un ideale alimentare nei bambini e ragazzi a base di junk food. Ma questa spinta ambientale al consumo di cibo non basta ancora a giustificare l’aumento del popolo degli obesi, che pare sia raddoppiato negli ultimi 30 anni. Così, indagando fra predisposizione genetica, termodinamica, disfunzioni metaboliche e altre espressioni di alterata fisiologia, qualcuno ha pensato di sollevare il coperchio di uno dei comparti più potenti dell’economia americana: l’industria agroalimentare. Il nostro cibo è cambiato più negli ultimi 30 anni che nei mille precedenti, sia come quantità e qualità degli ingredienti che come preparazione. Un esempio eclatante è fornito dallo sciroppo glucosio-fruttosio estratto dal mais (HFCS) che, a partire dagli anni ’80, negli States ha sostituito lo zucchero contenuto in quasi tutti i preparati alimentari e bibite gassate. Un’analisi molto interessante è proposta dal libro “Toxic. Obesità, cibo spazzatura e malattie alimentari: inchiesta sui veri colpevoli” di William Reymond, un viaggio nell’alimentazione made in USA alla scoperta delle manipolazioni che, partendo dai produttori agricoli, allevatori, aziende farmaceutiche, esperti di marketing, finiscono direttamente nei piatti dei cittadini americani. Tralasciando gli aspetti di politica economica molto ben analizzati, Reymond riporta una serie di studi scientifici compiuti negli ultimi anni secondo i quali la differente composizione molecolare rispetto allo zucchero determinerebbe una mancata stimola zione di produzione di insulina, aggirando i normali meccanismi di regolazione dell’appetito. Simpatiche anche le informazioni sull’industrializzazione dell’allevamento, dove l’uomo ha letteralmente alterato i normali processi di evoluzione di polli, maiali, mucche, per massimizzare i profitti a suon di mangimi tossici, ormoni e antibiotici, che finiscono poi per diventare parte del nostro cibo. Per non parlare della rivoluzione compiuta “grazie” all’utilizzo massiccio degli acidi trans, presenti nel 40% dei prodotti alimentari americani. L’obesità, conclude Reymond, deve essere interpretata come il risultato dell’interazione tra l’uomo e il suo ambiente, ma certo non si tratta di una fatalità. «L’industria agroalimentare non è responsabile solo di aver camuffato la natura della nostra alimentazione… nella loro corsa al guadagno alcune aziende hanno semplicemente cercato di impossessarsi dell’anima di un’intera generazione». Il problema è quindi anche culturale e l’Europa deve stare bene attenta alle posizioni che assumerà nel suo legiferare.

L’INTERVENTO EDUCATIVO IN ITALIA. CASE HISTORY                                                                        A. è un bambino grasso. Lo è da sempre, così come grassi sono i suoi genitori. Se lo chiamano “ciccione” lui si arrabbia, e mena a destra e a manca. Risparmia solo i suoi amici, gli unici che hanno il diritto di prenderlo un po’ in giro. La mamma ha provato a iscriverlo a diversi corsi sportivi, ma A., sconfortato e annoiato, si è sempre ritirato. Negli ultimi due anni la sua classe ha fatto da cavia per la compilazione di statistiche sul soprappeso e obesità nell’età infantile. I bambini sono stati sottoposti a diverse indagini da parte di organizzazioni accreditate a vario titolo: misurazioni, controlli, questionari sullo stile di vita dei ragazzini e delle loro famiglie. Un giorno gli “esperti” hanno consegnato ai bambini i risultati delle misurazioni, in busta aperta. I bambini ovviamente hanno letto e confrontato. Sul foglio di A. c’era scritto “obeso” e lui si è messo a piangere: nessuno si era preoccupato di spiegargli alcunché, e lui pensava che obeso volesse dire “stupido”. L’intervento “educativo” della scuola è stato quello di proporre un corso di educazione alimentare, tenuto dalla maestra di scienze e utilizzando come supporto un libricino, “Nutrikids”, marchiato Nestlé. Alla fine del programma, come esercitazione, i bambini sono stati invitati a inventarsi degli slogan pubblicitari che promuovessero una sana alimentazione. Inoltre, hanno risposto a un questionario scritto per verificare i livelli di apprendimento. Alla domanda: “fai un esempio di cereale” alcuni hanno scritto “i Cocopops”. La maestra di scienze è la stessa che dovrebbe impartire le lezioni di educazione motoria, due ore curricolari (quindi inderogabili) alla settimana. In realtà queste ore molto spesso non vengono svolte, per i seguenti motivi: – piove (la palestra è situata esternamente all’edificio scolastico); – nevica (vedi sopra); – c’è un ritardo nel programma di matematica, geometria, scienze (la maestra è la stessa); – i bambini si sono comportati male, quindi non meritano di andare in palestra: l’attività motoria è in premio, un divertimento, un gioco, mica una materia. Ora A., tirato dentro dagli amici, si è iscritto a un corso di calcio, di quelli dove lo sport è ancora sport, con tutti i suoi valori appresso. È seguito, direi quasi amato, anche se lui fa una fatica porca. Non riesce neanche a correre e deve spesso ingoiarsi le beffe degli altri giocatori: del resto è sempre così, ogni volta che deve inserirsi in un nuovo gruppo sa di dover pagare il fio. Ultimamente ha rinunciato a indossare i pantaloncini, per assicurarsi una presa in giro di meno. Però c’è, lì nel campo, sempre trafelato, con il suo allenatore che gli grida “bravo A., dai che ce la fai”. Ma a me sembra che sia tanto solo.

di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 4/2010

Federasma e il progetto Gina

by _urbanizrFEDERASMA

La Federazione Italiana delle Associazioni di Sostegno ai Malati Asmatici e Allergici è un’organizzazione senza fini di lucro (Onlus), che riunisce le principali associazioni italiane di pazienti impegnate nella lotta contro l’asma e le allergie. Partendo dal presupposto che l’informazione, la gestione e il controllo della malattia rappresentano i tre punti essenziali per la tutela del paziente asmatico e allergico, Federasma mette a disposizione sul proprio sito una serie di pubblicazioni rivolte ai pazienti e al personale sanitario. Fra queste segnaliamo “Asma e sport”, dedicata alla promozione dell’attività sportiva che, al contrario di quanto ritenuto spesso in modo pregiudiziale, può esercitare una notevole azione benefica nei soggetti asmatici. “Le persone con asma, se la malattia è tenuta sotto controllo, possono svolgere qualsiasi attività corrispondente alle proprie possibilità e inclinazioni, compresi gli sport dilettantistici e agonistici. Lo dimostra l’esempio di numerosi atleti con asma che hanno raggiunto il podio olimpico: tra i più celebri, il nuotatore Mark Spitz, che vinse sette medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1972 e il nostro Giorgio Di Centa, trionfatore alle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006 nella 50 km e nella staffetta 4×10 km. I successi di questi atleti devono incoraggiare tutte le persone con asma a non rinunciare ai benefici dell’attività fisica: seguendo alcune regole importanti si può tenere la malattia sotto controllo e prevenire il rischio di crisi di asma durante l’impegno atletico. In linea di massima, gli sport più adatti sono quelli che coinvolgono in maniera regolare e continua i muscoli respiratori, coordinandoli con tutta l’attività muscolare, o quelli che comportano una respirazione particolarmente impegnativa solo per brevi periodi: sport come nuoto, canottaggio, ginnastica artistica, golf risultano più idonei al soggetto asmatico rispetto a quegli sport che richiedono un impegno fisico acuto e prolungato”. Oltre a fornire delle indicazioni generali e precauzionali, che riguardano soprattutto la gestione della malattia in un rapporto fiduciario con il proprio medico, le linee guida individuano i pro e i contro delle principali discipline sportive. Le riportiamo così come sono state pubblicate.

Nuoto. È tra gli sport più indicati per le persone con asma. Non comporta un eccessivo incremento della ventilazione polmonare; la frequenza respiratoria risulta moderata ed è facilmente controllabile attraverso il movimento sincrono e ritmico delle bracciate. L’importante è che sia eseguito in ambiente adeguatamente riscaldato e intervallato da periodi di riposo. Nelle piscine, un’elevata concentrazione di cloro nell’acqua può causare crisi broncospastiche.

Sollevamento pesi, lotta e scherma. Questi sport, basati sulla potenza e sulla destrezza, presentano un basso rischio asmatico in quanto richiedono sforzi intensi ma di breve durata, con scarso incremento della ventilazione.

Sci di fondo. Presenta gli stessi vantaggi del nuoto: ha cioè la caratteristica di impegnare vaste masse muscolari in un movimento armonico e ritmico coordinato con gli atti respiratori. Si tratta quindi di uno sport che può essere praticato con relativa tranquillità da parte delle persone con asma, assumendo le opportune precauzioni per proteggersi dall’aria fredda che può provocare broncospasmo.

Corsa libera. Viene spesso praticata in fase di preparazione atletica e riscaldamento di molte attività sportive ed è quindi una delle discipline più comuni. È una delle attività sportive che possono più facilmente indurre crisi di asma, specie se protratta per 6-8 minuti. Per fortuna, la corsa è sensibile all’effetto allenamento: con la pratica si può trovare un giusto adattamento, arrivando a eseguire un allenamento di base con un buon livello di attività fisica, ma una ridotta ventilazione, riducendo così l’effetto stimolante dell’iperventilazione come causa di broncospasmo.

Atletica leggera. Le più importanti specialità dell’atletica leggera come i 100 e i 200 metri piani, nonché i salti in alto, lungo, triplo e asta che si svolgono prevalentemente in apnea e in un tempo brevissimo, quindi con un ridotto impegno ventilatorio, sono generalmente ben tollerate dai pazienti asmatici.

Canottaggio. Nonostante comporti un’elevata ventilazione, risulta meglio tollerato della corsa.

Vela. È uno sport adatto agli asmatici perché si svolge in un ambiente praticamente privo di allergeni, polvere, pollini e non richiede un elevato livello ventilatorio. Sono da tenere presenti le brusche variazioni climatiche, in particolare la possibilità di esposizione al freddo.

Sport di squadra. Il calcio, la pallacanestro, la pallamano, la pallavolo, l’hockey a rotelle e su prato, richiedono corse non continuative alternate a periodi di sosta e possono quindi essere praticati dai pazienti asmatici, previa attenta valutazione da parte del medico degli indici di funzionalità respiratoria.

Sport ad alta quota. La persona con asma che si reca in montagna, soprattutto nella stagione fredda, deve essere consigliata a effettuare un buon allenamento di base, in modo da ridurre l’iperventilazione, e un breve periodo di riscaldamento. È consigliabile che i pazienti asmatici anche giovani, con funzione respiratoria più compromessa, non superino i 2000 metri, se non dopo un’adeguata broncodilatazione farmacologica. Non è prudente la risalita con mezzi meccanici oltre i 3000 metri, soprattutto quando il soggetto asmatico è appena giunto dalla pianura: la mancanza di un acclimatamento potrebbe indurre episodi broncospastici.

GINA: INIZIATIVA GLOBALE PER L’ASMA

Il GINA (The Global Initiative for Asthma – Iniziativa Globale per l’Asma) opera dal 1993. Il suo obiettivo primario consiste nel lavorare a stretto contatto con gli operatori e il personale sanitario nel mondo per ridurre prevalenza, morbilità e mortalità dell’asma. Nel sito italiano dell’associazione sono disponibili una serie di pubblicazioni che contengono informazioni su epidemiologia, patogenesi, prevenzione e dati socio-economici sull’asma, nonché le linee guida internazionali adattate alla realtà italiana e aggiornate al 2010. Le linee guida offrono un quadro completo della patologia (epidemiologia, impatto socio-economico, fattori di rischio, fisiopatologia, diagnosi e monitoraggio dell’asma, valutazione e controllo, prevenzione e riduzione dei fattori sensibilizzanti e scatenanti, terapia farmacologia, educazione del paziente) e sono state pubblicate con l’intento di informare tutte le persone che si occupano di soggetti asmatici, in modo da favorirne l’applicazione nella pratica quotidiana. L’educazione del paziente risulta infatti fondamentale per la gestione ottimale della malattia e coinvolge anche personale non sanitario, purchè addestrato, in particolare nei confronti dei bambini/ adolescenti in età scolare. Ancora una volta è evidenziato il ruolo che l’attività fisica svolge nella vita dei soggetti asmatici, soprattutto nei bambini e nei giovani, anche perché, fra i fattori di rischio individuali che predispongono all’asma ritroviamo, ancora una volta, obesità e sedentarietà. Fino agli anni ’90 il trend di diffusione dell’asma è stato in crescita, dopo di che sembrava essersi stabilizzato; ma negli ultimi anni si sono registrati nuovi aumenti, sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. I motivi sono differenti, ma uno di questi è sicuramente il contingente aumento di popolazione obesa, nella quale è stata rilevata un’incidenza di asma maggiore rispetto alla popolazione normale (correlata al BMI), e una più difficile gestione.

 

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Fitmed online 9-2010

Obesity and the economics of prevention: fit not fat

È stato recentemente presentato il nuovo rapporto OCSE (Organizzazione per la Maitland St, Toronto, Ontario, CanadaCooperazione e lo Sviluppo Economico, costituito a oggi da 33 paesi), che analizza le dimensioni e le caratteristiche della diffusione dell’obesità. Il rapporto confronta per la prima volta dati provenienti da 11 paesi, analizzando tendenze storiche e proiezioni future. Il rapporto comprende anche un’analisi senza precedenti dell’impatto economico e sanitario di una serie d’interventi per la prevenzione dell’obesità in 5 paesi OCSE, svolta in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Purtroppo nella versione redatta in italiano crediamo sia stato fatto un errore imperdonabile per una fonte scientifica, ovvero la continua confusione di dati relativi all’obesità con quelli relativi al soprappeso che, come tutti sanno, sono faccende molto differenti. Nonostante ciò, mantenendo una chiave di lettura consapevole di questa criticità, se ne possono trarre spunti interessanti. Un’indagine sulle politiche adottate a livello nazionale indica che in alcuni paesi OCSE si stanno intensificando gli sforzi per incoraggiare un’alimentazione sana e uno stile di vita attivo. La maggior parte dei paesi promuove iniziative rivolte ai bambini in età scolare, come l’introduzione di cibi sani nei menu scolastici e nei distributori automatici, l’attivazione di programmi di educazione alla salute o il miglioramento delle strutture per praticare attività fisica. Molti governi, inoltre, diffondono linee guida nutrizionali e messaggi di promozione della salute incoraggiando l’uso della bicicletta o gli spostamenti a piedi, anche nel tempo libero. Al settore privato (industria alimentare, industria farmaceutica e industria dello sport), è riconosciuto un ruolo importante. In particolare, i governi si aspettano che l’industria alimentare si adoperi per la riformulazione di alcuni alimenti, onde ridurre o evitare l’utilizzo di ingredienti dannosi (come i grassi saturi e il sale), per la riduzione delle porzioni divenute eccessive, e per l’offerta di maggiori alternative salutari. In molti casi si aspettano anche una limitazione della pubblicità, in particolare quella rivolta a gruppi vulnerabili come i bambini, e una migliore informazione sulla composizione nutrizionale degli alimenti. Partendo dalla consapevolezza che nessuna delle singole strategie tentate sino a oggi ha avuto successo, si considera necessario perseguire una soluzione con un approccio “multi-stakeholder”: i governi devono mantenere il controllo complessivo delle iniziative di prevenzione e allo stesso tempo incoraggiare l’impegno e il contributo del settore privato. Poiché gli interessi in gioco sono in conflitto tra loro, combattere l’obesità e le malattie croniche associate richiede compromessi e cooperazione tra le parti interessate: un fallimento imporrebbe pesantissimi oneri alle generazioni future. Ipse dixit.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Fitmed 11-2010