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Art4Sport

Art4Sport by Ram FamilyI bambini che hanno subito amputazioni, o che sono nati senza uno o più arti, hanno gli stessi sogni e gli stessi desideri di tutti gli altri bambini. La moderna tecnologia permette di sostituire gli arti mancanti con protesi tecnicamente funzionali ed esteticamente accettabili, anche se ancora molto pesanti e scomode da utilizzare, in particolare per l’arto inferiore, poiché fanno gravare tutto il peso del corpo sui monconi, creando così molti dolori e difficoltà di sopportazione. Per ridurre al minimo questi problemi le protesi devono avere un adattamento perfetto sul moncone e qualsiasi variazione della struttura e del peso del corpo richiede una modifica o una sostituzione. In particolare i bambini, essendo in fase di crescita, devono sostituire le protesi circa 2 volte l’anno. Uno dei migliori sistemi per mantenere una favorevole condizione fisica per il bambino protesizzato è, come per tutti i bambini, quello di praticare attività sportive. Lo sport è fondamentale per la crescita e lo sviluppo non solo dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista psicologico, perché dà enormi motivazioni e soddisfazioni. Sfortunatamente, per i bambini con amputazioni ciò non è facilmente realizzabile e le cause sono soprattutto di carattere economico, ma riguardano anche la mancanza di impianti adeguati e le difficoltà che le singole società sportive riscontrano per procurarsi le attrezzature adatte. Le protesi per le attività sportive non sono sovvenzionate dal sistema sanitario nazionale e anche le federazioni sportive non sono generalmente in grado di accollarsi questi importanti esborsi. Per esempio, un paio di lame da corsa ad alto impatto (tipo quelle di Oscar Pistorius) possono arrivare a costare fino a 50.000 euro. Nel caso di un atleta adulto hanno una durata di 4-5 anni, ma per un bambino la struttura base dura al massimo un paio di anni, mentre gli invasi per i monconi devono essere sostituiti a intervalli di pochi mesi, in dipendenza della crescita individuale del giovane sportivo. Art4Sport è un’associazione no-profit creata da chi crede fermamente nella terapia dello sport per i bambini con amputazioni. Principalmente, si prefigge i seguenti scopi: raccogliere fondi per progetti di ricerca, sviluppo e realizzazione di protesi per attività sportive per bambini e ragazzi; creare un database nazionale di istruttori specializzati per bambini con amputazioni; creare un network globale di organizzazioni che possa essere un valido riferimento per tutti.

Per info: www.art4sport.org

di Mia Dell’Agnello
pubblicato su Professione Fitness 4/2009

Visite e certificati: obblighi, novità e proposte

doctor“Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…” (D.M. 13/09/2012, art. 7 comma 11). Il decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. Che differenza c’è fra la pratica agonistica e quella non agonistica? Che cosa è cambiato negli ultimi 30 anni e che cosa dovrebbe cambiare? Breve viaggio nella vecchia e nuova normativa alla ricerca di soluzioni di buon senso, che guardino non solo l’interesse dei medici o delle strutture che richiedono i certificati, ma soprattutto l’interesse degli utenti.

 Il nuovo decreto messo a punto dal ministro della salute Renato Balduzzi ha riacceso i fari sulla questione delle visite di idoneità medico-sportiva, riaprendo vecchi dibattiti e fornendo nuovi argomenti di discussione. La bozza del decreto, presentata alla fine di agosto 2012 e successivamente modificata, prevedeva che i certificati di idoneità, sia per l’attività agonistica che per la non agonistica, fossero rilasciati unicamente dai medici dello sport. L’intento doveva essere quello di porre una maggior responsabilità su un atto che molto spesso è vissuto, dai medici di base e dai pediatri, come una pura formalità. Il “certificato di buona salute”, così si definisce quello che attesta l’idoneità per le attività non agonistiche, non prevede indagini strumentali, ma neanche uno standard esecutivo per la visita clinica, svolta il più delle volte con superficialità, quando non del tutto assente, a fronte del rilascio di un documento il cui valore è esclusivamente burocratico. Il certificato medico è il foglio che serve per iscriversi a un corso, per svolgere un’attività tutelati da una copertura assicurativa. Davanti alla proposta di Balduzzi, la federazione dei medici di base e alcuni enti di promozione sportiva, sono insorti, dichiarando che in questo modo ci sarebbe stato un aggravio di spesa per i cittadini. Così Balduzzi fa marcia indietro, e nel decreto legge, pubblicato il 13 settembre, art. 7 (Disposizioni in materia di vendita di prodotti del tabacco, misure di prevenzione per contrastare la ludopatia e per l’attività sportiva non agonistica) comma 11: “Al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale il Ministro della salute, con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministro delegato al turismo e allo sport, dispone garanzie sanitarie mediante l’obbligo di idonea certificazione medica, nonché linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari sui praticanti…”. Mentre attendiamo che siano rese note le “linee guida per l’effettuazione di controlli sanitari”, possiamo evidenziare che il decreto Balduzzi colma il vuoto legislativo che il precedente decreto (già citato D.M. 28/2/1983) aveva lasciato. Lì infatti si legge che il controllo sanitario per la pratica di attività sportiva non agonistica è obbligatorio solo per coloro che svolgono attività organizzate dal CONI, da società o associazioni affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali o agli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI; escludendo di fatto tutti i praticanti in strutture private non affiliate (centri fitness ecc.). La questione non era da poco, essendoci di mezzo anche problemi di responsabilità e assicurazioni. E infatti negli anni le interpretazioni si sono sprecate, dovendosi confrontare anche con normative regionali diverse fra loro.

ATTIVITÀ SPORTIVA AGONISTICA
Nel D.M. 18 febbraio 1982 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica” nell’art. 1. si legge che “La qualificazione agonistica a chi svolge attività sportiva è demandata alle federazioni sportive nazionali; o agli enti sportivi riconosciuti”. Di fatto, le singole federazioni utilizzano un criterio anagrafico: la differenza fra sport agonistico e non agonistico è dettata dall’età del soggetto rispetto allo sport praticato. La definizione non ha niente a che fare con i livelli di intensità o di competitività espressi. Come esempio riportiamo gli anni di ingresso per alcune attività:
8 anni – pattinaggio su ghiaccio, ginnastica, scherma, nuoto;
9 anni – baseball, canottaggio, sci;
10 anni – pentathlon, tennis;
12 anni – atletica leggera, calcio, judo e arti marziali, rugby, pallacanestro, pallavolo.
La visita per l’idoneità alla pratica di uno sport agonistico include indagini strumentali e può essere effettuata solo da specialisti in Medicina dello sport all’interno di strutture accreditate in specifici albi regionali. L’indagine viene svolta tramite esami clinici e strumentali:
- visita medica completa e anamnesi;
- spirometria, con determinazione della capacità polmonare statica e dinamica e della massima ventilazione volontaria;
- elettrocardiogramma a riposo;
- elettrocardiogramma sotto sforzo, indotto dallo “step test”, eseguito per 3 minuti su un gradino di altezza variabile a un ritmo stabilito (per 120 movimenti al minuto) con calcolo dell’IRI (indice di recupero);
- esame delle urine completo;
- acuità visiva.
Per alcune discipline sono poi previste ulteriori indagini specialistiche (per esempio pugilato, sci alpino, attività subacquee). Ogni certificato è specifico per uno e un solo sport. Il costo nelle strutture pubbliche è fisso a tariffa regionale, considerata la quota minima applicabile nelle strutture private. Per esempio in Lombardia gli atleti minori di 18 anni tesserati a una federazione o a un ente di promozione sportiva hanno diritto alla visita gratuita, se richiesta da una società sportiva. Per tutti gli altri le cifre sono variabili, mantenendosi in una media di 50/60 euro per uno screening completo. Al termine della visita viene rilasciato un certificato di idoneità, inidoneità (assoluta o temporanea) o sospensione (per ulteriori accertamenti).

ATTIVITÀ SPORTIVA NON AGONISTICA
La visita per l’idoneità alla pratica di sport non agonistico è di prassi svolta dal medico di base e dal pediatra, è generica e valida per tutte le attività sportive non agonistiche. Non tutti sanno che ci si può recare anche nei centri di medicina dello sport, dove si avrà lo stesso “trattamento” riservato agli atleti agonisti (esami clinici e strumentali di cui sopra per un costo medio di 50/60 euro). Anche il certificato rilasciato dal medico di base e dal pediatra è a pagamento e il costo medio varia fra i 40 e i 50 euro. Ricordiamo che il Decreto Bersani del 2006 ha abolito le tariffe minime degli ordini; tuttavia i medici si attengono, generalmente, a quelle suggerite per “deontologia professionale” dagli ordini stessi, che hanno pubblicato dei tariffari di riferimento. Come già detto, in questo caso è prevista solo una visita clinica e non esistono linee guida a cui attenersi, partendo dal presupposto che il medico conosca il proprio paziente e le eventuali patologie di cui è portatore che possono limitare la pratica sportiva. Ma non sempre è così. La visita sarebbe molto utile anche per evidenziare possibili alterazioni strutturali, soprattutto nel periodo di accrescimento, individuando atteggiamenti posturali scorretti o alterazioni della schiena, ginocchio e piede. Quanti sono i pediatri che di routine eseguono queste verifiche? Inoltre, in base alla morfologia e a eventuali alterazioni rilevate, il pediatra potrebbe indirizzare il proprio paziente alla pratica di uno sport piuttosto che un altro o fornire direttamente consigli alimentari e per migliorare lo stile di vita. Veniamo quindi al concetto più importante: il senso del certificato medico.

NON SOLO PREVENZIONE
Il senso della visita di idoneità alla pratica sportiva (sia agonistica che non) è prima di tutto preventivo: evidenziare eventuali anomalie che possano controindicare, anche solo temporaneamente, l’attività sportiva. Tuttavia, questa chiave di lettura ci sembra oggi riduttiva. Se fino a qualche anno fa la tendenza era quella di escludere dalla pratica di un’attività fisica la popolazione che non veniva riscontrata “sana”, ora c’è piuttosto la tendenza a includere, anzi caldeggiare, quando non addirittura prescrivere l’attività motoria anche e soprattutto alle persone fragili dal punto di vista della salute, portatori di fattori di rischio anche elevati per la diagnosi della sindrome metabolica. A dire il vero, facendo un’ampia panoramica sulla letteratura scientifica internazionale, possiamo tranquillamente affermare che sono ormai pochissime le patologie in cui si vieta un’attività motoria. Questa buona pratica rende tuttavia necessario un maggior controllo che non deve tradursi in eccessivo monitoraggio strumentale, quanto piuttosto in maggiore cura nell’indagine clinica. Se il movimento è anche terapia, il certificato dovrebbe anche indirizzare la scelta della pratica motoria, fornendo indicazioni rispetto al “cosa, come, quando, per quanto tempo”. Ovviamente la questione interessa proprio le attività non agonistiche, in questo momento affidate alla buona volontà di medici di base e pediatri. Spostare integralmente questa responsabilità sui medici dello sport, così come prevedeva la bozza del decreto Balduzzi poi modificata, sicuramente non rappresenterebbe un aggravio economico per gli utenti (come abbiamo visto, il costo di un certificato rilasciato da un medico di base o pediatra e da un centro di medicina dello sport sono rapportabili), ma probabilmente non risolverebbe il problema, venendo a mancare quella fondamentale conoscenza del paziente di cui può giovare il medico di base. Tuttavia, il certificato di buona salute per lo svolgimento di attività non agonistiche non può rappresentare solo una conferma scritta della situazione sanitaria generale del soggetto (che dovrebbe essere già a conoscenza del medico o del pediatra), ma deve scaturire da indagini più approfondite, quanto meno mirate all’individuazione dei fattori di rischio più direttamente in causa negli incidenti legati all’attività fisico-sportiva. Sarà poi lo stesso medico di base, che conosce i propri pazienti, a prescrivere la visita di un medico dello sport là dove riterrà importante approfondire gli accertamenti con esami di laboratorio o visite specialistiche per la “prescrizione di terapia fisica”. In questo caso la documentazione redatta risulterà fondamentale per l’impostazione del lavoro da parte dell’istruttore sportivo. Invece di battagliare per il mantenimento di 50 euro di privilegio, forse varrebbe la pena mettersi a tavolino e discutere di questo, che poi è la salute delle persone, con beneplacito di Ippocrate.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Fitmed online 10/2012

Visita medico sportiva: valore epidemiologico e preventivo

doctor 2Un tempo c’era il medico scolastico, cui spettavano screening di routine sulla popolazione in via di accrescimento, volti alla prevenzione e alla promozione della salute. Ma c’era anche la visita di leva, il cui valore epidemiologico e preventivo non è mai stato sostituito. Questi “filtri sanitari” importanti sono venuti a mancare, ma la visita medico-sportiva può essere l’occasione per operare uno screening sanitario sulla popolazione e per ottenere dati epidemiologici fondamentali. L’Italia nel mondo è considerata all’avanguardia nel campo della medicina dello sport, intesa soprattutto come medicina di prevenzione volta alla tutela della salute della popolazione. Quali sono le più diffuse cause di inidoneità alla pratica dello sport agonistico? In assenza di screening strumentale, quali sono i parametri più importanti da considerare in una visita di idoneità, in modo da individuare le situazioni più critiche da rimandare a ulteriori approfondimenti e orientare il soggetto alla pratica delle attività più adatte alle eventuali patologie limitanti?

Nella Regione Piemonte è stato condotto uno studio sui risultati delle visite medico sportive agonistiche svolte negli anni 1997-2006, per identificare le cause di inidoneità alla pratica dello sport agonistico (Analisi descrittiva delle non idoneità alla pratica dello sport agonistico in Piemonte: dieci anni di certificazioni M. Gottin, G. P. Ganzit, M. Ottino). Nel decennio considerato ci sono state 2.422 segnalazioni di non idoneità, su circa 130.000 visite annue effettuate. Il calcio, con 522 casi pari al 21,6% del totale, è risultato lo sport con il maggior numero di non idonei, percentuale in realtà legata al maggior numero di praticanti questa disciplina sportiva. Risulta invece con evidenza l’alta percentuale di non idonei a sport di notevole impegno fisico come il ciclismo, classificatosi al secondo posto con 355 atleti (14,69%). In rapporto al tipo di sport bisogna anche rilevare che negli sport individuali a elevato impegno cardiovascolare o ad alto rischio intrinseco (ciclismo, atletica corsa, tennis, sci alpino e nuoto subacqueo) la percentuale di non idonei relativa è risultata maggiore rispetto agli sport di squadra; questo perché sono sport che si praticano anche in età avanzata. L’incidenza di non idoneità è maggiore nella fascia di età inferiore a 11 anni rispetto alla fascia successiva (11-15 anni), ma poi aumenta proporzionalmente all’età. La lettura di questi dati conferma l’importanza della visita all’inizio dell’attività agonistica, per evitare carichi di lavoro intensi su strutture fisiche ancora non adeguate. La maggior parte dei giudizi di non idoneità all’attività sportiva agonistica riporta come causa una patologia cardiocircolatoria: si tratta del 76,5%, dato in accordo con quasi tutte le casistiche riportate in letteratura. Al secondo posto troviamo le patologie dell’apparato urinario (6,6%), seguite da quelle neurologiche (4,2%), ortopediche (3,9%), endocrino metaboliche (2,3%). La suddivisione delle patologie cardiocircolatorie permette di evidenziare come le patologie più comuni siano le aritmie e l’ipertensione arteriosa. L’evidente coinvolgimento dell’apparato cardiocircolatorio nella prestazione sportiva sottolinea ancora una volta l’importanza di un accurato controllo anamnestico, clinico e strumentale. Considerato poi che l’attività fisica è anche un mezzo terapeutico utile per migliorare la qualità di vita del cardiopatico, è compito del medico dello sport dosare l’attività in base alle esigenze del singolo soggetto.

LA MORTE IMPROVVISA NELLO SPORT
La conseguenza più temibile della presenza di una patologia cardiovascolare è la morte cardiaca improvvisa (Sudden Cardiac Death), un evento che, quando colpisce atleti di alto livello, produce un forte impatto emotivo e riceve grande attenzione da parte dei media. In molti paesi si discute se, con uno screening più approfondito, questo genere di accidenti possa essere evitato. In uno studio del 2007 pubblicato sul Netherlands Heart Journal, l’incidenza di SCD è stimata tra 0,5 e 2,0 casi per 100.000 per anno. La maggior parte dei decessi negli atleti con più di 35 anni è causata da malattia coronarica, mentre in atleti più giovani è legata a cardiomiopatia ipertrofica, cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, miocardite, anomalie congenite delle arterie coronarie, sindromi aritmia primaria, con variabili di incidenza da paese a paese. La tipologia di visita medica per attività agonistica effettuata in Italia è riconosciuta fra le eccellenze. Nel 1982, prima dell’approvazione della legge di riferimento, l’incidenza di morte cardiaca improvvisa in Italia è stata di 4,2 per 100.000 atleti; nel 2004, si è drasticamente ridotta a 0,9/100.000. Tuttavia, secondo gli autori, i risultati di questo studio di coorte non sono una prova sufficiente a giustificare l’estensione di questo screening agli atleti di tutto il mondo. L’attuazione di un programma di screening sulla popolazione sana deve rispettare criteri epidemiologici e di efficacia e deve rispondere a valutazioni economiche che in questo caso non sono sufficienti, considerata la bassa incidenza di morte cardiaca improvvisa negli atleti. Inoltre, non si sa se l’esclusione dalla competizione sportiva abbia salvato la vita o preservato la salute di quel 2% di atleti trovati inidonei: non vi è alcuna prova scientifica che l’esclusione da competizioni sportive sia sufficiente a modificare la storia naturale delle anomalie cardiache e impedisca davvero SCD negli atleti. Forse, concludono gli autori nello studio, il modo migliore per prevenire la SCD è educare gli atleti a riconoscere e trattare eventuali sintomi di allarme durante l’esercizio fisico: dispnea e stanchezza inspiegabile, perdite di conoscenza anche lievi, vertigini, palpitazioni e dolore al petto.

I PARAMETRI PIÙ IMPORTANTI
Dal momento che queste patologie sono individuabili solo attraverso uno screening strumentale che non è sostenibile applicare a tutta la popolazione dedita all’attività fisico-sportiva, può essere proponibile uno schema orientativo, che permetta di individuare le situazioni più critiche da rimandare a ulteriori approfondimenti e orientare il soggetto alla pratica delle attività più adatte alle eventuali patologie limitanti. In uno studio statunitense l’analisi statistica delle cause di non idoneità alla pratica sportiva in soggetti di età compresa fra gli 11 e i 18 anni ha portato a identificare i parametri più importanti per condurre la visita di idoneità. In particolare sono emerse sette variabili.
1. Capogiri in corso di esercizio fisico: può essere sintomo di una cardiomiopatia ipertrofica, o aritmia o anomalie coronariche.
2. Storia di asma: è la maggior causa di limitazioni alla pratica sportiva o di controlli ulteriori, anche se l’asma da sforzo in genere non è causa di esclusione dalle attività sportive (negli atleti agonisti si stima una prevalenza di asma da sforzo del 10-15%).
3. Indice di Massa Corporea (IMC): il rapporto fra il peso corporeo in chili e il quadrato della statura espressa in metri costituisce l’indice più utilizzato per valutare l’adiposità del soggetto, anche se variazioni della composizione corporea devono essere tenute in debito conto.
4. Valori elevati di Pressione Arteriosa Sistolica (PAS): un PAS elevata, isolata e persistente nel bambino è un reperto anormale. Non esistono evidenze che le attività aerobiche siano rischiose per i bambini ipertesi, al contrario si tende a considerare che l’attività fisica sia di beneficio, quindi in genere si raccomanda di limitare la partecipazione sportiva solo di quei soggetti affetti da ipertensione grave (con valori di PA sistolica e/o diastolica uguale o superiore al 99° percentile per età e sesso) e che non abbiano ottenuto risposte adeguate alla terapia. In genere, salvo queste rare situazioni si ritiene che i bambini affetti da ipertensione possano praticare un’attività di tipo aerobico.
5. Capacità visiva: la maggior parte degli Autori concorda sulla necessità di una funzione visiva almeno grossolanamente conservata quale garanzia di sicurezza, soprattutto negli sport di collisione o di contatto (l’acuità visiva dovrebbe essere corretta ad almeno 4/10).
6. Soffio cardiaco: un soffio innocente o funzionale è comune in età pediatrica. È importante differenziarlo da soffi connessi a patologie potenzialmente fatali, quali, in particolare, la cardiomiopatia ipertrofica.
7. Esame dell’apparato muscoloscheletrico: è la parte di visita che, nelle casistiche statunitensi, rivela la maggior parte delle cause di inidoneità allo sport. In genere si suggerisce di focalizzare l’attenzione alle aree affette in precedenza da lesioni o traumi e di completare la visita con un esame obiettivo più approfondito di ginocchia e caviglie. Spesso un’anamnesi positiva per traumatismi muscoloscheletrici è motivo di limitazione alla pratica sportiva.

Di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 10/2012

Campagna anti-obesità = campagna anti-fumo?

campagna

FUMO E OBESITÀ: QUALI ANALOGIE
Responsabilità collettiva

«Guardando ciò che sta succedendo con l’obesità, non posso che ricordare quello che successe con il tabacco negli anni ’50, ’60 e ’70, quando si dava molta enfasi alla responsabilità personale e all’autoregolamentazione», sono parole di Stanton Glantz, direttore del Center for Tobacco Control Research ed Education presso l’Università di California, San Francisco. Quell’approccio, ricorda Glantz, non ha funzionato, e gli sforzi per ridurre il numero di fumatori non hanno avuto molto successo finché gli attori delle campagne non hanno spostato l’accento dalla responsabilità individuale alla comunità, cominciando a ritenere i produttori di sigarette direttamente responsabili. Molti esperti credono che un cambiamento simile sia necessario oggi nella lotta contro l’obesità in America. L’obesità non deve essere affrontata come una questione personale, ma è necessario ridefinirla come una sfida dell’intera comunità, che richiede un’azione collettiva e cambiamenti di vasta portata politica e sociale: dalle etichette informative sugli alimenti, ai limiti di commercializzazione per i bambini, alle imposte sui prodotti non salutari. Ma ci sono molti ostacoli, perché la dimensione del problema è molto più vasta rispetto al tabacco e riguarda tutti, nessuno escluso: riguarda il cibo che mangiamo, le bevande che beviamo, la televisione che guardiamo, le attività sedentarie che pratichiamo, le attività sportive che non pratichiamo, il modo in cui sono state progettate le nostre città e altro ancora. A livello politico sono state fatte diverse proposte di cambiamento, ma non si è ancora concretizzata la volontà di attuarle, anche perché, sostiene William Dietz (direttore della divisione di nutrizione, attività fisica e obesità presso il Centro statunitense per il Controllo delle Malattie e la Prevenzione) «la gente non percepisce ancora una minaccia significativa personale».

I bambini al centro
La stragrande maggioranza dei fumatori prende l’abitudine da adolescente; secondo la Campagna Tobacco-Free Kids, un terzo dei ragazzi fumatori morirà prematuramente per malattie legate al tabacco. L’impatto dell’obesità sulla salute è simile. Bambini gravemente sovrappeso sono a maggior rischio di sviluppare una moltitudine di problemi di salute: diabete, malattie del fegato, malattie cardiache, problemi articolari, asma. La letteratura scientifica ha inoltre dimostrato che un bambino sovrappeso avrà più probabilità di diventare un adulto obeso: per questo la prevenzione è un obiettivo centrale di entrambe le campagne, anti-tabacco e anti-obesità. David Ludwig, esperto di obesità infantile presso la Harvard Medical School, sostiene che il primo passo da fare è preservare la salute dei propri figli, limitando nella loro dieta quei cibi e bevande eccessivamente calorici che i ragazzi consumano in abbondanza e che minano la loro salute, tracciando errati percorsi biologici per la regolazione dell’appetito e del peso corporeo.

Cambiare le norme sociali
Il divieto di fumare nei luoghi pubblici ha fortemente contribuito alla riduzione del numero di fumatori. Lo stesso cambiamento nelle norme sociali è chiesto – e raggiungibile – quando si tratta di obesità infantile: «I nostri gusti in materia di alimentazione e attività motorie, le nostre preferenze, i nostri comportamenti sono appresi e possono essere modificati», ha dichiarato David Katz, direttore del Yale University Prevention Research Centre. Non sarà facile e non sarà veloce, ma «abbiamo a che fare con una popolazione che vorrebbe essere più magra e, in questo, opera in nostro favore».

FUMO E OBESITÀ: QUALI DIFFERENZE
Non possiamo limitarci a dire di no al cibo. Il tabacco può essere definitivamente eliminato dalle nostre abitudini: non ne abbiamo bisogno. Lo stesso non può dirsi per il cibo e questo rende la lotta contro l’obesità un problema molto più complicato. Il messaggio per i bambini e per le loro famiglie non può essere «fermo! non farlo!», ma deve essere «fai le scelte giuste, usa la moderazione», un messaggio che è molto più difficile da trasmettere. Inoltre, mentre fumare crea un’elevata dipendenza, le risposte biologiche collegate al mangiare sono ancora più profondamente radicate, avendo a che fare con l’evoluzione della specie: gli esseri umani vivevano in un ambiente dove il cibo era scarso e difficile da ottenere; per questo si sono biologicamente specializzati a immagazzinare calorie e a custodirle, una volta assunte. Per questo motivo Stephen Daniels, presidente del dipartimento di Pediatria presso l’University of Colorado School of Medicine, sostiene che, in un certo senso, si potrebbe dire che, nel caso di persone sovrappeso e obese, la nostra biologia è il nostro peggior nemico.

La varietà di prodotti è maggiore
Il tabacco è una sostanza unica, con un insieme circoscritto e ben definito di aziende che producono sigarette e prodotti correlati. Al contrario, l’industria alimentare è enorme, con una vasta gamma di prodotti offerti praticamente ovunque: casa, ristorante, negozi, distributori automatici… Questo rende la lotta contro l’obesità molto più difficile della lotta contro il tabacco.

Non esiste il danno da “cibo passivo”
L’opinione pubblica si è molto allarmata quando ha appreso che anche il fumo passivo era pericoloso, e questo è stato di fondamentale importanza per accelerare l’intolleranza delle persone al fumo e la loro volontà di vedere il governo agire. Non esiste un equivalente nella lotta contro l’obesità: l’essere obeso è solo un problema altrui. Il miglior argomento per coinvolgere la collettività potrebbe essere che l’obesità consuma enormi risorse sanitarie, spingendo al rialzo il costo delle cure mediche per tutti. Secondo molti, tuttavia, si tratta di un concetto troppo astratto, che non scatenerà mai lo stesso senso di indignazione e coinvolgimento personale.

Il ruolo dell’industria è meno chiaro
Nella lotta anti-fumo è stato facile dipingere le aziende del tabacco come il nemico disposto a mentire e manipolare l’opinione pubblica americana per il bene dei profitti. Rispetto all’industria alimentare, il rapporto è molto più sfumato: non è possibile demonizzare, ma è necessario lavorare in cooperazione con l’industria per aiutare il cambiamento dei gusti e delle abitudini dei consumatori.

CONCLUSIONI
L’argomento è chiaramente ancora aperto e siamo ben lungi da una soluzione, ma questo articolo ci sembra molto interessante perché, mai come ora, lo scenario si apre ad ambiti operativi molto più vasti. Finalmente la lotta all’obesità esce dagli stretti confini della medicina e della farmacologia per entrare, è il caso di dire ‘pesantemente’, in uno spazio giurisdizionale ben più vasto che coinvolge l’educazione, l’urbanistica, la produzione industriale, il mondo del lavoro come quello della scuola. Il richiamo a un cambiamento culturale e sociale forte in cui tutti siamo coinvolti, ognuno per la sua parte, nessuno escluso.

di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato in Fitmed online 6/2012

Il cancro e lo sport professionistico

 

IL SOSPETTO DEL DOPING
Lo sport fa bene, tanto per la prevenzione quanto per la rieducazione da malattie oncologiche, ma la popolazione degli sportivi agonisti non è esclusa da tale patologia, anzi, parrebbe che alcune categorie siano particolarmente a rischio. Non esistono studi ufficiali sulle pubblicazioni scientifiche, ma molti sono coloro che, a vario titolo, hanno affrontato la questione. Fra questi il pm Raffaele Guarinello che, conducendo un’indagine nel mondo del calcio professionistico (iniziata nel 1998), incaricò due epidemiologi dell’Istituto Superiore di Sanità di studiare le cause di morte di migliaia di ex calciatori (circa 20.000 calciatori di serie A, B e C dal 1965 a oggi) e il possibile collegamento con l’assunzione di sostanze proibite, o con pratiche (trattamenti farmacologici, sistemi di allenamento) dannose alla salute. A questa ne seguì una seconda sul ciclismo professionistico (iniziata nel 2000) che esaminò la storia sanitaria di 1.500 ciclisti in attività fra il 1969 e il 1999. Ad occuparsene anche un organismo appositamente creato l’”Osservatorio tumori professionali”. Il confronto fra le cause di morte degli ex giocatori di serie A, B e C rispetto alla popolazione normale mise in evidenza che le morti per leucemia linfoide erano 35 volte più numerose rispetto al resto della popolazione italiana; mentre per le morti da tumore epatico, fu riscontrato un rischio 8 volte superiore. Fra le possibili cause indicate di questo “eccesso di mortalità” è stato segnalato l’abuso di farmaci e/o l’utilizzo di sostanze dopanti: gli anabolizzanti per il cancro al fegato, l’ormone della crescita per la leucemia linfoide. A proposito di doping Umberto Tirelli, Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica all’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (Pordenone) e Professore di Oncologia Medica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Udine, Scuola di Specialità in Oncologia, sostiene: «Complicazioni più gravi per altro sono quelle oncologiche, in quanto già si verificano casi di tumori, in particolare al fegato, alla prostata e reni, e potrebbero aumentare nel tempo soprattutto in coloro che hanno assunto per molto tempo degli steroidi anabolizzanti, come sembra vi sia evidenza nei ciclisti in Francia». Il professore si riferisce a un’indagine del 1999 condotta dal Ministero dello Sport francese su 200 ciclisti professionisti, che evidenziò che il 60% soffriva di “serie turbe biologiche che devono essere oggetto di studi scientifici” perché “preludono alla cirrosi e al cancro”. Recentemente, nel corso del 33° Congresso della Società Italiana di Endocrinologia il professor Luigi Di Luigi dell’Unità di Endocrinologia del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Roma, nell’ambito del suo intervento sul tema del doping ormonale, ha affermato che «Non esistono dati definitivi relativi alla reale prevalenza di tumori correlati al doping ormonale (tumori del fegato, colon, prostata, tiroide, leucemie, ecc.), né è possibile prevedere quali e quante patologie potranno insorgere, anche dopo avere smesso e a distanza nel tempo, in quei soggetti che attualmente stiano assumendo enormi quantità di ormoni». Dunque molte indagini, molti sospetti, ma nessuna certezza. Recentemente l’ex campione di ciclismo francese Laurent Fignon, due volte vincitore del Tour de France (nel 1983 e nel 1984), presentando il suo libro “Eravamo giovani e incoscienti” ha dichiarato di essere affetto da un cancro dell’apparato digerente. Nella sua autobiografia il ciclista racconta di una vita vissuta intensamente, pagine chiare scolpite di successi e pagine scure di sconfitte, doping e droga. Interrogato sull’eventuale legame tra la malattia e l’assunzione di sostanze illecite, Fignon ha dichiarato che è impossibile dare una risposta: «Non dirò che non abbia influito. Non ne so nulla. È impossibile dire se sì o no. Secondo i medici, sembra di no. Alla mia epoca tutti facevano la stessa cosa, come oggi tutti fanno la stessa cosa. Se tutti i ciclisti che si sono dopati dovessero avere il cancro, ce l’avremmo tutti».

ATLETI SURVIVOR
Indipendentemente dai possibili legami con trattamenti estremi, gli sportivi, come tutti gli esseri umani, si ammalano di tumore, ma a differenza degli altri malati, spesso gli atleti sono famosi e la loro celebrità è strettamente connessa all’immagine di un corpo sano e potente, che contrasta in maniera drammatica con la malattia. Quando uno sportivo sopravvive a un cancro diventa immediatamente un modello per tutti, a dimostrare che non solo si può “scampare la morte”, ma si può tornare a vivere “come prima”: il ritorno di questi atleti sui campi di gara ne è un magnifico esempio. Sono tantissime le storie di atleti lungoviventi che hanno vinto la loro battaglia contro il cancro e sono riusciti a ritornare a gareggiare nel mondo professionistico. Come Nene Hilario, giocatore di pallacanestro brasiliano militante nei Nuggets di Denver, che è tornato in campo a tre mesi dall’intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore maligno ai testicoli. Ha destato grande emozione anche la storia di Eric Shanteau, nuotatore statunitense che, dopo aver saputo di avere un tumore ai testicoli, ha deciso comunque di partecipare ai giochi olimpici di Pechino, rimandando al suo rientro l’intervento chirurgico e le cure chemioterapiche. Anche se non può essere ancora definito un “cancer survivor” (per essere sopravvissuti è necessario che siano passati 5 anni dalla malattia) nel settembre del 2008 è stato definito guarito e da allora collabora attivamente con l’associazione di Lance Armstrong. Il ciclista svedese Niklas Axelsson ha avuto una carriera burrascosa: nel 2001 è trovato positivo all’Epo e sconta due anni e mezzo di squalifica. Poi riprende la carriera, ma nel 2006 gli viene diagnosticato un tumore al testicolo. Viene quindi sottoposto a cinque cicli di chemioterapia, durante i quali riprende gli allenamenti: nel periodo di cura percorre 3 mila km in bici, guarisce e nell’aprile 2007 torna a correre. Altro ciclista svedese è Magnus Bäckstedt, che all’inizio del 2007 subisce un doppio intervento al torace per l’esportazione di un tumore della pelle, ma dopo pochi mesi è già in sella. Il più famoso di tutti è sicuramente Lance Armstrong, il ciclista americano che ha vinto sette Tour de France di seguito (1999 – 2005), dopo esser stato operato di un tumore ai testicoli e che, all’età di 37 anni, correrà il prossimo Tour de France. «Ho deciso di tornare al ciclismo professionistico per aumentare la consapevolezza sul problema globale del cancro», ha dichiarato. Infatti, dopo una guarigione che da molti è stata definita quasi miracolosa, il ciclista nel 1997 fonda la “Lance Armstrong Foundation” con l’obiettivo di aiutare gli ex malati di tumore a recuperare la propria vita, dal punto di vista sociale e lavorativo.

LIVESTRONG (da Wikipedia)
Livestrong è un braccialetto da polso ideato dal ciclista Lance Armstrong nell’estate del 2004. Il braccialetto faceva parte di un programma educativo denominato Wear Yellow Live Strong, con l’intento di sostenere le vittime e i guariti del cancro e consapevolizzare sul problema. Il braccialetto è venduto in pacchi da 10, 100 o 1200 per aumentare di $5,000,000 i fondi della Lance Armstrong Foundation in collaborazione con Nike. Il colore giallo fu scelto per l’importanza che aveva nella vita del ciclista (gialla è la maglia portata dal leader del Tour de France). Il braccialetto è divenuto un fenomeno di massa alla fine dell’estate, dapprima apparendo ai polsi di molti partecipanti al Tour de France, poi a quelli di alcune personalità come: John Kerry, l’attore Matt Damon, e molti atleti alle Olimpiadi. Tale visibilità ha permesso che il braccialetto divenisse alla moda. I braccialetti gialli sono fatti di gomma, con inciso il motto LIVESTRONG.

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 5/2009

Scoliosi: trattamento riabilitativo in età evolutiva. Un estratto dalle Linee Guida nazionali

La Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione (SIMFER), sulla base delle indicazioni del Ministero della Sanità, ha dato incarico a una Commissione di suoi Soci (vedi BOX) la stesura di Linee Guida sul “Trattamento riabilitativo del paziente in età evolutiva affetto da deformità del rachide”. Le Linee Guida si rivolgono a tutti gli operatori impegnati nel campo della riabilitazione e del trattamento conservativo delle deformità del rachide e sono applicabili a tutti i pazienti di interesse riabilitativo e conservativo affetti dalle patologie di cui sono oggetto. La metodologia seguita si è basata sul recupero e analisi di tutta la bibliografia e letteratura internazionale esistenti. È stata quindi stabilita una scala della forza delle evidenze scientifiche, codificata sulla base delle classiche indicazioni usate per la stesura di Linee Guida (vedi tabella). Schermata 2013-11-25 alle 13.52.57Dato che l’argomento oggetto delle Linee Guida è caratterizzato da una sovrabbondanza di lavori descrittivi e da prassi principalmente basate sul consenso, più che su evidenze scientifiche, si è ritenuto utile ampliare l’ultima voce (E), suddividendola in tre gradazioni diverse di Consenso Scientifico.

DEFINIZIONE
La scoliosi idiopatica è una complessa deformità strutturale della colonna vertebrale che si torce sui tre piani dello spazio:
- sul piano frontale, si manifesta con un movimento di flessione laterale;
- sul piano sagittale, con un’alterazione delle curve, il più spesso provocandone un’inversione;
- sul piano assiale, con un movimento di rotazione.
Per definizione, la scoliosi idiopatica non riconosce una causa nota, e probabilmente nemmeno una causa unica. Da un punto di vista eziopatogenetico, quindi, la deformazione vertebrale provocata dalla scoliosi idiopatica può essere definita come il segno di una sindrome complessa a eziologia multifattoriale. Questa sindrome si manifesta quasi sempre con la sola deformità, ma non si identifica con essa, in quanto con una indagine più approfondita è possibile trovare altri segni sub-clinici che appaiono significativi.
La definizione classica della Scoliosis Research Society, definisce la scoliosi come una curva di più di 10° Cobb sul piano frontale senza considerare il piano laterale, le cui modificazioni incidono significativamente sull’evoluzione della scoliosi e la trattabilità ortesica. In base a questo dato, molti dei lavori pubblicati sull’efficacia del trattamento conservativo della scoliosi (fisioterapia, corsetti gessati, busti) utilizzano come unico parametro la modificazione dei gradi Cobb. Questo aspetto è destinato nel futuro a essere rivisto, in particolare considerando l’importanza della rotazione vertebrale, valutabile sia radiograficamente che clinicamente. Le scoliosi idiopatiche possono essere classificate secondo la localizzazione iniziale della deformità: toraciche, toracolombari, lombari, a doppia curva, e secondo l’età di insorgenza: infantili, giovanili e adolescenziali. Le menomazioni del paziente scoliotico sono classificabili come danni neuromotori, biomeccanici, cardio-respiratori ed estetici. Per quanto riguarda le problematiche relative alle limitazioni delle attività, queste riguardano in gran parte la scoliosi adulta. Il dolore, per esempio, o una significativa riduzione della capacità di sforzo o delle attività della vita quotidiana o professionale non fanno parte delle caratteristiche del giovane paziente scoliotico. Viceversa, ci sono due elementi tipici dell’età evolutiva che pure si riflettono pesantemente anche sull’età adulta: le limitazioni delle attività (disabilità) dovute a motivi psicologici e altre definibili come iatrogene, laddove il ragazzo affetto da scoliosi non viene rispettato in quanto persona colta in un duplice momento delicato, quello della crescita e sviluppo puberale e quello dell’incontro/scontro con il proprio corpo affetto da una forma di patologia che ne mina una struttura portante, che non per niente si chiama “colonna”. Tutti questi elementi devono ovviamente essere valutati in base all’entità della curvatura scoliotica, laddove al di sotto dei 20° Cobb quasi mai ci sono manifestazioni di limitazioni delle attività, che divengono però sempre più importanti con l’aggravarsi della patologia.

IL TRATTAMENTO
Il trattamento della scoliosi ripercorre tutte le fasi tipiche della prevenzione. Quando la patologia è lieve, il trattamento, definito “libero” è una prevenzione dell’evolutività della scoliosi (esercizi con controlli medici periodici) e riguarda la cosiddetta scoliosi minore (di norma al di sotto dei 20° Cobb). La prevenzione dell’evolutività diviene poi terapia per evitare che possa evolvere in scoliosi maggiore. La forma di prevenzione dell’evolutività principalmente applicata sono gli esercizi specifici e la cinesiterapia: si tratta di un lavoro finalizzato al miglioramento di capacità neuromotorie, adattato e controllato sulla base della patologia e delle caratteristiche individuali del singolo paziente. Il complesso degli esercizi è teso a migliorare le capacità specifiche dell’individuo (equilibrio, coordinazione e controllo oculo-manuale) rispettando gli equilibri biomeccanici (l’azione è sui tre piani dello spazio). Un secondo aspetto è quello della prevenzione secondaria, vale a dire del trattamento per evitare i danni conseguenti alla presenza della patologia conclamata. I confini possono essere fatti coincidere con un livello di patologia che richiede di intervenire con una ortesi. Lo scopo primario in questa fase è quello di evitare l’aggravamento della scoliosi, quindi di curare la malattia, ma anche, purtroppo a volte dimenticato, di trattare le menomazioni, di evitare le limitazioni dell’attività (disabilità) e della partecipazione (handicap). Quindi, se l’elemento principe è l’ortesi, il trattamento delle menomazioni e della disabilità sono tipiche dell’intervento riabilitativo, sia cinesiterapico e con esercizi specifici, che psicologico, ma anche educativo. Ovvia l’articolamente questo intervento è interdisciplinare è vede la compartecipazione delle diverse figure del team: fisiatra, ortopedico, fisioterapista, tecnico ortopedico, laureato in scienze motorie, paziente, famiglia. Infine, va considerata la prevenzione terziaria, spesso fatta direttamente coincidere “tout court” con la riabilitazione. Questo momento è tipico del recupero post-intervento e/o del superamento dei danni iatrogeni in età dell’accrescimento. La curvatura scoliotica non strutturata, o paramorfismo, o atteggiamento scoliotico, non è una condizione patologica e non rientra nell’oggetto di queste Linee Guida.

CINESITERAPIA ED ESERCIZI SPECIFICI
Attualmente non c’è evidenza sufficiente per raccomandare o sconsigliare l’utilizzo della cinesiterapia e di esercizi specifici. Peraltro, introducendo accanto ai concetti di efficacia ed efficienza, quello di accettabilità delle terapie, le famiglie hanno dimostrato di preferire l’effettuazione di esercizi specifici a scopo preventivo all’attesa di una eventuale evoluzione da trattare in seguito con corsetto. Inoltre, l’esame della letteratura a disposizione permette di ipotizzare un’efficacia di esercizi specifici nel rallentare l’evolutività delle curve patologiche in pazienti affetti da scoliosi idiopatica con curve minori. Non esistono pubblicazioni scientifiche rigorose sull’efficacia terapeutica dell’uso di manipolazioni, plantari (non rialzi), byte, medicinali convenzionali e omeopatici, agopuntura, accorgimenti alimentari per la correzione della scoliosi idiopatica in età evolutiva.

RACCOMANDAZIONI
- La scelta delle opzioni terapeutiche deve essere fatta dal clinico esperto di patologie vertebrali sulla base di tutti i parametri anamnestici, obiettivi e strumentali (E1).
- Una curvatura scoliotica non strutturata e la scoliosi inferiore ai 10±5° Cobb non devono essere trattate in modo specifico, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E1). Piuttosto, è necessario che siano ricontrollate periodicamente sino al superamento del picco puberale, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E2). Si raccomandano, nelle curve minori, gli esercizi specifici come primo gradino di approccio terapeutico alla scoliosi idiopatica per prevenirne l’evolutività (C). – Si raccomanda la costituzione di équipe terapeutiche specifiche (non necessariamente con rapporto di lavoro diretto), con una stretta collaborazione tra medico e rieducatore (E3), specificamente formato ed esperto nel trattamento della scoliosi (E2).
- Gli esercizi devono essere svolti individualmente o, meglio ancora, in piccolo gruppo con programmi individualizzati (E3); se ne raccomanda la continuità, sino alla fine del trattamento (E2). Gli esercizi, individualizzati sulla base delle necessità dei pazienti (E2), devono essere finalizzati a un miglioramento del controllo neuromotorio e posturale del rachide, dell’equilibrio e della propriocezione e a un rinforzo della funzione tonica della muscolatura del tronco (E2). Si raccomanda che gli esercizi non incrementino l’articolarità e la mobilità del rachide, con esclusione della fase di preparazione all’uso di un’ortesi (E2).
- Si raccomanda di evitare per la cinesiterapia l’uso esclusivo di singoli metodi, nessuno dei quali si adatta a tutte le fasi terapeutiche per il ragazzo affetto da scoliosi idiopatica (E2), utilizzando in ogni fase del trattamento il metodo, le tecniche e gli esercizi più idonei a perseguire gli obiettivi terapeutici necessari per il paziente (E2).
- Si raccomandano esercizi per migliorare la funzionalità respiratoria in pazienti affetti da scoliosi idiopatica che ne abbiano necessità (D).

ATTIVITÀ SPORTIVA
L’attività sportiva consente un riequilibrio psico-motorio che è consigliabile per tutti e che deve trovare spazio nell’adolescente scoliotico con le dovute modalità a seconda del tipo di paziente e della gravità ed evolutività della curva. Il paziente scoliotico deve giocare “come e più di tutti gli altri”, anche perché l’attività motoria consente di intervenire sugli aspetti psicologici e sociali correlati alla negatività di immagine del proprio corpo, mantenendo il paziente inserito nel suo gruppo. Il nuoto non è la panacea delle scoliosi e ci sono studi che tendono ad evidenziarne alcuni limiti o addirittura controindicazioni. Perplessità sono state espresse negli anni rispetto alle attività fisiche generalmente mobilizzanti, quali in particolare ginnastica artistica e danza. Quindi, lo sport non deve essere prescritto come un trattamento per la scoliosi idiopatica (E2), ma si raccomanda lo svolgimento di attività sportive di carattere generale per vantaggi aspecifici in termini psicologici, neuromotori e organici generali (E2), anche durante il periodo d’uso di un corsetto (E3). In base all’entità della curva e alla fase evolutiva, a giudizio del clinico esperto di patologie vertebrali, possono essere poste limitazioni rispetto ad alcune particolari attività (E2).

PER APPROFONDIMENTI
SIMFER: www.simfer.it
ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale): www.isico.it Fondazione Don Gnocchi ONLUS: www.dongnocchi.it
GRUPPO DI STUDIO DELLA SCOLIOSI: www.gss.it
ASSOCIAZIONE BACK SCHOOL: www.backschool.it

I MEMBRI DELLA COMMISSIONE
Stefano Negrini, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano e Fondazione Don Gnocchi ONLUS – IRCCS, Milano Lorenzo Aulisa, Clinica Ortopedica, Università degli Studi Cattolica di Roma Claudio Ferraro, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Fraschini, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Stefano Masiero, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Simonazzi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Claudio Tedeschi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Andrea Venturin, Azienda Ospedaliera, Università degli Studi di Padova Claudia Guerra, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Vincenzo Pirola, Azienda Ospedaliera “Salvini”, Garbagnate Milanese Simona Pochintesta, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Umberto Selleri, Azienda Ospedaliera “Bufalini”, Cesena Dinetta Bianchini, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Wanda Bilotta, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Isabella Fusaro, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Marco Monticane, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano 
di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 7/2009

15 minuti al giorno

Sulla rivista medico-scientifica The Lancet, è stato recentemente pubblicato uno studio osservazionale di grandi dimensioni di Chi Pang Wen e colleagues, che dimostra come anche una piccola quantità di tempo libero dedicata all’attività fisica riduce la mortalità totale, la mortalità per malattia cardiovascolare e per cancro. In realtà, ci sono molti altri studi che hanno già documentato come la pratica costante di moderata attività fisica sia in grado di ridurre la mortalità di molte patologie; tuttavia, le raccomandazioni della sanità pubblica in molti paesi sono di fare l’equivalente di almeno 30 minuti al giorno a piedi, quasi tutti i giorni della settimana, cioè 150 minuti per settimana. Wen e colleghi con questo nuovo studio dimostrano che anche la metà di questa quantità di attività fisica (15 minuti al giorno per 6 giorni alla settimana) è sufficiente a ridurre la mortalità per qualsiasi causa del 14%, la mortalità per cancro del 10%, e la mortalità per malattie cardiovascolari del 20%. Questo è il primo studio osservazionale di grandi dimensioni che documenta in modo preciso e inequivocabile l’importante relazione fra benefici globali per la salute e una ridotta dose di attività fisica.
La statistica dei benefici ricavati dall’attività fisica segue una curva dose-risposta (figura 1), che lancet2pmostra chiaramente come, anche se una piccola quantità di attività fisica è sufficiente per ottenere dei miglioramenti, più se ne fa e meglio è. La “quota” ideale dovrebbe essere di circa 300 minuti di moderata attività fisica a settimana, ma i dati della maggior parte dei paesi mostrano che tale quantità di attività fisica si ottiene solo da una piccola parte di popolazione. La ragione di questa realtà è multifattoriale e complessa, oltre che individuale, legata a fattori psicosociali, ambientali e culturali. Wen e colleghi suggeriscono che un intervento sicuramente efficace per contribuire all’effettivo aumento dell’attività fisica nella popolazione potrebbe essere messo in atto dai medici, che dovrebbero consigliare ripetutamente ai loro pazienti di introdurre nelle loro giornate l’abitudine al movimento. A causa della natura osservazionale dello studio, Wen e colleghi non possono stabilire il nesso causale fra attività fisica e malattia, ma i risultati ottenuti sono pienamente coerenti con le scoperte di altri studi prospettici randomizzati per la prevenzione secondaria cardiovascolare, che mostrano un chiaro, diretto e inconfutabile beneficio per la salute dalla pratica di esercizio fisico. L’esercizio fisico può ridurre il rischio di mortalità cardiovascolare e, in particolare, di mortalità coronarica, per molti meccanismi, tra cui il miglioramento del tono, e quindi della funzione endoteliale, che porta alla prevenzione e alla stabilizzazione dell’aterosclerosi coronarica, in modo da ridurre il rischio di sindromi coronariche acute. Il cancro condivide diversi fattori di rischio con la malattia coronarica, come la cattiva alimentazione, l’obesità, e l’inattività fisica. Pertanto, la riduzione di alcuni di questi fattori di rischio ottenuta con un regolare esercizio fisico potrebbe plausibilmente spiegare i benefici registrati da Wen e colleghi rispetto alla mortalità per cancro. Gli effetti oncoprotettivi dell’esercizio fisico sono certamente un argomento di ricerca in espansione e oggetto di futuri studi. Sapere che sono sufficienti 15 minuti al giorno di esercizio fisico per ridurre sostanzialmente il rischio di un individuo di morire potrebbe incoraggiare molti più individui a inserire una piccola quantità di attività motoria nelle proprie abitudini quotidiane. I governi e i professionisti della salute hanno un ruolo importante da svolgere per diffondere questa informazione e convincere le persone dell’importanza di essere almeno minimamente attiva.

Wen CP, Wai JPM, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; published online Aug 16. DOI:10.1016/S0140-6736(11)60749-6 
a cura di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 12/2011

 

 

L’Onu e le malattie non trasmissibili

WHO_flag copia1pAlla fine del 2011 si è svolta a New York una riunione dei vertici ONU per definire l’agenda internazionale in merito alla prevenzione delle malattie non trasmissibili e il loro controllo. Le malattie non trasmissibili – come infarto, ictus, cancro, diabete e malattie respiratorie croniche -sono attualmente responsabili di oltre il 63% dei decessi nel mondo. Ogni anno, uccidono 9 milioni di persone sotto i 60 anni, con un impatto socio-economico sconcertante. Questa è la seconda volta nella storia delle Nazioni Unite che l’Assemblea Generale si riunisce per un problema di salute; il primo e unico precedente era stato per l’AIDS. Nel suo intervento Margaret Chan, Direttore Generale dell’OMS, è stata molto chiara rispetto alla necessità di un totale coinvolgimento politico e sociale di ogni nazione: i ministeri della salute, da soli, non possono “riprogettare” le società in modo da proteggere intere popolazioni dai fattori di rischio che portano a queste malattie. Perché è di questo che si tratta: il problema è troppo grande e troppo di ampio respiro, dal momento che l’aumento di queste malattie è strettamente connesso con fenomeni universali, come la rapida urbanizzazione e la globalizzazione. La risposta a cambiamenti ambientali così epocali e dirompenti deve essere di uguale portata, anche perché lo stile di vita malsano che alimenta queste malattie si sta diffondendo a una velocità sorprendente. La disponibilità di farmaci per ridurre la pressione del sangue, abbassare il colesterolo e migliorare il metabolismo del glucosio, se da un certo punto di vista aiuta a tenere la situazione sotto controllo, dall’altro inganna la realtà e ottunde la richiesta urgente di cambiamento della politica. Le cause di queste malattie devono essere affrontate alla radice, e l’obesità crescente rappresenta un segnale di spia: è l’evidenza che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nella politica ambientale. L’obesità diffusa in una popolazione non è un indicatore del fallimento della volontà individuale, ma di un fallimento nelle politiche governative. Alimenti industriali, alto contenuto di sale, grassi trans e zucchero, sono diventati il nuovo cibo di base in quasi ogni angolo del mondo: per un numero crescente di persone, rappresentano il modo più economico per riempire uno stomaco affamato. Così come non si può nascondere l’obesità, non è possibile nascondere gli enormi costi con cui queste malattie gravano sulle economie nazionali. Queste sono malattie che, lasciate senza controllo, portano alla bancarotta: in alcuni paesi, per esempio, la cura per il diabete da sola consuma ben il 15% del budget sanitario nazionale. Uno studio dell’Università di Harvard presentato in un recente World Economic Forum stima che, nel corso dei prossimi 20 anni, le malattie non trasmissibili costeranno all’economia globale più di 30 miliardi di dollari, ovvero il 48 per cento del PIL mondiale del 2010. Si tratta di patologie croniche, che normalmente sono rilevate in ritardo, quando i pazienti hanno già bisogno di cure ospedaliere e farmacologiche; eppure sono ampiamente prevenibili, intervenendo sui fattori di rischio:
- uso di tabacco
- dieta malsana
- consumo eccessivo di alcol
- inattività fisica.
In particolare, l’inattività fisica è stata identificata come il quarto fattore di rischio per mortalità globale (6% dei decessi a livello globale) e si stima che sia la causa principale per circa il 21-25% dei tumori al seno e del colon, il 27% di diabete e circa il 30% delle malattie del sistema cardiocircolatorio. È scientificamente provato che livelli regolari e sufficienti di attività fisica negli adulti riducono il rischio di ipertensione, malattie coronariche, ictus, diabete, cancro al seno e del colon, depressione e il rischio di cadute; migliorano inoltre la salute delle ossa e rappresentano un elemento determinante della spesa energetica, fondamentale quindi per il controllo del peso. Il termine “attività fisica” non deve essere confusa con “esercizio”. L’esercizio fisico è una sottocategoria di attività fisica ed è pianificato, strutturato, ripetitivo e mirato al miglioramento o al mantenimento di uno o più componenti della forma fisica. L’attività fisica comprende tutte le attività che coinvolgono il movimento del corpo e sono effettuate come parte del gioco, di lavoro, trasporto attivo, faccende domestiche e ricreative. Gli attuali livelli di inattività fisica sono dovuti sia a un’insufficiente partecipazione ad attività fisiche organizzate nel tempo libero, sia a un aumento di comportamenti sedentari durante le attività professionali e domestiche e a un aumento nell’uso di “passivo” dei mezzi di trasporto. Un’urbanizzazione rapida e scellerata ha portato allo sviluppo di fattori ambientali che scoraggiano la partecipazione all’attività fisica, come l’insicurezza delle strade, l’alta densità di traffico, l’inquinamento, la mancanza di spazi verdi, marciapiedi e impianti sportivi/ricreativi. Per questo l’aumento di attività fisica è una questione sociale, non solo un problema individuale, e pertanto richiede un approccio multi-settoriale e multi-disciplinare, culturalmente rilevante. La World Health Organization ha sviluppato il documento “Raccomandazioni globale sulla attività fisica per la salute”, in cui sono fornite indicazioni sui “dosaggi” di attività fisica necessaria per la prevenzione di malattie non trasmissibili in base a frequenza, durata, intensità, tipo e quantità totale. Le raccomandazioni sono indirizzate a tre fasce di età, selezionate tenendo in considerazione la natura e la disponibilità dei dati scientifici relativi:
5-17 anni
18-64 anni
dai 65 anni in su.

MALATTIE NON TRASMISSIBILI
Sono malattie di lunga durata e generalmente di lenta progressione. I quattro tipi principali di malattie non trasmissibili sono: le malattie cardiovascolari (come infarto e ictus), il cancro, le malattie respiratorie croniche (come l’asma), il diabete. Le malattie non trasmissibili (NCD) uccidono più di 36 milioni di persone ogni anno: circa l’80% di tutte le morti malattie croniche si verificano nei paesi a basso e medio reddito.
di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato su Fitmed online 10/2011

La prevenzione dell’osteoporosi comincia in gravidanza

È noto che la robustezza delle ossa sia correlata al metabolismo del calcio. I fattori gravidanza cibomodmaggiormente coinvolti sono da una parte la quantità di calcio assunta con l’alimentazione e dall’altra la quantità di vitamina D metabolizzata a livello di vari organi quali il fegato, il rene e la pelle nella quale, grazie all’assorbimento delle radiazioni ultraviolette, la vitamina D viene chimicamente perfezionata. Alle nostre latitudini, l’esposizione alla luce del sole e agli UV non è un problema, invece carenze nell’assunzione di calcio e vitamina D sono spesso sottovalutate ed estremamente frequenti. Nella maggior parte dei casi il problema non si pone fino alla terza età, quando la riduzione della massa ossea, che normalmente si accompagna all’invecchiamento, può configurare un quadro di vera e propria osteoporosi: ciò condiziona una maggiore fragilità dello scheletro, più soggetto a micro e macrofratture spesso gravemente invalidanti. Avere immagazzinato più calcio nelle ossa durante lo sviluppo e fino all’età giovane-adulta costituisce un vantaggio nel momento in cui la massa ossea stessa comincerà a decrescere. Un interessante studio inglese, pubblicato sulla rinomata rivista Lancet, ha seguito poco meno di duecento donne durante la gravidanza: le variabili prese in esame erano la costituzione corporea, la loro alimentazione e i livelli di vitamina D nelle ultime fasi della gravidanza. Da queste osservazioni è nato uno studio longitudinale, cioè i figli di queste donne sono stati seguiti fino all’età di 9 anni. Ebbene nel 31% delle madri in gravidanza risultavano concentrazioni di vitamina D insufficienti e nel 18% deficitarie: il dato più significativo è che tale carenza di vitamina D nelle madri si correla a una minore massa ossea nei figli all’età di 9 anni. Inoltre, in base alla stima dell’esposizione alla luce solare e all’assunzione di vitamina D delle madri, si poteva prevedere la massa ossea dei figli. Altro dato che si correlava alla massa ossea dei figli era la concentrazione di calcio nel sangue venoso raccolto dal cordone ombelicale: meno calcio assunto in gravidanza, minore la massa ossea a 9 anni. Quindi la prevenzione dell’osteoporosi non solo viene spesso trascurata e inizia solo con la terza età, ma potrebbe essere indicata, grazie alla supplementazione con vitamina D e calcio, soprattutto nei mesi in cui scarseggia la luce solare, addirittura a partire dalla gravidanza.

di Mia Dell’Agnello
Titolo: Maternal vitamin D status during pregnancy and childhood bone mass at age 9 years: a longitudinal study. 
Autori: Javaid MK, Crozier SR, Harvey NC, Gale CR, Dennison EM, Boucher BJ, Arden NK, Godfrey KM, Cooper C.
Pubblicato: Lancet, Gennaio 2006

Pubblicato su Fitmed online7-8/2010