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Parkinson giovanile: è vietato nascondersi

T1 copiaIl Parkinson non è solo una malattia della terza età: degli oltre 200 mila malati in Italia, circa il 5% ha vissuto l’esordio della malattia prima dei 40 anni. A questa cifra si deve poi aggiungere il “sommerso”, ovvero quei giovani malati a cui il Parkinson non è ancora stato diagnosticato. La mancata diagnosi è da imputare a due motivi fondamentali: il primo è la disinformazione, perché la maggior parte delle persone considera il Parkinson una “malattia dei vecchi”; il secondo è la difficoltà di riconoscere i sintomi. Infatti in giovane età la patologia, almeno inizialmente, presenta delle manifestazioni differenti rispetto all’esordio in età matura: il classico tremore è spesso assente, mentre compaiono un senso generale di stanchezza e un semplice “impaccio” emilaterale dei movimenti, con rallentamento dei riflessi. Il Parkinson giovanile evolve più lentamente e non comporta necessariamente un’aspettativa di vita ridotta. Piuttosto, il problema maggiore, in caso di esordio precoce della malattia, riguarda proprio il decorso prolungato, che costringerà a convivere con una presenza molto, molto ingombrante. Qualità, dosaggi, tempi e modalità di somministrazione della terapia farmacologia diventano in questi casi ancora più importanti, per mantenere la qualità della vita al più alto livello possibile e, di conseguenza, il rapporto collaborativo fra medico e paziente risulta fondamentale e imprescindibile. Altrettanto importanti sono la terapia fisica e l’esercizio motorio.

 MISS PARKINSON

Michela Cancelliere, classe 1959, aveva trentanove anni quando si sono manifestati i prodromi della malattia. I medici sono arrivati alla diagnosi corretta dopo quattro anni, passando attraverso una “sindrome da stress post traumatico”, seguita da una “sindrome depressiva compulsiva” e una successiva “sindrome extrapiramidale”. Quattro anni in cui, oltre alla progressione fisiologica della malattia di Parkinson, Michela ha dovuto sostenere il peso di queste diagnosi, che l’hanno portata a ricoveri psichiatrici, all’assunzione di psicofarmaci e soprattutto a non volersi più bene. Per questo, quando “finalmente” è arrivato il verdetto, malattia di Parkinson giovanile, la prima reazione è stata, per assurdo, di soddisfazione: «In bilico fra la disperazione assoluta e la voglia di combattere più agguerrita che mai, era però tanta la soddisfazione di possedere una certezza che prevalse la seconda». Comincia così un percorso tutto in salita fatto di volontà, conoscenza, ottimismo, ironia, perdono e accettazione, che l’ha portata a riappropriarsi della sua vita, ma non solo. Perché i risultati raggiunti sono stati così importanti che Michela ha voluto mettere la sua esperienza a disposizione degli altri, tramite un libro autobiografico e numerose partecipazioni a convegni sulla malattia, per comunicare a tutti che condurre una vita “normale” si può, anche con il Parkinson. Inoltre, grazie alla sua formazione di insegnante di educazione fisica e alla sua passione per lo sport, sta sperimentando nuove modalità di attività fisica per persone affette da Parkinson. Chi meglio di lei, che vive sulla propria pelle e nella propria anima i disagi della malattia? «…prima inizia a tremare il mignolo della mano sinistra, poi anche l’indice e il tremore si diffonde a tutta la mano. Quindi si diffonde piano a tutto il corpo, partendo dall’arto inferiore sinistro. Ma non è tutto: a questo si accompagna la rigidità dei muscoli che parte dalla cervicale per poi scendere alle spalle e così via. Il risultato è una specie di automa che, se riesce, si muove come uno zombie e, come se non bastasse, ogni tanto si blocca. Si blocca di fronte a dei piccoli ostacoli, alle porte, ai passaggi stretti, se incontra qualcuno che interrompe il suo cammino, costringendolo a deviare».

 DA MISS… A MISSIONE

Come spesso succede, soprattutto quando si ha a che fare con le patologie cronico-DSC_8502bndegenerative, una volta compiuto il ciclo di trattamenti fisioterapici prescritto dal medico, il paziente interrompe totalmente l’attività fisica, anche se gli vengono assegnati dei “compiti motori” da svolgere in autonomia. Come si è visto, lo svolgimento di un’attività motoria per il malato di Parkinson è fondamentale per preservare una buona qualità della vita, tanto più che i miglioramenti acquisiti sono gradualmente persi con la sospensione dell’esercizio. Se la fisioterapia è essenziale, vero è che, per sua stessa natura, viene vissuta dal malato come un intervento terapeutico, con tutte le implicazioni (anche psicologiche) che questo comporta: è difficile entrare in un ambulatorio fisioterapico pensando “che bello, ora mi muovo un po’ e mi diverto…”. Forse, se si riuscisse a sganciare l’attività motoria dal contesto sanitario, proponendola non come “percorso terapeutico”, ma introducendola nello stile di vita della persona, si potrebbero ottenere grandi risultati. Per questo Michela ha ideato un protocollo per i malati di Parkinson da svolgersi in palestra, un mix di attività studiate specificatamente per le necessità fisiche, e soprattutto psicologiche, delle persone.

- Missione Parkinson: di cosa si tratta?

È una mia iniziativa, nata dalla sintesi fra le mie conoscenze tecniche e la mia esperienza con la malattia e dalla volontà di studiare qualcosa che potesse far sentire queste persone “normali”. Io ho 51 anni e in 14 di Parkinson ho sperimentato sulla mia pelle quanto faccia bene verificare di essere in grado di stare insieme agli altri e di fare le stesse cose che fanno gli altri. Missione Parkinson è una lezione di 60 minuti strutturata su tre differenti tipologie di attività fisica (20 minuti ciascuna). Ingrediente fondamentale è la musica, che dona serenità e suggerisce il ritmo. Il disturbo principale della malattia è il bradicinesia, cioè la lentezza del movimento, oltre alla perdita di coordinazione motoria: la musica può allenare entrambi i due fattori. La prima parte della lezione è di Gravity Pilates; con questo attrezzo è possibile lavorare con tutta la muscolatura stando sempre in posizione orizzontale o inclinata, con la schiena in scarico e, soprattutto, evitando la deambulazione, che per il “Park” è l’abilità più difficile da controllare. È un attrezzo che possono utilizzare tutti, anche le persone anziane che hanno già perso la mobilità e che quindi si muovono in carrozzina. Una volta posizionati sulla macchina, riescono a svolgere tantissimi movimenti e questo li riempie di soddisfazione: anche dal punto di vista psicologico è fantastico. Ho utilizzato come base dei protocolli preesistenti, modificandoli in modo da calibrare gli esercizi e adattarli alle singole esigenze. A questo primo progetto hanno preso parte 2 gruppi di 7 persone (dai 40 agli 80 anni), seguiti da 2 insegnanti, con la collaborazione dei caregiver e di una dottoressa. Le sessioni di Gravity si svolgono in un ambiente protetto, una sala piccola, con illuminazione adeguata. La seconda parte della lezione è di fitness e si utilizzano le attrezzature standard, sia cardio che isotoniche. Le macchine isotoniche si utilizzano ovviamente in scarico, e servono più che altro per riportare le articolazioni alla mobilità fisiologica; offrono il grande vantaggio di garantire delle posizioni bloccate, dando la possibilità di lavorare in sicurezza e in autonomia. L’esecuzione degli esercizi deve essere lenta, composta da un numero di serie e ripetizioni ridotto, e pause più dilatate. L’unico problema è stato quello di modulare le mie richieste al loro entusiasmo, perché se all’inizio chiedevo di fare 3 serie da 5, loro ne facevano 3 da 10; allora ho imparato a calibrare le mie richieste tenendo conto del loro “eccesso” di volontà. Delle macchine cardio la preferita è il tapis roulant, utilizzato anche in salita con un’inclinazione fino al 5%, a velocità 1.8, che simula una passeggiata lenta; i “Park” riescono a portare bene il passo e a controllare la posizione delle spalle, perché con le mani possono attaccarsi. Il caso più grave che ha partecipato al progetto, un uomo di 80 anni sulla carrozzella, veniva piazzato di peso sulla cyclette, dopo di che lavorava in autonomia, e pedalava da solo: era un uomo felice. L’ultima parte, psicologicamente meno impegnativa, ma che richiede più concentrazione perché lavora sulla coordinazione, è la “Pdance”, una forma di ginnastica con la musica eseguita su una sedia. Sembra strano, ma in questa posizione si può fare di tutto, coinvolgendo tutti i gruppi muscolari. Quando poi i partecipanti hanno preso confidenza con il movimento e il ritmo, e seguono di più la coordinazione che non l’esercizio in sé, li faccio alzare e la sedia diventa un appoggio per eseguire slanci, passi ecc… sono anche riusciti a ballare il Rock ‘n Roll! L’ultima lezione ho osato a tal punto che li ho fatti alzare dalla sedia, sedere per terra (esecuzione per tanti di loro difficilissima) e ritornare in stazione eretta da soli, di modo che potessero imparare a rialzarsi autonomamente dopo un’eventuale caduta. I risultati sono stati di grande soddisfazione, soprattutto a livello psicologico: si sono divertiti come pazzi! Durante la PDance, che svolgevamo in una sala molto grande, anche i caregiver hanno partecipato spontaneamente alla danza, creando un coinvolgimento emotivo molto bello e molto forte.

- Momenti on e momenti off. Nel tuo libro si legge: “Durante i momenti on si può chiedere tutto, il soggetto può svolgere qualsiasi attività. Quando l’effetto dei farmaci comincia a sfumare, devono essere adeguate anche le richieste”. Come modulare farmaci e attività fisica?

I dosaggi e gli orari di somministrazione sono il punto cruciale della malattia, un percorso che dura anni e che necessita di continui aggiustamenti. Non ci sono studi ben precisi riguardo a come l’attività fisica possa interferire con l’assunzione di farmaci, però io sono abituata a monitorarmi molto e prendo nota di tutte le modifiche importanti. Recentemente ho scritto questo appunto, che riassume un po’ tutto: quando mi fermo, mi viene il Parkinson. Se mi fermo la mia terapia non funziona, perché è calibrata su di un corpo sempre in movimento, su ritmi molto serrati, anche se non stressanti: quindi l’implicazione è evidente. Quando un parkinsoniano sedentario comincia a praticare attività fisica, ha inizialmente bisogno di una maggiore copertura farmacologica; ma il movimento induce il corpo a produrre di più: si tratta solo di innescare il meccanismo. Senti, io non sono un neurologo, però ho fatto questo ragionamento:

- io non produco dopamina;

- la dopamina è prodotta dalla substanzia nigra encefalica, ma anche dalle ghiandole surrenali; è un precursore dell’adrenalina e della noradrenalina (è una sostanza intermedia nella biosintesi dell’adrenalina) e tutt’e tre sono catacolamine;

- quindi, tutto ciò che stimola la produzione di adrenalina fa aumentare la produzione di dopamina, ovvero

- siamo sicuri che il movimento va in quella direzione.

Anche l’attività fisica, di conseguenza, deve essere dosata e monitorata tanto che, quando io faccio molto movimento in più rispetto al mio standard, rimango sovra dosata. D’altra parte ho sperimentato che quando sento che sono a fine dose (i motivi che possono interferire sui dosaggi sono tantissimi e spesso imprevedibili), quando comincio a sentire il blocco (inizia una rigidità al collo, che poi scende), mentre gli altri si siedono, io inizio a muovermi, eseguendo esercizi complessi (ruota, verticale…). Non passano dieci minuti che mi passa tutto: perché mi aumenta il metabolismo! In me funziona così ed è da 10 anni che lo sto sperimentando.

- Missione Parkinson è adattabile a qualunque l’età e a qualunque stadio della malattia?

Il protocollo è per tutte le età e per tutti gli stadi della malattia, sicuramente consigliato in caso di Parkinson giovanile, anche se sono proprio loro le persone più dure a convincersi, soprattutto se manca un vissuto sportivo. Io con il Parkinson ho acquisito una sensibilità propriocettiva amplificata al massimo, perché sono sempre pronta ad ascoltare il mio corpo, e i sintomi della malattia che devo tenere sotto controllo: io scio meglio adesso rispetto a quando non ero malata!

- Alcuni studi dimostrano che l’esercizio fisico finalizzato a una specifica attività (la pratica di uno sport) è più efficace sia in termini di programmazione motoria, che per le valenze ludiche e ricreative in esso contenute: quali possibilità ci sono per un malato di Parkinson di svolgere un’attività sportiva vera e propria? Nel libro racconti della tua esperienza con il nuoto, un piacere inizialmente negato dalla rigidità effettiva del tuo corpo e, successivamente (una volta intervenuta la terapia farmacologia), dalla paura di essere colta in acqua da rigidità improvvisa. Poi lo sblocco… È un obiettivo che tutti possono raggiungere?

Certo che è possibile conciliare le attività sportive. Io sono testimonial della malattia per una casa farmaceutica e fra i testimonial (io sono l’ultima arrivata) c’è una maratoneta tedesca di 50 anni. Non è che non passi i momenti duri, anzi, quelli se vuoi sono importanti per ricordarti che ce l’hai anche tu il Parkinson, però li superi, con volontà. Ci sono tante persone sportive che hanno questa malattia e nessuno nemmeno se ne accorge! A me piacerebbe che si esponessero, così come ho fatto io, perché potrebbero essere di stimolo agli altri. Anche chi non ha un vissuto sportivo alle spalle può iniziare con il Parkinson a praticare attività sportiva, ovviamente seguita, dosata, monitorata e, soprattutto, senza pretendere performance eccessive dal proprio corpo.

- Che cos’hai in programma per il prossimo anno?

Riprenderò Missione Parkinson, per due ore un pomeriggio la settimana con gruppi molto ristretti, di 4/5 persone. Mi farò dare uno spazio nella palestra che già mi ha ospitato, il Centro Sportivo Merone, un centro privato che mi ha messo a disposizione, gratuitamente, 3 sale contemporaneamente per svolgere il mio protocollo con la collaborazione del direttore Marco Saoncella, istruttore fitness, nuoto, aquagym e Gravity. È una palestra molto bella, con una piscina 25 mt, una sala fitness attrezzatissima, due sale corsi, e propone tantissime attività e servizi, ivi inclusa la riabilitazione. Purtroppo non è un centro convenzionato con l’Asl e questo è un vero peccato, soprattutto pensando a una collaborazione protratta nel tempo. Un altro progetto che ho intenzione di realizzare è centrato sulla conoscenza della malattia, un punto veramente fondamentale, che al momento è lasciato alla libera iniziativa dell’individuo: i neurologi il Parkinson non te lo spiegano e in una malattia neurodegenerativa cronica non puoi accontentarti di quella visita neurologica ogni due mesi (se va bene) per 20 minuti, mezz’ora. Le problematiche che ruotano intorno al Parkinson sono sempre le stesse: l’accettazione della malattia, la conoscenza, il rapporto difficile con il medico e il monitoraggio. Io ho in mente un evento che ha per titolo “La scuola per pazienti professionisti”. A febbraio ci sarà un incontro a cui parteciperanno 7 neurologi, 6 pazienti e 2 psicologi per affrontare queste tematiche: per la prima volta neurologi e pazienti lavoreranno gomito a gomito, e da questo incontro ne uscirà un manuale, “Il paziente professionista”, che spero di pubblicare entro giugno dell’anno prossimo. Se la malattia è un disequilibrio, io oggi ho trovato l’equilibrio nel disequilibrio e quindi sono, di fatto, guarita. Io non mi considero una malata di Parkinson, io mi considero Michela Cancelliere, con il Parkinson.

MISS PARKINSON STORIA DI UNA DONNA CHE NON SI È MAI ARRESA, Edizioni San Paolo
Il morbo di Parkinson colpisce in Italia oltre 220.000 persone. Il malato di Parkinson si trova a dover affrontare movimenti involontari eccessivi, blocchi motori improvvisi, tremore e rigidità, difficoltà di parola, depressione e allucinazioni. Erroneamente si crede che la malattia accompagni i disturbi della vecchiaia, in realtà, in Italia 10.000 pazienti hanno meno di 45 anni e nella maggior parte dei casi la patologia insorge prima dei 60 anni. Questa è la storia di Michela, insegnante di educazione fisica superattiva, che scopre un giorno, dopo una diagnosi sbagliata, di essere affetta dal morbo di Parkinson, una malattia cronica che toglie progressivamente autonomia a chi ne è colpito. Invece di deprimersi, Michela coglie la malattia come occasione di una nuova vita nella quale ricominciare a vivere in modo diverso da prima. Un racconto in prima persona bellissimo e di grande potenza umana.
Michela Cancelliere, nata a Monza nel 1959, si è laureata all’I.S.E.F. di Milano nel 1981, e attualmente insegna educazione fisica al Liceo scientifico “Galilei” di Erba. Qui racconta la sua storia, che vuole dare un messaggio positivo e ottimista.
 
di Mia Dell’Agnello
Nelle foto: Michela Cancelliere
Pubblicato in Fitmed online 12-2010

La malattia di Parkinson. Percorsi e metodi riabilitativi

img1140633945Descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817, è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa, dopo quella di Alzheimer. Si tratta di una sindrome extrapiramidale i cui sintomi principali sono:
- rigidità muscolare;
- lentezza a iniziare ed eseguire i movimenti (acinesia e bradicinesia);
- tremore a riposo (scompare quando si compiono movimenti volontari).
Per formulare la diagnosi di malattia di Parkinson devono essere presenti almeno due di questi sintomi. Nelle fasi più avanzate della malattia possono comparire difficoltà nel mantenimento della postura eretta e dell’equilibrio, disturbi urinari, stipsi, depressione, problemi respiratori, difficoltà del linguaggio. I sintomi hanno quasi sempre un andamento fluttuante, con variazioni importanti all’interno della stessa giornata. La malattia ha un’insorgenza media a 55 anni, è più comune sopra i 60 anni, ma molti casi sono diagnosticati intorno ai 40 anni, o anche al di sotto; il tasso di incidenza aumenta notevolmente con l’età. Non potendo riconoscere una causa nota, viene indicata un’eziologia multifattoriale, in cui interagiscono componenti ambientali, occupazionali e genetiche. Alcuni studi associano la malattia di Parkinson a lesioni cerebrali, in particolare traumi accompagnati da emorragia, ma questo è un fattore eziologico non ancora definitivamente accertato. Un fattore chiave nello sviluppo del morbo di Parkinson è la mancanza di dopamina, un messaggero chimico utilizzato dalle cellule del cervello per comunicare tra di loro e, nel caso specifico del Parkinson, per regolare i movimenti volontari del corpo a livello della sostanza nera mesencefalica. Non esiste una cura per la malattia di Parkinson, ma diversi trattamenti possono controllarne i sintomi. Il primo obiettivo della terapia farmacologia è ripristinare i livelli di dopamina e ristabilire le normali funzioni dei circuiti cerebrali, calibrando il trattamento sui bisogni individuali dei soggetti.

LA RIABILITAZIONE FUNZIONALE

Si discute spesso quanto sia importante l’attività motoria per i malati di Parkinson e sono stati svolti numerosi studi per evidenziarne l’efficacia. Attualmente vi è un largo consenso sull’utilizzo della riabilitazione come supporto alla terapia farmacologia e diversi studi evidenziano i benefici della riabilitazione soprattutto rispetto alle attività della vita quotidiana e l’abilità del cammino. I risultati, sebbene singolarmente confortanti, sono difficilmente confrontabili, vista la variabilità di terapia farmacologia e di intervento motorio utilizzati; per questo, risulta ancora difficile presentare prove inconfutabili, scientificamente validate. In tutti gli studi, tuttavia, si sottolinea il fatto che la terapia fisica gode di un’enorme vantaggio: non ha effetti collaterali. La terapia fisica interviene sulle principali cause di compromissione e comprende misure per diminuire la rigidità e aumentare l’ampiezza dei movimenti (ROM), nonché per migliorare il controllo posturale, l’equilibrio, la resistenza e l’andatura. Per migliorare lo schema del passo si utilizzano esercizi di deambulazione a base allargata, superamento di ostacoli, stimoli visivi, uditivi e propriocettivi (dondolarsi per superare il freezing o fare un passo indietro prima di iniziare il cammino) per iniziare e mantenere il movimento. Uno stile di vita attivo è particolarmente importante, perché i malati di Parkinson tendono ad adattarsi alle modificazioni indotte dalla malattia riducendo la quantità e la varietà di attività fisica al di là del processo patologico (declino da disuso). Evidenze cliniche sottolineano, infine, l’efficacia dell’esercizio finalizzato a un’attività (gesto sportivo) per la programmazione motoria: la pratica di attività sportive e ludiche, inoltre, ha risvolti molto positivi dal punto di vista sociale e relazionale. Agli inizi di quest’anno è stata pubblicata sulla rivista The Cochrane Library una revisione di studi internazionali effettuati per valutare l’efficacia di trattamenti riabilitativi con tapis roulant in malati di Parkinson. Nella revisione sono stati inclusi otto studi, per un totale di 203 pazienti. I risultati confermano che la riabilitazione con l’utilizzo di tapis roulant migliora sia la velocità di marcia, che lunghezza della falcata, mentre il numero di passi al minuto (cadenza) non ha registrato variazioni consistenti. Tuttavia, i risultati devono essere interpretati con cautela perché non vi è omogeneità tra le caratteristiche dei pazienti, né tra i protocolli utilizzati. Inoltre, non si sa quanto questi miglioramenti possano mantenersi nel tempo. Al XIII Congresso Mondiale sulla Malattia di Parkinson e i Disturbi del Movimento, svoltosi a Parigi lo scorso anno, sono stati presentati i risultati di uno studio del dr. Giuseppe Frazzitta e dell’equipe del laboratorio di Diagnostica e Rieducazione Neuromuscolare dell’IRCCS Fondazione Maugeri di Montescano (PV). Il lavoro riassume nel titolo i termini dell’indagine: “Il trattamento riabilitativo della deambulazione nei pazienti con Malattia di Parkinson e freezing della marcia: confronto fra due protocolli riabilitativi che utilizzano cues visivi e uditivi associati o meno a treadmill training”. Gli studi compiuti finora avevano avvalorato percorsi rieducativi o con l’ausilio di stimoli visivi, o con l’utilizzo del treadmill, ma sempre utilizzati separatamente. In questo lavoro, sono stati confrontati due gruppi di 20 pazienti affetti da malattia di Parkinson di età media 71 anni: il primo è stato sottoposto a trattamento riabilitativo “classico” (camminare su un percorso definito da linee orizzontali accompagnati da uno stimolo audio per scandire il ritmo del cammino); il secondo è stato sottoposto a un protocollo sperimentale con locomotor training (20 minuti al giorno per 4 settimane, a velocità di scorrimento progressivamente crescente). Il locomotor training è un tapis roulant completato da uno stimolo acustico (che suggerisce il ritmo di marcia) e da un display, su cui è visualizzato un obiettivo da raggiungere e la forma dei piedi in marcia. Quando, durante la marcia, l’immagine del piede si sovrappone correttamente alla forma- obiettivo, appare sullo schermo un feedback positivo; in caso contrario, il paziente viene invitato a modificare l’andatura. Sono stati valutati diversi parametri e i riscontri più importanti dal punto di vista clinico si sono visti nel test che misura quanti metri compie un soggetto in 6 minuti. I pazienti del gruppo che ha utilizzato il locomotor, al termine del trattamento, percorrevano in 6 minuti 351 metri, all’incirca la stessa distanza che percorre un soggetto sano della stessa età; in media 130 metri in più rispetto ai risultati ottenuti prima del trattamento. Il miglioramento del primo gruppo (trattamento tradizionale) è stato di soli 57 metri in più. Dai dati preliminari del follow up, si evince che l’efficacia della riabilitazione con locomotor training si protrae per un periodo di circa 10 mesi. Inoltre, a un anno dall’inizio dell’esperimento, la malattia non è progredita.

DANZATERAPIA: IL TANGO ARGENTINOLUMINATO: Toronto Festival of Arts & Creativity 2008

All’ultimo Congresso Internazionale della malattia di Parkinson e Disturbi del Movimento è stato presentato uno studio, condotto da Giovanni Albani (Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione presso l’Università di Torino e Istituto Auxologico Italiano) e colleghi, sull’utilizzo del Tango Argentino come strumento riabilitativo nella malattia di Parkinson. 10 pazienti con i rispettivi partner hanno preso lezioni di tango di un’ora per due volte la settimana e, con l’ausilio di un DVD appositamente creato, si sono allenati a casa, un’ora al giorno 5 giorni alla settimana. «Il DVD include una serie di movimenti di danza tango ritenuti utili per i pazienti, selezionati da un comitato scientifico di neurologi, maestri di tango, pazienti, bioingegneri, fisioterapisti, psicologi», ha spiegato il dottor Albani. Lo studio è stato condotto su pazienti a uno stadio medio della malattia, quando il tronco comincia a flettersi in avanti, con l’avvio di perdita di riflessi posturali; in conseguenza di ciò, aumentano gli episodi di caduta, con rischio di fratture e immobilizzazioni poi faticosamente recuperabili. Dopo 5 settimane di tango, sono state eseguite le misurazioni delle diverse funzionalità utilizzando la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale (UPDRS). Gli effetti positivi rilevati hanno riguardato soprattutto gli aspetti meno sensibili alla terapia dopaminergica o neurochirurgia: il discorso, la postura e l’andatura, con un significativo miglioramento della cadenza del ciclo del passo e una riduzione della postura flessa di anca e pelvi. Perché proprio il tango argentino? A spiegarlo sono i due maestri, Monica e Giorgio Proserpio, nell’introduzione al DVD: «Il tango argentino è una danza particolare. È una danza di coppia, ad abbraccio chiuso, che consente una libertà creativa praticamente illimitata. A differenza di altre danze, che contano un determinato numero di figure standard, il tango argentino è invece un colloquio fra i due partner, una comunicazione continua delle varianti che l’uomo propone alla donna… Il lavoro che richiede questo ballo si può definire estremamente “mentale” a significare come i ballerini debbano stabilire una forte connessione fra la volontà di fare il movimento ed il corpo che deve eseguirlo. Di conseguenza la concentrazione deve raggiungere livelli altissimi, perché il ballerino e la partner possano l’uno comunicare, l’altra recepire i movimenti che si desiderano eseguire. Questa particolarità rende adatto il tango a un uso sperimentale in malattie motorie, come il Parkinson, che richiedono il recupero di automatismi motori perduti. Paradossalmente, infatti, la mancanza di schematicità di questa danza così libera impone, di base, una rigorosa istintività motoria, indispensabile per riuscire a innestare sopra di essa, le varianti continue attraverso le quali si sviluppa questo dialogo della coppia. Non dobbiamo neppure dimenticare… la relazione della coppia e delle coppie con le quali si condivide un’esperienza e una passione, accompagnati da una musica coinvolgente; elementi stimolanti da un punto di vista relazionale ed emotivo, che sicuramente non possono essere dimenticati nell’ottica della ricerca di un beneficio sì motorio, ma anche, non meno importante, psicologico».

DANZATERAPIA: DANCE FOR PD

Il Mark Morris Dance Group è una compagnia di danza moderna di fama internazionale che, da più di nove anni, propone corsi di danza per le persone con Parkinson e i loro caregivers. L’idea che questi malati, con le loro difficoltà a compiere anche i gesti più semplici, possano trarre giovamento da una disciplina così impegnativa dal punto di vista motorio, può sembrare un paradosso. Eppure, David Leventhal, ballerino del Mark Morris e direttore del Dance for PD (Programma di danza per il malattie neurodegenerative e attività fisica), non la pensa così. Al contrario, le persone con malattia di Parkinson – sostiene – hanno molto in comune con i ballerini, perché devono costantemente imparare a muoversi. Per questo il coinvolgimento cognitivo di un ballerino malato di Parkinson è lo stesso di un ballerino professionista. Una delle più grandi sfide per i pazienti di Parkinson è di cominciare volontariamente il movimento: è la decisione di muoversi che è la più compromessa, e non è la capacità di eseguire effettivamente l’azione. Per esempio, il paziente di Parkinson può essere in grado di prendere una palla se gli viene lanciata contro all’improvviso, ma non è in grado di decidere di lanciare la palla. L’idea è che la danza assume i movimenti volontari, così difficili per le persone con il Parkinson, e li trasforma in movimenti più istintivi. Movimenti in reazione a una familiare melodia al pianoforte, per esempio, o movimenti di mirroring del maestro, o i movimenti memorizzati di una routine coreografica. Nella danza, gran parte dell’impegno è finalizzato al far apparire naturale e facile ciò che invece è estremamente difficile. I ballerini professionisti, dal canto loro, possono essere ottimi insegnanti, perché per imparare complicate sequenze di movimenti, utilizzano metodi e strategie cognitive sviluppati in centinaia di anni. E, nonostante lo sforzo, conoscono molto bene il piacere del movimento. Ecco, riassunti dall’associazione in punti, i motivi per cui la danza è vantaggiosa per le persone con malattia di Parkinson:

- La danza sviluppa la flessibilità e infonde fiducia;

- è prima di tutto un’attività stimolante, che collega la mente al corpo;

- la danza rompe l’isolamento;

- utilizza movimenti graziosi per richiamare immagini;

- la danza concentra l’attenzione sugli occhi, sulle orecchie e sul tatto, come strumenti per assistere il movimento e l’equilibrio;

- aumenta la consapevolezza di essere un’unità in cui tutte le parti del corpo sono nello spazio;

- la danza racconta storie e stimola scintille di creatività;

- la base della danza è ritmo; l’essenza della danza è la gioia.

I corsi si svolgono un giorno alla settimana, per 75 minuti, con un andamento simile alle sessioni di danza tradizionali. Gli insegnanti spesso rubano pezzi e bocconi dalle danze che loro stessi eseguono e li modificano per questa classe di ballerini “speciali”, con l’intento di farli lavorare sui problemi specifici, come il freezing, o la difficoltà di compiere due movimenti contemporaneamente. L’idea è quella di rafforzare quelle vie di contatto del cervello, oppure di crearne di nuove, utilizzando modalità di accesso diverse; è lo stesso fenomeno che si verifica nelle persone che soffrono di balbuzie: quando cantano, smettono di balbettare. Ivan Bodis Wollner, direttore del National Parkinson Foundation di Brooklyn, volendo attribuire una validità scientifica alla danza terapia, fa riferimento alla plasticità del cervello e alla possibilità, con i giusti stimoli, di creare nuovi percorsi neurali. Bodis Wollner ritiene che la danza può contribuire a sviluppare questa capacità, e che il lavoro del Mark Morris Dance Group rappresenta un esperimento importante; per questo motivo è da poco partito un progetto di ricerca per valutare i benefici della danza per il Parkinson, tramite uno studio randomizzato. Attualmente la “Dance for PD”, attraverso una rete di partner e collaboratori, è praticata in oltre 40 comunità in tutto il mondo

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Fitmed online 12-2010