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La malattia di Parkinson. Percorsi e metodi riabilitativi

img1140633945Descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817, è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa, dopo quella di Alzheimer. Si tratta di una sindrome extrapiramidale i cui sintomi principali sono:
- rigidità muscolare;
- lentezza a iniziare ed eseguire i movimenti (acinesia e bradicinesia);
- tremore a riposo (scompare quando si compiono movimenti volontari).
Per formulare la diagnosi di malattia di Parkinson devono essere presenti almeno due di questi sintomi. Nelle fasi più avanzate della malattia possono comparire difficoltà nel mantenimento della postura eretta e dell’equilibrio, disturbi urinari, stipsi, depressione, problemi respiratori, difficoltà del linguaggio. I sintomi hanno quasi sempre un andamento fluttuante, con variazioni importanti all’interno della stessa giornata. La malattia ha un’insorgenza media a 55 anni, è più comune sopra i 60 anni, ma molti casi sono diagnosticati intorno ai 40 anni, o anche al di sotto; il tasso di incidenza aumenta notevolmente con l’età. Non potendo riconoscere una causa nota, viene indicata un’eziologia multifattoriale, in cui interagiscono componenti ambientali, occupazionali e genetiche. Alcuni studi associano la malattia di Parkinson a lesioni cerebrali, in particolare traumi accompagnati da emorragia, ma questo è un fattore eziologico non ancora definitivamente accertato. Un fattore chiave nello sviluppo del morbo di Parkinson è la mancanza di dopamina, un messaggero chimico utilizzato dalle cellule del cervello per comunicare tra di loro e, nel caso specifico del Parkinson, per regolare i movimenti volontari del corpo a livello della sostanza nera mesencefalica. Non esiste una cura per la malattia di Parkinson, ma diversi trattamenti possono controllarne i sintomi. Il primo obiettivo della terapia farmacologia è ripristinare i livelli di dopamina e ristabilire le normali funzioni dei circuiti cerebrali, calibrando il trattamento sui bisogni individuali dei soggetti.

LA RIABILITAZIONE FUNZIONALE

Si discute spesso quanto sia importante l’attività motoria per i malati di Parkinson e sono stati svolti numerosi studi per evidenziarne l’efficacia. Attualmente vi è un largo consenso sull’utilizzo della riabilitazione come supporto alla terapia farmacologia e diversi studi evidenziano i benefici della riabilitazione soprattutto rispetto alle attività della vita quotidiana e l’abilità del cammino. I risultati, sebbene singolarmente confortanti, sono difficilmente confrontabili, vista la variabilità di terapia farmacologia e di intervento motorio utilizzati; per questo, risulta ancora difficile presentare prove inconfutabili, scientificamente validate. In tutti gli studi, tuttavia, si sottolinea il fatto che la terapia fisica gode di un’enorme vantaggio: non ha effetti collaterali. La terapia fisica interviene sulle principali cause di compromissione e comprende misure per diminuire la rigidità e aumentare l’ampiezza dei movimenti (ROM), nonché per migliorare il controllo posturale, l’equilibrio, la resistenza e l’andatura. Per migliorare lo schema del passo si utilizzano esercizi di deambulazione a base allargata, superamento di ostacoli, stimoli visivi, uditivi e propriocettivi (dondolarsi per superare il freezing o fare un passo indietro prima di iniziare il cammino) per iniziare e mantenere il movimento. Uno stile di vita attivo è particolarmente importante, perché i malati di Parkinson tendono ad adattarsi alle modificazioni indotte dalla malattia riducendo la quantità e la varietà di attività fisica al di là del processo patologico (declino da disuso). Evidenze cliniche sottolineano, infine, l’efficacia dell’esercizio finalizzato a un’attività (gesto sportivo) per la programmazione motoria: la pratica di attività sportive e ludiche, inoltre, ha risvolti molto positivi dal punto di vista sociale e relazionale. Agli inizi di quest’anno è stata pubblicata sulla rivista The Cochrane Library una revisione di studi internazionali effettuati per valutare l’efficacia di trattamenti riabilitativi con tapis roulant in malati di Parkinson. Nella revisione sono stati inclusi otto studi, per un totale di 203 pazienti. I risultati confermano che la riabilitazione con l’utilizzo di tapis roulant migliora sia la velocità di marcia, che lunghezza della falcata, mentre il numero di passi al minuto (cadenza) non ha registrato variazioni consistenti. Tuttavia, i risultati devono essere interpretati con cautela perché non vi è omogeneità tra le caratteristiche dei pazienti, né tra i protocolli utilizzati. Inoltre, non si sa quanto questi miglioramenti possano mantenersi nel tempo. Al XIII Congresso Mondiale sulla Malattia di Parkinson e i Disturbi del Movimento, svoltosi a Parigi lo scorso anno, sono stati presentati i risultati di uno studio del dr. Giuseppe Frazzitta e dell’equipe del laboratorio di Diagnostica e Rieducazione Neuromuscolare dell’IRCCS Fondazione Maugeri di Montescano (PV). Il lavoro riassume nel titolo i termini dell’indagine: “Il trattamento riabilitativo della deambulazione nei pazienti con Malattia di Parkinson e freezing della marcia: confronto fra due protocolli riabilitativi che utilizzano cues visivi e uditivi associati o meno a treadmill training”. Gli studi compiuti finora avevano avvalorato percorsi rieducativi o con l’ausilio di stimoli visivi, o con l’utilizzo del treadmill, ma sempre utilizzati separatamente. In questo lavoro, sono stati confrontati due gruppi di 20 pazienti affetti da malattia di Parkinson di età media 71 anni: il primo è stato sottoposto a trattamento riabilitativo “classico” (camminare su un percorso definito da linee orizzontali accompagnati da uno stimolo audio per scandire il ritmo del cammino); il secondo è stato sottoposto a un protocollo sperimentale con locomotor training (20 minuti al giorno per 4 settimane, a velocità di scorrimento progressivamente crescente). Il locomotor training è un tapis roulant completato da uno stimolo acustico (che suggerisce il ritmo di marcia) e da un display, su cui è visualizzato un obiettivo da raggiungere e la forma dei piedi in marcia. Quando, durante la marcia, l’immagine del piede si sovrappone correttamente alla forma- obiettivo, appare sullo schermo un feedback positivo; in caso contrario, il paziente viene invitato a modificare l’andatura. Sono stati valutati diversi parametri e i riscontri più importanti dal punto di vista clinico si sono visti nel test che misura quanti metri compie un soggetto in 6 minuti. I pazienti del gruppo che ha utilizzato il locomotor, al termine del trattamento, percorrevano in 6 minuti 351 metri, all’incirca la stessa distanza che percorre un soggetto sano della stessa età; in media 130 metri in più rispetto ai risultati ottenuti prima del trattamento. Il miglioramento del primo gruppo (trattamento tradizionale) è stato di soli 57 metri in più. Dai dati preliminari del follow up, si evince che l’efficacia della riabilitazione con locomotor training si protrae per un periodo di circa 10 mesi. Inoltre, a un anno dall’inizio dell’esperimento, la malattia non è progredita.

DANZATERAPIA: IL TANGO ARGENTINOLUMINATO: Toronto Festival of Arts & Creativity 2008

All’ultimo Congresso Internazionale della malattia di Parkinson e Disturbi del Movimento è stato presentato uno studio, condotto da Giovanni Albani (Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione presso l’Università di Torino e Istituto Auxologico Italiano) e colleghi, sull’utilizzo del Tango Argentino come strumento riabilitativo nella malattia di Parkinson. 10 pazienti con i rispettivi partner hanno preso lezioni di tango di un’ora per due volte la settimana e, con l’ausilio di un DVD appositamente creato, si sono allenati a casa, un’ora al giorno 5 giorni alla settimana. «Il DVD include una serie di movimenti di danza tango ritenuti utili per i pazienti, selezionati da un comitato scientifico di neurologi, maestri di tango, pazienti, bioingegneri, fisioterapisti, psicologi», ha spiegato il dottor Albani. Lo studio è stato condotto su pazienti a uno stadio medio della malattia, quando il tronco comincia a flettersi in avanti, con l’avvio di perdita di riflessi posturali; in conseguenza di ciò, aumentano gli episodi di caduta, con rischio di fratture e immobilizzazioni poi faticosamente recuperabili. Dopo 5 settimane di tango, sono state eseguite le misurazioni delle diverse funzionalità utilizzando la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale (UPDRS). Gli effetti positivi rilevati hanno riguardato soprattutto gli aspetti meno sensibili alla terapia dopaminergica o neurochirurgia: il discorso, la postura e l’andatura, con un significativo miglioramento della cadenza del ciclo del passo e una riduzione della postura flessa di anca e pelvi. Perché proprio il tango argentino? A spiegarlo sono i due maestri, Monica e Giorgio Proserpio, nell’introduzione al DVD: «Il tango argentino è una danza particolare. È una danza di coppia, ad abbraccio chiuso, che consente una libertà creativa praticamente illimitata. A differenza di altre danze, che contano un determinato numero di figure standard, il tango argentino è invece un colloquio fra i due partner, una comunicazione continua delle varianti che l’uomo propone alla donna… Il lavoro che richiede questo ballo si può definire estremamente “mentale” a significare come i ballerini debbano stabilire una forte connessione fra la volontà di fare il movimento ed il corpo che deve eseguirlo. Di conseguenza la concentrazione deve raggiungere livelli altissimi, perché il ballerino e la partner possano l’uno comunicare, l’altra recepire i movimenti che si desiderano eseguire. Questa particolarità rende adatto il tango a un uso sperimentale in malattie motorie, come il Parkinson, che richiedono il recupero di automatismi motori perduti. Paradossalmente, infatti, la mancanza di schematicità di questa danza così libera impone, di base, una rigorosa istintività motoria, indispensabile per riuscire a innestare sopra di essa, le varianti continue attraverso le quali si sviluppa questo dialogo della coppia. Non dobbiamo neppure dimenticare… la relazione della coppia e delle coppie con le quali si condivide un’esperienza e una passione, accompagnati da una musica coinvolgente; elementi stimolanti da un punto di vista relazionale ed emotivo, che sicuramente non possono essere dimenticati nell’ottica della ricerca di un beneficio sì motorio, ma anche, non meno importante, psicologico».

DANZATERAPIA: DANCE FOR PD

Il Mark Morris Dance Group è una compagnia di danza moderna di fama internazionale che, da più di nove anni, propone corsi di danza per le persone con Parkinson e i loro caregivers. L’idea che questi malati, con le loro difficoltà a compiere anche i gesti più semplici, possano trarre giovamento da una disciplina così impegnativa dal punto di vista motorio, può sembrare un paradosso. Eppure, David Leventhal, ballerino del Mark Morris e direttore del Dance for PD (Programma di danza per il malattie neurodegenerative e attività fisica), non la pensa così. Al contrario, le persone con malattia di Parkinson – sostiene – hanno molto in comune con i ballerini, perché devono costantemente imparare a muoversi. Per questo il coinvolgimento cognitivo di un ballerino malato di Parkinson è lo stesso di un ballerino professionista. Una delle più grandi sfide per i pazienti di Parkinson è di cominciare volontariamente il movimento: è la decisione di muoversi che è la più compromessa, e non è la capacità di eseguire effettivamente l’azione. Per esempio, il paziente di Parkinson può essere in grado di prendere una palla se gli viene lanciata contro all’improvviso, ma non è in grado di decidere di lanciare la palla. L’idea è che la danza assume i movimenti volontari, così difficili per le persone con il Parkinson, e li trasforma in movimenti più istintivi. Movimenti in reazione a una familiare melodia al pianoforte, per esempio, o movimenti di mirroring del maestro, o i movimenti memorizzati di una routine coreografica. Nella danza, gran parte dell’impegno è finalizzato al far apparire naturale e facile ciò che invece è estremamente difficile. I ballerini professionisti, dal canto loro, possono essere ottimi insegnanti, perché per imparare complicate sequenze di movimenti, utilizzano metodi e strategie cognitive sviluppati in centinaia di anni. E, nonostante lo sforzo, conoscono molto bene il piacere del movimento. Ecco, riassunti dall’associazione in punti, i motivi per cui la danza è vantaggiosa per le persone con malattia di Parkinson:

- La danza sviluppa la flessibilità e infonde fiducia;

- è prima di tutto un’attività stimolante, che collega la mente al corpo;

- la danza rompe l’isolamento;

- utilizza movimenti graziosi per richiamare immagini;

- la danza concentra l’attenzione sugli occhi, sulle orecchie e sul tatto, come strumenti per assistere il movimento e l’equilibrio;

- aumenta la consapevolezza di essere un’unità in cui tutte le parti del corpo sono nello spazio;

- la danza racconta storie e stimola scintille di creatività;

- la base della danza è ritmo; l’essenza della danza è la gioia.

I corsi si svolgono un giorno alla settimana, per 75 minuti, con un andamento simile alle sessioni di danza tradizionali. Gli insegnanti spesso rubano pezzi e bocconi dalle danze che loro stessi eseguono e li modificano per questa classe di ballerini “speciali”, con l’intento di farli lavorare sui problemi specifici, come il freezing, o la difficoltà di compiere due movimenti contemporaneamente. L’idea è quella di rafforzare quelle vie di contatto del cervello, oppure di crearne di nuove, utilizzando modalità di accesso diverse; è lo stesso fenomeno che si verifica nelle persone che soffrono di balbuzie: quando cantano, smettono di balbettare. Ivan Bodis Wollner, direttore del National Parkinson Foundation di Brooklyn, volendo attribuire una validità scientifica alla danza terapia, fa riferimento alla plasticità del cervello e alla possibilità, con i giusti stimoli, di creare nuovi percorsi neurali. Bodis Wollner ritiene che la danza può contribuire a sviluppare questa capacità, e che il lavoro del Mark Morris Dance Group rappresenta un esperimento importante; per questo motivo è da poco partito un progetto di ricerca per valutare i benefici della danza per il Parkinson, tramite uno studio randomizzato. Attualmente la “Dance for PD”, attraverso una rete di partner e collaboratori, è praticata in oltre 40 comunità in tutto il mondo

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Fitmed online 12-2010

Alzheimer café: ha senso parlare di cura?

CAFFE

La malattia di Alzheimer non è guaribile, è degenerativa e le funzionalità perse non possono essere riacquisite; dunque, che senso ha parlare di riabilitazione funzionale? L’intervento non farmacologico è fondamentalmente indirizzato a rallentare il decorso della malattia, un intervento di tipo conservativo perché i sintomi si manifestino il più tardi possibile. Il livello di “cura”, inteso come il “care” anglosassone (ovvero “prendersi cura, avere attenzione”), è di tipo “psicosociale”, perché la sua finalità è mantenere le capacità cognitivo comportamentali attraverso l’utilizzo di differenti percorsi e tecniche, che poggiano tutte su di un principio fondamentale: non ci si concentra su ciò che non c’è più, ma si dà valore a ciò che c’è ancora. Il miglioramento delle condizioni di vita del paziente passa attraverso l’accettazione e soprattutto la valorizzazione di ciò che lui è, in quel momento della vita, a quel punto della malattia. Se si prescinde da questo, nel vano tentativo di rincorrere funzionalità perdute, ogni intervento non potrà che essere una sconfitta. Questo tipo di azione, oltre a rallentare il decorso degenerativo della malattia, contiene in sé un valore prezioso, che innesta un circolo virtuoso fondamentale per il benessere del paziente. Infatti, al deterioramento cognitivo concorrono due fattori, spesso di pari importanza: il primo è chiaramente la malattia stessa, con l’alterazione delle funzioni cerebrali; il secondo è rappresentato dal contesto psico-sociale in cui si trova il malato. Quasi sempre anziano, spesso solo, consapevole dei suoi insuccessi, il malato di Alzheimer tende a chiudersi sempre di più in se stesso, restando intrappolato in un atteggiamento apatico e depresso. La possibilità di ristabilire una relazione positiva ed efficace con l’ambiente, spesso porta con sé il miglioramento di aspetti motori, cognitivi e affettivi, e fornisce l’occasione di risvegliare delle capacità residue, non attaccate dalla malattia in sé, ma dall’incapacità di affrontarla.

ALZHEIMER CAFÉ

Il primo Alzheimer Café è nato in Olanda nel 1997, dal progetto dello psicogeriatra olandese Bere Miesen. Tra gli obiettivi principali, indicati dallo stesso Miesen, informare sugli aspetti medici e psico-sociali della demenza e prevenire l’isolamento dei malati e dei loro familiari, condividendo senza vergogna la propria esperienza. Gli Alzheimer Cafè non sono tanto dei luoghi veri e propri, quanto “situazioni”; sono dei punti di incontro e aggregazione per pazienti e care giver, per portare la cura della malattia anche fuori dalle strutture sanitarie. Lì si discute di nuove terapie, di possibilità di intervento, lì si confrontano esperienze personali, ma anche si propongono tecniche di supporto, quali la terapia della reminiscenza, la psicodanza, la logopedia e la musicoterapia. In genere si tratta di un appuntamento settimanale, della durata di due ore, mix di momenti conviviali e formativi, che si svolge in una struttura pre-esistente sul territorio: associazioni, cooperative, circoli cral, ma anche bar veri e propri. L’associazione Al Confine Onlus nel 2007 ha aperto, presso la sede del Circolo Arci Métissage di Milano, un Alzheimer Café: abbiamo intervistato il presidente Silvana Botassis, medico di medicina generale.

Gli Alzheimer Cafè sono diversi per origine e natura: o nascono come derivazione diretta di asl, o di centri sociali e culturali, o associazioni di malati. L’idea che li accomuna tutti è di non occuparsi della malattia, ma della salute, uscendo dalle strutture sanitarie, prescindendo dalla diagnosi e promuovendo la persona; ogni progetto è poi declinato nelle forme pù svariate: da dove nasce il vostro Alzheimer Cafè?

Vent’anni di medicina sul territorio mi hanno convinta che la salute per tutti, ma soprattutto per i vecchi, non sta nell’assenza di malattia, ma soprattutto nelle qualità delle relazioni. In questi 20 anni la medicina è cambiata, e dal curare i malati siamo arrivati all’ossessione della diagnosi precoce. Così mi sono trovata, come medico di famiglia, in una situazione in cui non riuscivo più a fornire una risposta ai bisogni essenziali dei miei pazienti, soprattutto di quelli più anziani, che sono bisogni di comunicazioni, di vicinanza, di un benessere conquistato nelle limitazioni che la vecchiaia impone. La medicalizzazione della vecchiaia non fa che peggiorare le condizioni delle persone anziane e quindi ho sentito forte la necessità di fare qualcosa per promuovere le relazioni dove non ci sono: per questo è nato l’Alzheimer Cafè, per combattere la solitudine e l’isolamento, anche di chi non ha necessariamente la malattia, anche di chi ha una famiglia. Del nostro gruppo fanno parte sia persone cognitivamente integre, ma che magari hanno problemi di disabilità motoria e di solitudine, sia persone che si trovano al grado estremo di disorientamento spazio-temporale e di disintegrazione della memoria, recente e remota.by Brian Tomlinsonbis

Come è strutturato il vostro intervento?

Attualmente proponiamo due pomeriggi alla settimana: il primo gruppo lavora con il metodo Validation, che è basato sull’ascolto empatico e sulla convalida delle emozioni. Il che non vuol dire dare sempre ragione a chi ci sta davanti, ma legittimare quello che lui sta vivendo: l’atteggiamento consolatorio è una delle cose più terribili per chi sta male, perché non lo legittima nella sua sofferenza, negandola. Il secondo pomeriggio è dedicato, in modo alterno, a un’attività teatrale per anziani, e alla danza-movimento-terapia. Il gruppo Validation è strutturato in tre momenti diversi. I primi 30/40 minuti sono di colloquio su un tema, proposto dall’operatore, che ha sempre un forte impatto emotivo, per aiutarli a far emergere quelle emozioni che fuori di qui loro comprimono: paura, rabbia, tristezza, ansia che, non trovando mai un ascolto legittimatorio, ma il più delle volte consolatorio, gli anziani hanno imparato a nascondere. All’inizio non è stato facile, perché tutti volevano parlare e nessuno ascoltava, ma poi, poco per volta, la gara “a chi stava peggio” si è trasformata in solidarietà ed è nato un gruppo di amici. Successivamente dedichiamo 20 minuti all’attività motoria e gli ultimi 20 sono un momento conviviale. Nel gruppo Validation abbiamo attribuito dei ruoli, scelti secondo le inclinazioni e le storie di ciascuno, e che danno un po’ il valore di quella persona nel gruppo. Abbiamo una signora responsabile dell’attività motoria, perché è iscritta a un corso di ginnastica per la terza età ed è lei a coinvolgere tutto il gruppo. L’esecuzione è da seduti, in cerchio, lavorando sulla respirazione e su tutti i gruppi muscolari. Poi ci alziamo in camminata libera, ogni tanto utilizziamo delle immagini e poi giochiamo con una palla di gommapiuma. Il movimento ha sicuramente una validità a livello fisico per mantenere livelli di mobilità articolare e di tono muscolare, ma ha soprattutto una grande funzione relazionale e ludica; è un momento scherzoso e gioioso che consente di liberare le energie intense mosse nel dialogo e farle circolare in un modo più rilassato. All’altro appuntamento pomeridiano, dedicato all’attività teatrale e alla danza-movimento-terapia, accogliamo persone anche molto gravemente deteriorate. Nelle lezioni di danza-movimento-terapia, guidate da Simone De Padova, educatore dell’associazione La Tela, attraverso lo stimolo musicale e l’evocazione di immagini molto semplici si stimola il movimento di ciascuno non secondo uno schema precostituito, ma in modo che ognuno trovi il suo movimento, il suo ritmo, la sua espressività corporea e la sua modalità di accostarsi alla corporeità dell’altro. Il movimento come strumento di comunicazione non verbale acquista un valore enorme per chi ha difficoltà di espressione verbale.

Quali sono requisiti necessari per partecipare all’Alzheimer Cafè?

Non esistono criteri quantitativi o qualitativi rigidi. Cerchiamo più che altro di capire quali siano i bisogni della persona per verificare se possono essere soddisfatti dall’inserimento nel gruppo oppure no. Fondamentale è il bisogno di contatto con gli altri: se questo manca, non sussistono le premesse necessarie. Altre volte, ci sono persone che hanno la necessità di muoversi continuamente, oppure molto compromesse nella capacità verbale: in questi casi, sono invitate a frequentare solo il pomeriggio della danza-movimento e il gruppo del teatro. Anche la posizione dei familiari è importante, perché il familiare tende a vedere il lato perdita, non il lato ancora vitale, perché è quello che lo fa maggiormente soffrire e quindi o nega la perdita o l’assolutizza.

Se ciò che si è perso non lo si recupera più, parlare di rieducazione funzionale è del tutto fuori luogo?

Nell’Alzheimer le funzioni motorie sono le ultime a venir meno anzi, molto spesso i malati camminano tantissimo anche negli stadi avanzati della malattia; forse si può parlare di rieducazione funzionale in senso lato, perché nel momento in cui tu recuperi una certa consapevolezza corporea, usi meglio quello che hai di residuo, in modo più efficiente. Soprattutto parlerei di attivazione di benessere. Teniamo presente che tutte le persone anziane hanno un rapporto conflittuale con il proprio corpo: un corpo pesante, per certi aspetti abbandonato e dimenticato, e per altri fin troppo presente, invadente nelle sue limitazioni. Il corpo, che fino a un certo punto della loro vita è stato veicolo di relazioni, ora ne rappresenta l’ostacolo, e quindi viene percepito come nemico. Vivere un momento di benessere corporeo rappresenta anche un momento di riconciliazione con il proprio corpo, riappropriazione di una dimensione vitale, gioiosa e liberatoria.

Sei soddisfatta dei risultati ottenuti?

Sono molto felice, ma non soddisfatta, perché vorrei aumentare il numero dei partecipanti, e soprattutto perché vorrei che da qui partisse un’ulteriore diramazione di rete, per lavorare dentro i condomini in cui queste persone abitano; una rete condominiale che possa essere promossa da loro, perché possano sentirsi protagonisti di un cambiamento sociale secondo un’immagine che loro hanno ancora dentro (esperienze abitative in cui c’erano maggiori possibilità di condivisione con i propri vicini, complici anche le stesse strutture architettoniche, tipo le case di ringhiera). Vorremmo anche potenziare delle attività intergenerazionali coinvolgendo i bambini, perché rispetto agli anziani hanno ritmi diversi, ma complementari e gli uni hanno bisogno degli altri. Purtroppo questa è un’infanzia poco educata alle relazioni. Crediamo che questo incontro tra generazioni sia vitale per i vecchi, ma anche per i bambini e per i giovani, per non far crescere generazioni senza radici.

 

AL CONFINE ONLUS

L’Associazione Al Confine Onlus nasce dalla consapevolezza dei confini rigidi (a volte vere e proprie barriere) che la cultura occidentale contemporanea ha creato all’interno della società, interrompendo di fatto quel libero scorrere di rapporti che nelle società tradizionali costituiva la base della solidarietà, della trasmissione di saperi e della convivialità: confini che separano le generazioni, ma anche le diverse condizioni biologiche, emotive, mentali e sociali definendo chi è sano e chi è malato, chi è produttivo e chi no, in sostanza chi è dentro e chi è fuori dai parametri di “normalità” generalmente riconosciuti. Un confine netto quindi tra membri attivi e passivi della società, “confinati” appunto questi ultimi al ruolo di fruitori di servizi impersonali confezionati per loro da “esperti”, svuotati perciò di ogni competenza su se stessi, oggetti di provvedimenti anziché soggetti della loro esistenza. Ci sentiamo perciò interpellati a rispondere portando il nostro contributo, in sintonia con diverse voci della cultura contemporanea, alla sperimentazione di pratiche che consentano la promozione della dignità della persona umana in ogni situazione esistenziale, riconoscendone il ruolo di soggetto della propria esistenza e delle proprie relazioni, restituendole competenza attraverso il potenziamento di tutte le risorse di cui il soggetto è depositario, favorendo lo scambio relazionale tra diverse componenti della società civile. Ci siamo quindi rivolti alla vecchiaia come tema in cui si incrociano e si concentrano molti stereotipi contemporanei, e insieme come ambito in cui riscoprire e valorizzare molta ricchezza umana spesso inespressa. E al rapporto tra generazioni come luogo privilegiato per la sperimentazione di nuove pratiche di convivialità. I soci fondatori dell’associazione provengono da una lunga esperienza nel campo delle professioni di aiuto, in contesto sanitario o educativo, e hanno maturato attraverso la loro esperienza professionale l’esigenza di sottrarre all’ambito strettamente sanitario la prevenzione e la cura del deterioramento cognitivo, negando la rigida equivalenza tra salute e assenza di deficit, alla ricerca di nuovi modelli di salute possibile, fondati sulle risorse presenti e sul reciproco scambio.

di Mia Dell’Agnello 
Pubblicato su Fitmed online 12/2010