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Supplementazione nutrizionale: necessità, illusione o danno?

24FY03BMNel 1999 il Ministero della Sanità ha emanato specifiche linee guida per disciplinare l’uso degli integratori alimentari, definiti “alimenti adattati a un intenso sforzo muscolare soprattutto per gli sportivi”, nel tentativo di proteggere il consumatore rispetto alle spinte promozionali di questi prodotti che, non essendo farmaci, non necessitano di prescrizione medica e sono spesso assunti senza un controllo adeguato. Mentre gli integratori energetici (a base di carboidrati, con l’aggiunta di qualche vitamina e a volte antiossidanti) e gli integratori idro-salinici (contenenti elettroliti eventualmente associati a zuccheri e vitamine) hanno un razionale d’uso, ovvero il loro utilizzo può essere giustificato in alcune situazioni, per le altre categorie di prodotti, salvo rare eccezioni, non è ancora stata scientificamente dimostrata una reale efficacia. Integratori che contengono proteine, aminoacidi, creatina e combinazioni variabili, sono acquistati da alte percentuali di sportivi, a tutti i livelli, non per sopperire a una mancanza nutrizionale, quanto piuttosto perché è diffusa l’opinione che questi integratori, assunti in dosi elevate, possano portare dei miglioramenti alle loro prestazioni. Si definiscono “ergogeni” e, in base ai poteri loro attribuiti dalla pubblicità sono:
- anabolizzanti, che hanno un effetto diretto sul metabolismo proteico e favoriscono il rilascio dell’ormone della crescita e/o del testosterone endogeno;
- aerobici, per aumentare la prestazione aerobica, intervengono sui meccanismi di utilizzo dei substrati energetici e sullo smaltimento dell’acido lattico;
- antiossidanti, con azione protettiva rispetto ai radicali liberi; – anoresizzanti e stimolanti, che agiscono sul sistema nervoso;
- ricostituenti, con azione generalizzata sull’organismo.
Il fatto che spesso gli ingredienti siano prodotti naturali (guaranà, ginseng, caffeina ecc.) non ne esclude la tossicità, soprattutto in merito ai dosaggi utilizzati. Per esempio, la dose di creatina normalmente assunta dai body builders e da molti di coloro che vogliono “metter su massa”, è di 20-25 grammi al giorno, corrispondente a oltre 12 Kg di carne, per lunghi periodi di tempo. Non esiste alcun tipo di certezza riguardo l’innocuità di questo comportamento, soprattutto a lungo termine. Eppure, l’assunzione di prodotti non vietati per doping (farmaci, vitamine, integratori alimentari) è una prassi ormai generalizzata, sia nell’amatore che nel professionista. In realtà, già nella definizione attribuita dal Ministero della Sanità sorge il primo dubbio: come quantificare un “intenso sforzo muscolare” che giustifichi l’assunzione di supplementi? È possibile che un corretto piano nutrizionale e una coerente pianificazione degli allenamenti e degli impegni sportivi soddisfino totalmente le esigenze di chi fa sport, anche ad alto livello? Il professor Fabrizio Angelini, medico endocrinologo, consulente nutrizionista della Juventus e consigliere nazionale SIAS (Società Italiana di Alimentazione e Sport), ci è venuto in soccorso e ha messo a disposizione tutta la sua esperienza e la sua competenza per rispondere a queste e altre domande.

Tendenzialmente, un programma alimentare studiato sull’atleta riesce a garantire il completo soddisfacimento dei suoi bisogni?
Innanzitutto, un piano nutrizionale deve essere frutto di un’accurata fase diagnostica, volta a investigare diversi fattori. A livello ematochimico generale, per verificare che non ci siano carenze (anemia), che l’apparato metabolico funzioni bene (funzionalità epatica e renale), che non siano presenti marker di infiammazione (es. proteina C-reattiva). Sono poi da valutare eventuali intolleranze alimentari, sebbene ancora non esistano metodiche certe per identificarle, ma alcuni test (es. il Test Alcat) se eseguiti dopo un’accurata anamnesi possono dare indicazioni interessanti. Poi, ancora, i parametri ormonali, soprattutto per quel che riguarda la funzione tiroidea, gonadica e surrenalica. Non trascurerei soprattutto negli atleti di endurance o top level la valutazione dello Stress Ossidativo, che può essere eseguita sia sul plasma (d-roms test e BAP) che sulle urine (dosaggio della malaldeide urinaria). Per quanto riguarda la composizione corporea, ritengo importante sottolineare un corretto utilizzo dell’impedenziometria, che non dà informazioni sulle masse, bensì sui liquidi corporei. Massa magra e massa grassa sono misure che si ricavano tramite equazioni indirette, che non sono così precise. L’impedenziometria, invece, fornice informazioni importanti sullo stato di idratazione e sulla quantità di cellule metabolicamente attive. La metodica standard per la valutazione delle masse corporee è la Dexa, che consente di avere anche informazioni segmentarie, per la valutazione della distribuzione del grasso corporeo o eventuali sviluppi asimmetrici della muscolatura. Va inoltre eseguita la valutazione del dispendio energetico, tramite calorimetria indiretta o holter metabolico o l’associazione dei due. Importante è, infine, l’anamnesi nutrizionale: come il soggetto mangia, orari di pasti e allenamenti, orari di sonno e veglia. La valutazione della sfera personale è tanto più importante nell’atleta amatoriale, la cui vita sportiva non è così rigorosa e deve essere fatta conciliare con la giornata lavorativa. Secondo gli ultimi dati della letteratura, un soggetto che svolge attività fisica due volte la settimana è considerato un sedentario. Quindi, già chi sostiene 4-5 allenamenti settimanali di buona intensità è da considerarsi un atleta con delle necessità che vanno oltre il maggiore fabbisogno calorico: il piano nutrizionale deve considerare la regolazione dei macro nutrienti, degli orari di assunzione, valutare la necessità di eventuali supplementi e considerare infine il valore antinfiammatorio, per evitare che l’atleta si infortuni troppo spesso o che recuperi bene quando gli impegni sono ravvicinati.

A suo parere è ragionevole che un atleta amatoriale, così come un frequentatore di centri fitness, assuma integratori alimentari? Come gestire in assenza di uno specialista posologie, scelte, dosaggi?
Intendiamoci sul concetto di integrazione alimentare. Se una persona svolge attività fisica con intensità media e si alimenta in maniera adeguata con un piano nutrizionale stabilito da un nutrizionista, il più delle volte non necessita di una supplementazione per l’attività sportiva; magari daremo delle indicazioni sul timing di assunzione dei nutrienti. Ma se il riferimento è il livello standard di alimentazione, quindi non calibrata nella quantità e nella qualità, allora la risposta è molto probabilmente affermativa, soprattutto per il discorso legato all’infiammazione. Quello che assolutamente non deve essere praticato è il faidate: creatina, aminoacidi ramificati, proteine, omega 3 tutte le integrazioni devono essere valutate all’interno di un piano nutrizionale gestito da un professionista, perché la loro assunzione sia giustificata da un razionale.

Eppure il faidate è molto diffuso… Prendiamo ad esempio la creatina, assunta, secondo gli studi effettuati dall’Istituto Superiore di Sanità, dal 50% degli atleti, e molto diffusa anche fra gli amatori: non esiste dimostrazione scientifica di un suo possibile effetto anabolizzante, e rispetto all’effetto energetico come riserva fisiologica per la contrazione per l’ATP, dura solo pochi secondi, quindi può essere utile solo negli sport che durano pochi minuti e che necessitano di uno sforzo immediato. Perché, a suo parere, questo prodotto è così utilizzato? La creatina è un integratore ottimo, ma deve avere un razionale: non tutti i tipi di sport ne giustificano l’assunzione, ma ci deve essere una prescrizione, non farmacologica, ma di integrazione. Altrimenti, parliamoci chiaro, è alterare la prestazione. Non si sa se la creatina assunta oltre una certa grammatura possa fare male, ma sicuramente non produce effetti positivi sulla performance. Non esistono dati in letteratura e questo vale per moltissime sostanze. Una supplementazione può essere motivata solo da una carenza, o da un momentaneo stress dell’organismo, che si può verificare, per esempio, dalla perdita di massa magra, per cui utilizzerò sostanze pro-anaboliche o anti-cataboliche. Se, per esempio, l’atleta deve sostenere un impegno fisico importante protratto nel tempo posso utilizzare anche sostanze ergogeniche, Altrimenti, si va contro al primo principio della nutrizione dello sport che dice: preserviamo la salute dei nostri atleti.

Molti considerano l’assunzione di integratori alimentari come l’anticamera del doping: lei è d’accordo con questa opinione?
Quando qualsiasi prodotto viene utilizzato senza uno specifico razionale e a dosi elevate, si entra nel sottile confine fra integrazione, supplementazione e doping. Ma sia chiaro: se cerco un’iper-dose è perché voglio ottenere un ipereffetto. I nostri nonni non avevano bisogno di un nutrizionista dello sport, perché il rapporto con l’alimentazione era molto diverso: il cibo era l’energia immagazzinata necessaria per svolgere la propria giornata. Oggi l’attività fisica viene limitata a una parte della giornata, uno sforzo concentrato in un breve lasso di tempo rispetto al normale stato di sedentarietà, e non è detto che questo produca effetti sempre positivi. L’amatore a volte è a rischio di salute più del professionista, perché non è seguito da nessuno. In questi atleti il ruolo del nutrizionista sarebbe fondamentale. Come Sias (Società Italiana di Alimentazione e Sport) stiamo strutturando un questionario anamnestico per svolgere un’indagine epidemiologica sulle abitudini alimentari dello sportivo, a partire da come si alimenta, si idrata, se usa integratori e chi glieli prescrive. Le faccio un altro esempio con delle sostanze che sono attualmente molto di moda: gli antiossidanti. Ebbene, lo stress ossidativo è molto difficile da individuare e riconoscere, è un processo fisiopatologico che conosciamo ancora poco, eppure sono ormai tantissimi sul mercato i prodotti venduti come in grado di combatterlo: che logica ha? Valutiamo lo stress ossidativo e poi interveniamo con un’antiossidazione mirata. Anche le vitamine… una dose da 500 mg di vitamina C ha sicuramente un’azione antiossidante, ma esistono delle modalità e delle necessità di assunzione. Certo che se un atleta si alimenta in modo scorretto, considerando anche che il valore nutrizionale degli alimenti non è più quello di un tempo, ci può essere una carenza vitaminica: ma la carenza nutrizionale va comunque rilevata.

La ricerca già citata condotta dall’Istituto Superiore di Sanità ha inquadrato questo fenomeno di abuso di sostanze come “medicalizzazione dell’atleta”: infatti, oltre a integratori (assunti dal 70% degli sportivi) e vitamine soprattutto C e D (dal 100%), si è registrato un abuso di farmaci veri e propri (soprattutto FANS, antidolorifici con azione antinfiammatoria, fra i più utilizzati, anche alla ricerca di un’azione preventiva sul DOMS). Uno studio effettuato dalla Fifa su rapporti redatti dai medici delle squadre che hanno partecipato ai mondiali del 2002 e del 2006 riporta cifre elevatissime di consumo di integratori e farmaci, numeri che, nelle parole del responsabile del settore medico della FIFA Jiri Dvorak «sollevano interrogativi sul fatto che i medicinali siano presi solo per ragioni terapeutiche» facendo ipotizzare una eccessiva prescrizione di farmaci per uomini adulti sostanzialmente sani. Qual è la sua opinione in merito?
Io non sono un medico dello sport, ma come medico non sono assolutamente d’accordo. L’atleta è fondamentalmente una persona sana, anche se il professionismo porta spesso con sé dei problemi fisici importanti. Ma una macchina che si usura prima non giustifica, comunque, l’utilizzo indiscriminato di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) o di altri tipi di trattamento. Sicuramente la possibilità di pianificare preparazioni atletiche sempre più mirate e individualmente differenziate rappresenta una difficoltà negli sport di squadra, ma io credo che l’atteggiamento tendenzialmente prescrittivo sia, purtroppo, anche retaggio della nostra formazione medica italiana. Il farmaco deve essere somministrato in fase acuta, quando c’è dolore, o infiammazione, sicuramente solo in presenza di una diagnosi. Invece, pensi solo che il pacco gara di una recente Stramilano conteneva un libretto di consigli utili*, in cui si indicava espressamente di prendere un’aspirina (che è un FANS) subito dopo la gara… ma si rende conto? Un anticoagulante! Teniamo anche conto che l’aspirina, andando a inibire le prostaglandine, ha un effetto negativo sulla diuresi e sul ricambio idrico… Poi è chiaro che, davanti a un trama acuto o infiammazione acuta, il medico deve fare il medico, anche se ci sarebbero comunque molti approcci diversi. Credo che l’approccio multidisciplinare, che include anche visioni non esclusivamente “mediche” come la fitoterapia, l’omeopatia, l’osteopatia, sia importante anche per capire il motivo che causa gli eventi traumatici o infiammatori. Altrimenti, è come prendere un antinfiammatorio per il mal di testa senza indagare mai sulle origini del mal di testa. Poi gli atleti si rompono lo stesso, ma se tenuti sotto controllo si riducono le incidenze.

* Da “10 consigli per la vostra prima maratona”, firmati da Linus. Con la collaborazione scientifica del Dottor Giuseppe Fischetto, specialista in Medicina dello Sport e Medicina Interna, responsabile Settore Sanitario Nazionale della Fidal, membro della Commissione Medica e antidoping della Federazione Internazionale atletica leggera. “tornano buoni due o tre consigli, questi sì uguali per tutti, dilettanti e professionisti. Subito dopo il traguardo un bicchiere di Coca Cola ha il potere di “ri-av-viare” il vostro stomaco come fate col vostro computer, qualcuno addirittura riesce a scolarsi una meravigliosa birra gelata. Poi un’aspirina per aiutare l’organismo a smaltire tutti i piccoli processi infiammatori, se non qualcosa di più potente con la supervisione di un medico sportivo”.

PROF. FABRIZIO ANGELINI
Medico Chirurgo Specialista in Endocrinologia – Docente di Psiconeuroendocrinologia Università di Parma – Medico Nutrizionista Juventus Fc Torino – Responsabile Sezione Nutrizione e Sport SIAS.

di Mia Dell’Agnello
pubblicato su Professione Fitness 4-2009

Integrazione alimentare: che Zibaldone!

11617.14425Poco più di un anno fa Federsalus (Federazione Nazionale Produttori Prodotti Salutistici) ha presentato una ricerca, realizzata da Eta Meta Research, dal titolo “Il consumo di integratori alimentari in Italia”, volta a indagare l’universo dei consumatori (abituali o saltuari) di integratori alimentari. I dati emersi indicano innanzitutto che si tratta di un fenomeno consolidato, che trova nella ricerca della salute e del benessere psico-fisico la sua motivazione principale. Gli integratori più utilizzati sono soprattutto a base di vitamine, sali minerali (52,5%) e fermenti lattici (36%), seguiti da crusche e altre fibre/lieviti (15,9%) e prodotti energetici sportivi (14,4%). Questi ultimi sono scelti prevalentemente da un pubblico maschile, anche se, in genere, è il sesso femminile a utilizzare maggiormente gli integratori alimentari. A completare il profilo del consumatore, un livello di istruzione medio-alto, con buona predisposizione allo sport e alla cura dell’alimentazione. La maggioranza degli utilizzatori intervistati ne fa un uso regolare da oltre due anni e per gli acquisti si fa consigliare dal medico o dal farmacista, anche se è molto in uso la pratica del “fai da te” e del “passaparola” (quasi il 36% degli intervistati, percentuale che quasi raddoppia fra gli acquirenti del supermercato).
Dai dati presentati emergono due aspetti fondamentali. Il primo, riguarda l’interesse vivo e in crescita nei confronti degli integratori, interesse che non riguarda solo il target degli sportivi, ma fasce sempre più ampie di popolazione; il secondo aspetto pone in primo piano il valore fondamentale della comunicazione e la conseguente necessità di fornire informazioni corrette. In realtà, indagando sia le informazioni che passano attraverso i mass media, che quelle dei canali scientifici “ufficiali”, se ne ricava un quadro molto confuso, quando non contraddittorio, in cui è spesso difficile orientarsi.

L’AMBIGUO MONDO DEI MICRONUTRIENTI
La ricerca nel campo della nutrizione vanta una produzione vastissima di lavori ed è in continua evoluzione, ma questo può spiegare solo parzialmente la difformità di giudizio che emerge, soprattutto a proposito dell’integrazione alimentare dei micronutrienti, fra cui le vitamine rappresentano le sostanze più dibattute. Sono stati realizzati moltissimi studi che definiscono le vitamine “alimenti miracolosi”, così come altrettanti le dichiarano dannose per la salute. In tutti i casi, gli studi sono sempre suffragati da “evidenze scientifiche”. La Vitamina C, secondo le annate, è stata vilipesa o idolatrata. Diventata famosa quale antidoto per il raffreddore, è stata successivamente definita una vitamina “patetica” per la sua inutilità, quindi accusata di far venire il cancro se presa in dosi eccessive, quindi dichiarata in grado di uccidere le cellule cancerogene, se assunta per endovena in dosi elevate. Stessa sorte per la Vitamina D, che la pelle sintetizza come reazione fotochimica all’esposizione ai raggi di luce ultravioletta provenienti dal sole: dopo il grande interesse suscitato negli anni ‘20 per combattere il rachitismo, e il relativo disinteresse nei decenni successivi, è stata nuovamente riesumata per i suoi sorprendenti effetti anti cancro. Strettamente connessa all’osteoporosi, influenza la capacità dell’organismo di utilizzare il calcio. Anche a proposito dell’integrazione alimentare di calcio gli studi scientifici hanno dato risultati spesso contraddittori. Per anni consigliato per la prevenzione e cura dell’osteoporosi, è stato successivamente messo sul banco degli imputati. Uno studio epidemiologico condotto sulla popolazione femminile americana evidenziava percentuali di osteoporosi da record, nonostante i quantitativi di calcio assunti fossero fra i più alti al mondo. Altri studi rilevarono che il calcio preso in eccesso e non assorbito, poteva avere delle conseguenze anche importanti, come l’artrosi, i calcoli renali fino al favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Dunque, si affermò che il calcio non poteva essere assorbito nelle ossa senza l’aiuto del magnesio, dando il via a una nuova produzione di studi volti a suffragarne i grandi poteri: non solo si dimostrò che rallentava la perdita di massa ossea, ma addirittura invertiva il processo di osteoporosi, oltre ad aiutare la prevenzione delle malattie cardiache. Stessa grande confusione anche per quanto riguarda gli intermedi metabolici carnitina e creatina; basti dire, a proposito di quest’ultima, che in Italia il suo consumo è lecito, mentre in Francia è vietato e punito dalla legge sportiva.

FRA MEDICINA E ALIMENTAZIONE
Nel 2002, per uniformare le differenti leggi nazionali e proteggere la salute dei consumatori, è stata emanata la direttiva europea sugli integratori alimentari. Quando la direttiva è stata approvata, alcune questioni importanti sono state rimandate a decisioni future, fra cui i limiti di dosaggio di vitamine e minerali contenuti negli integratori e le fonti di nutrienti da permettere in questi prodotti. A distanza di sei anni, non è ancora stata presa alcuna decisione in merito, e non è difficile capire il perché. Gli integratori alimentari sono disciplinati dalla legislazione sui prodotti alimentari, perché non è riconosciuto loro nessun effetto terapeutico: eventuali indicazioni relative a cura o prevenzione di malattie farebbero rientrare il prodotto nel quadro legislativo dei medicinali. Dunque, si presuppone che l’alimentazione non abbia niente a che fare con la salute: il quadro legislativo dei medicinali, coerentemente, non ha posto per i nutrienti, quindi non si prevede che una sostanza nutriente, anche in forma concentrata, possa avere qualche effetto su una malattia specifica. Partendo da questi presupposti, è difficile stabilire dei limiti di dosaggio. Il contraddittorio di fondo è che da una parte si riconosce l’importanza di una corretta alimentazione per la salute e la prevenzione di alcune malattie, mentre dall’altra si impedisce qualsiasi informazione sulle proprietà dei nutrienti in questo senso. Inoltre, i limiti di dosaggio dovrebbero presupporre un’evidenza scientifica riguardo la dannosità di un nutriente oltre determinati dosaggi, evidenza che, a oggi, non è ancora stata dimostrata. Trattandosi di alimenti, dunque, la decisione se e in quale dose assumerne dovrebbe rientrare nella sfera delle decisioni personali, non certo imposta da direttive governative o sovranazionali. Anche in Italia gli integratori sono considerati come prodotti appartenenti all’area alimentare. Riguardo i livelli di assunzione massima giornaliera, si fa riferimento all’indicazione orientativa e generica di attenersi entro limiti di sicurezza (upper safe level), tenendo in considerazione le RDA (recommended dietary allowances). Eppure, nonostante siano considerati come prodotti alimentari, gli integratori, se assunti a scopo curativo, sono detraibili (fonte: rivista “Primo Piano Fiscale”), quindi considerati come i medicinali. L’Agenzia delle Entrate, infatti, ha affermato che “i prodotti detti integratori alimentari se prescritti da un medico specialista a scopo curativo possono essere detratti ai sensi dell’art. 15 del TUIR. La stessa cosa vale se a prescriverli è il medico di base”. Per la detrazione fiscale occorre lo scontrino fiscale parlante, ossia lo scontrino che indica il nome del prodotto, la natura e la quantità, e il codice fiscale dell’assistito, allegando preferibilmente la prescrizione medica (come avviene per la detrazione di tutti i prodotti non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale).

INTEGRAZIONE SPORTIVA
Nel 2006 è stata condotta un’indagine su oltre 1500 atleti dalla Commissione di Vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute e delle attività sportive del Ministero della Salute (CVD). Il 64% del campione dichiarò di aver assunto prodotti farmaceutici, compresi omeopatici (soprattutto antinfiammatori), e prodotti salutistici in genere, nelle due settimane antecedenti il prelievo. Il 30% dei prodotti salutistici assunti sono rappresentati prevalentemente da sali minerali, vitamine, aminoacidi e derivati, estratti erboristici e da integratori alimentari, ovvero formulazione di varie associazioni di tutti questi prodotti. A farne largo uso sono atleti e sportivi, professionisti e dilettanti, che alimentano un mercato di dimensioni sempre più importanti e con ottime prospettive di ulteriore espansione. Ma se da una parte l’integrazione può costituire un’effettiva necessità, giustificata ed efficace, dall’altra può anche essere inutile ed eccessiva, se non addirittura illegale: il confine tra integrazione lecita e illecita è molto sottile, tanto che la sola definizione risulta estremamente difficile, a partire dal termine stesso di “integrazione”. Con questa parola ci si riferisce al fatto che, durante l’attività sportiva, si consumano sostanze biologiche che poi devono essere reintegrate, supportando i processi naturali fisiologici con aiuti specifici esterni. Eppure, durante l’attività fisica sono diverse le sostanze consumate, incluse quelle ormonali, e questo non può rappresentare un valido motivo per assumere, per esempio, testosterone o GH. Nelle “Linee Guida su integratori alimentari, alimenti arricchiti e funzionali” pubblicate dal Ministero della Salute, si definiscono integratori o complementi alimentari quei “prodotti che costituiscono una fonte concentrata di nutrienti o sostanze a effetto fisiologico, sia mono che pluricomposti, destinati a integrare o a complementare la dieta. Sono presentati in forma di tavolette, capsule, compresse, flaconcini e simili per fornire un apporto predefinito di nutrienti e/o di sostanze a effetto fisiologico”. Nella denominazione deve figurare la dizione “integratore alimentare” o “complemento alimentare”. Sono suddivisi in:
- integratori di vitamine e/o di minerali;
- integratori di altri “fattori nutrizionali”;
- integratori di aminoacidi;
- derivati di aminoacidi;
- integratori di proteine e/o energetici;
- integratori di acidi grassi;
- integratori a base di probiotici;
- integratori di fibra;
- integratori o complementi alimentari a base di ingredienti costituiti da piante o derivati.
Gli integratori alimentari sono naturalmente acquistabili senza prescrizione medica e sono liberamente venduti in farmacia, supermercati, erboristerie, palestre e negozi specializzati. Questa notevole disponibilità ha contribuito a generare molta confusione rispetto alla loro funzione ed efficacia, oltre che un certo avventato pressappochismo riguardo a posologia e modalità d’uso. Soprattutto in riferimento ad alcune categorie di prodotto ci si trova spesso davanti a scelte insidiose, su una linea borderline fra lecito e illecito difficilmente identificabile. Si tratta di un settore in continua evoluzione, in cui, di fatto, la legittimità si basa più su questioni etiche che scientifiche e per questo risulta difficilmente ingabbiabile in una normativa che non lasci spazio alla libertà d’interpretazione e all’abuso. Appellarsi al buon senso, come spesso accade, risulta la migliore soluzione.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 3/2008 

Coltivare talenti. Strumenti di fidelizzazione del personale nei centri fitness

aperturaNel settore fitness, la fidelizzazione del cliente è un tema che conosciamo quasi a memoria. Eletto dai vari “markettari” come l’argomento degli argomenti, su di esso si sfidano a colpi di strategie di successo, campagne mirate, tecniche vincenti… I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con una media di fidelizzazione del cliente dichiarata che oscilla fra il 60 e il 65% (quella reale pare, dico pare, che sia decisamente inferiore…). Che sia poco o tanto in termini assoluti non ci è dato di sapere, ma sicuramente è insufficiente per le esigenze del mercato. Dunque, vista la perseveranza con cui ci si ostina ad affrontare l’argomento, perché non proviamo, se non altro, a cambiare il punto di vista, l’oggetto delle nostre attenzioni? Perché non cominciamo a parlare di fidelizzazione dei collaboratori? Il turnover del personale non è negativo di per sé: esistono ruoli e mansioni che, per loro stessa natura, non prevedono un consolidamento all’interno dell’azienda. Ma il problema si pone quando il continuo ricambio di personale diventa un costo eccessivo, un investimento di tempo e denaro che non riesce più a essere ammortizzato. Inoltre, anche nel settore fitness e sport, per una volta, proviamo a usare il termine “Risorse Umane”: buffo, no? Risorse, si usa dire, ovvero “qualsiasi mezzo che ponga in condizioni di affrontare e superare una difficoltà di ordine materiale o spirituale”. Dunque non un centro di costo, ma una risorsa? Strano, questo punto di vista. Bene, per assurdo, continuando su questo percorso, perché non provare anche a considerare che fra queste Risorse ci possono essere dei Talenti, ovvero persone particolarmente dotate di cui non solo riconosciamo l’utilità per l’azienda nel presente, ma di cui intravediamo anche un possibile vantaggio nel futuro? Collaboratori su cui investire per avere poi al proprio fianco persone preparate, di fiducia e responsabili. Una chimera, in un mercato del lavoro precario come questo? Eppure, qualcosa si può fare, oltre al solito quanto svilente mercanteggiare intorno a una tariffa oraria. Esistono strumenti di fidelizzazione un po’ più “evoluti” ed efficaci, e non per questo “costosi” per l’azienda. Ne abbiamo parlato con Lara Carrese, Responsabile delle Risorse Umane DeAgostini (divisione prodotti collezionabili).

Gestione delle risorse umane: da dove partire?
Presupposto fondamentale per tutti i discorsi che ruotano attorno al management del personale è che l’azienda debba porsi un obiettivo specifico, (ad esempio, diventare entro un triennio leader di zona del settore fitness), per il cui raggiungimento è necessario mettere in atto determinate strategie da cui dipende e cui corrisponde una data struttura organizzativa, caratterizzata da specifiche qualifiche, competenze ed esperienze. Una volta definita la strategia di business, è possibile individuare l’assetto organizzativo migliore e i parametri per la gestione delle risorse umane. Normalmente, la retribuzione si basa sul concetto di Total Rewad, ovvero un modello di retribuzione cui contribuiscono: retribuzione base, retribuzione variabile (MBO) e una serie di fattori meno misurabili, ma assolutamente impattanti (social benefits e intangibles).

Come stabilire la retribuzione base?
La retribuzione base deve essere chiara e definita: a un certo tipo di professionalità deve corrispondere un certo tipo di retribuzione. È necessario che le regole del gioco siano inequivocabili e coerenti, per evitare di creare iniquità di trattamento. Una pratica molto utilizzata dalle aziende è quella di individuare diversi scaglioni di categorie professionali, seguendo determinati parametri di riferimento, come gli anni di esperienza, le competenze acquisite, il titolo di studio, esperienze chiave, certificazioni, conoscenze… All’interno di ogni scaglione si stabiliscono quindi delle forbici di retribuzione minime e massime cui attenersi.

In cosa consiste la quota variabile?
La quota variabile della retribuzione è generalmente rappresentata dai “premi aziendali”. Naturalmente, è più facile e immediato stabilire un sistema di premi per chi è a diretto contatto con il mercato, i venditori, i cui risultati sono più facilmente valutabili. Ciò non esclude la possibilità di applicare questo sistema incentivante anche a posizioni di staff meno di linea, ma ugualmente valutabili. A questo punto, però, diventa fondamentale stabilire con esattezza i termini di valutazione. Nel caso della receptionist, ad esempio, dimostrare una “costumer orientation” alta, attraverso la qualità e la tempistica delle risposte, è sicuramente uno dei parametri validi su cui effettuare una valutazione. Il sistema funziona ma, per poter essere applicato con successo, presuppone un fattore fondamentale: un responsabile che sappia porre gli obiettivi in modo chiaro, preciso, inequivocabile e motivante. In caso contrario, risulterà essere solo un passaggio burocratico privo di significati, piuttosto che un boomerang. I premi per obiettivi devono assolutamente essere condivisi; sia che si tratti di obiettivi quantitativi che qualitativi, devono poter essere misurabili. Soprattutto nel caso di obiettivi qualitativi, il rapporto fra valutatore e valutato è un aspetto chiave, che deve essere caratterizzato da una comunicazione costante e trasparente. Solo in questo modo, sia la fase di attribuzione di un valore agli obiettivi fissati che la valutazione finale, potranno essere svolte da entrambi con serena consapevolezza e onestà intellettuale. Il sistema premiante è valido per due fondamentali ragioni: dal punto di vista puramente gestionale/economico, permette all’azienda di toccare solo in modo marginale la quota fissa della retribuzione, consentendo, dal punto di vista manageriale, un controllo dei costi. Allo stesso tempo, permette di motivare le persone rendendole, in un certo senso, corresponsabili della propria performance. Il sistema premiante MBO (Management By Objective), che si aggiunge alla retribuzione base, rappresenta un cambiamento epocale dello stile manageriale, perché si passa dal concetto puro di “obbedienza” alla condivisione di responsabilità, limitatamente, sia chiaro, al raggiungimento dei propri obiettivi, stabiliti di concerto con il datore di lavoro. Sempre parlando di incentivi monetari, si possono stabilire dei “piani di fidelizzazione” rivolti a determinate professionalità, individuate come particolarmente chiave per l’azienda. Ad esempio, molto banalmente, si può stabilire che, dopo tre anni di servizio, al proprio collaboratore sarà riconosciuto un premio pari a una percentuale della sua retribuzione annua, una cifra fissa che lo invogli a restare in azienda, mettendo a disposizione i propri servizi.

Cosa sono i benefits e gli intangibles?
La leva economica è molto utilizzata dalle aziende, ma da sola può risultare inefficace. Spesso è necessario anche utilizzare delle chiavi più “soft”, che agiscono sulla motivazione a rimanere: i benefit e gli intangibles. I benefits sono degli incentivi non monetari rappresentati da strumenti o da servizi che l’azienda mette a disposizione dei propri collaboratori. Strumenti possono essere il cellulare, il PC portatile, l’auto aziendale o, nel nostro caso, attrezzature per svolgere al meglio le sessioni di personal trainig. Servizi sono da considerare tutti quei benefit che facilitano la vita del proprio collaboratore, mettendolo in condizione di lavorare meglio e di migliorare la propria performance. Si basano sul concetto di “Work-life balance”, ovvero riuscire a conciliare con il giusto equilibrio la vita privata e quella lavorativa. Qualche esempio: convenzioni con servizi di lavanderia, possibilità di utilizzare un “factotum aziendale” cui affidare piccole mansioni (pagare le bollette, effettuare consegne), consulenza fiscale. Altro benefit molto considerato è la possibilità di accedere a pacchetti assicurativi agevolati (assicurazione infortuni, mediche, pensionistiche) sia per il collaboratore che per il suo nucleo familiare. Nel caso dei centri fitness, ad esempio, può essere considerato un benefit la possibilità di offrire un certo numero di abbonamenti open al proprio collaboratore per i suoi familiari. Intangibles sono tutti quei fattori intangibili che agiscono come motivazionali e fidelizzanti sui collaboratori: corsi di formazione, piani di sviluppo e crescita, modalità che contribuiscono a creare il senso di appartenenza all’azienda. Fra queste sottolineo sicuramente l’importanza della pratica di “self assesment”, ovvero di autovalutazione. Può essere proposta a tutti i collaboratori con un alto grado di performance, indipendentemente dal loro inquadramento e ruolo. Base di partenza è una sessione di autovalutazione, che ha lo scopo di identificare le aree in cui quella persona ha bisogno di migliorare, di costruire più competenze, che siano manageriali o tecniche. Sulla base del self assesment e nell’ambito delle proprie esigenze strutturali, l’azienda offre la possibilità di intraprendere un percorso di crescita e apprendimento, che si sviluppa tramite corsi di formazione e aggiornamento, delineando piani di sviluppo e carriera per quella persona all’interno dell’azienda stessa. Si crea così una specie di “patto di fiducia” fra il collaboratore e l’azienda, molto fidelizzante e poco oneroso, perché non impatta direttamente sulla retribuzione, ma è considerato un valore aggiunto molto importante. Altro strumento sicuramente fidelizzante è offrire ampliamenti di responsabilità e di “esposizione”, dichiarando qualcuno totalmente responsabile, “proprietario” è il termine che si usa in gergo manageriale, di una determinata area di attività o competenza. Tipico esempio all’interno del centro fitness è l’istruttore in sala pesi che, dopo un certo tempo e a fronte di buone prestazioni, diventa responsabile di tutto il settore tecnico. È una leva motivazionale molto forte, che rende quella persona consapevole del proprio posto nell’azienda; questo avanzamento di carriera, naturalmente, deve andare di pari passo con un’adeguata crescita retributiva.

Qual è il suo pensiero su meeting, convention riunioni incentivanti?
Innanzitutto, io credo che l’aspetto fondamentale sia rappresentato dalla comunicazione interna, che deve essere il più possibile trasparente e condivisa. Condividere informazioni e dati non ha solo il vantaggio di aumentare il livello di efficienza di tutti i comparti, ma ha anche un riflesso molto positivo sul clima interno di tutta la società. Una comunicazione interna ben gestita rafforza il senso di appartenenza all’azienda e questo è importante anche per aziende di piccole dimensioni. Comunicare obiettivi e progetti strategici, richiedere pareri e sollecitare colloqui: tutto ciò contribuisce a creare un senso di consapevolezza e anche, se vogliamo, di orgoglio aziendale. In questo ambito sono assolutamente positivi anche degli incontri periodici, come meeting e convention, che possono anche diventare momenti di condivisione sociale e culturale. Molte aziende propongono meeting sociali obbligatori, organizzati un paio di volte all’anno, in genere in occasione del Natale e prima dell’estate, il cui scopo fondamentale è quello di favorire la socializzazione. Questo tipo di intervento può avere senso solo se supportato da un messaggio aziendale generale e costante di condivisione di visioni e di comunicazione aperta. I momenti di socializzazione in contesti fertili sono positivi, rappresentano un tassello di supporto a una cultura organizzativa basata sulla condivisione e sulla partecipazione. Se non esistono questi presupposti, è meglio lasciar perdere: la Regola d’oro nella gestione del personale, al di là di tutte le teorie, resta ancora quella del buon senso.

LARA CARRESE
10 anni di esperienza, maturata sia in Italia che all’estero, nell’ambito della gestione del personale presso realtà aziendali multinazionali (Deloitte Consulting, Tenaris). Attualmente HR Manager presso la divisione prodotti collezionabili di DeAgostini, con responsabilità su tutti i Paesi nei quali la divisione è presente.

Di Mia Dell’Agnello

Pubblicato su Professione Fitness 3/2007

Art4Sport

Art4Sport by Ram FamilyI bambini che hanno subito amputazioni, o che sono nati senza uno o più arti, hanno gli stessi sogni e gli stessi desideri di tutti gli altri bambini. La moderna tecnologia permette di sostituire gli arti mancanti con protesi tecnicamente funzionali ed esteticamente accettabili, anche se ancora molto pesanti e scomode da utilizzare, in particolare per l’arto inferiore, poiché fanno gravare tutto il peso del corpo sui monconi, creando così molti dolori e difficoltà di sopportazione. Per ridurre al minimo questi problemi le protesi devono avere un adattamento perfetto sul moncone e qualsiasi variazione della struttura e del peso del corpo richiede una modifica o una sostituzione. In particolare i bambini, essendo in fase di crescita, devono sostituire le protesi circa 2 volte l’anno. Uno dei migliori sistemi per mantenere una favorevole condizione fisica per il bambino protesizzato è, come per tutti i bambini, quello di praticare attività sportive. Lo sport è fondamentale per la crescita e lo sviluppo non solo dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista psicologico, perché dà enormi motivazioni e soddisfazioni. Sfortunatamente, per i bambini con amputazioni ciò non è facilmente realizzabile e le cause sono soprattutto di carattere economico, ma riguardano anche la mancanza di impianti adeguati e le difficoltà che le singole società sportive riscontrano per procurarsi le attrezzature adatte. Le protesi per le attività sportive non sono sovvenzionate dal sistema sanitario nazionale e anche le federazioni sportive non sono generalmente in grado di accollarsi questi importanti esborsi. Per esempio, un paio di lame da corsa ad alto impatto (tipo quelle di Oscar Pistorius) possono arrivare a costare fino a 50.000 euro. Nel caso di un atleta adulto hanno una durata di 4-5 anni, ma per un bambino la struttura base dura al massimo un paio di anni, mentre gli invasi per i monconi devono essere sostituiti a intervalli di pochi mesi, in dipendenza della crescita individuale del giovane sportivo. Art4Sport è un’associazione no-profit creata da chi crede fermamente nella terapia dello sport per i bambini con amputazioni. Principalmente, si prefigge i seguenti scopi: raccogliere fondi per progetti di ricerca, sviluppo e realizzazione di protesi per attività sportive per bambini e ragazzi; creare un database nazionale di istruttori specializzati per bambini con amputazioni; creare un network globale di organizzazioni che possa essere un valido riferimento per tutti.

Per info: www.art4sport.org

di Mia Dell’Agnello
pubblicato su Professione Fitness 4/2009

Caffeina, bevande energetiche e prestazione sportiva

Coffee beans - Stimulant drug for home and officeBevande energetiche contenenti caffeina sono supplementi popolari che hanno usi variabile sia fra gli atleti che fra i non atleti. Questo studio, condotto da William P. McCormack e Jay R. Hoffman, dimostra che tali bevande sono efficaci nel migliorare le prestazioni di resistenza, ma non lo sono altrettanto nelle prestazioni di forza e potenza. La review, presentata sull’ultimo numero di “Strength & Conditioning Journal”, si concentra sull’efficacia di tali prodotti (caffeina da sola o in combinazione con altri ingredienti) sulla performance nei tempi di reazione, durante un’attività prolungata e il loro ruolo durante le prestazioni di potenza.  La popolarità delle bevande energetiche sembra essere in costante aumento. Recenti evidenze suggeriscono che le bevande energetiche sono disponibili in più di 140 paesi e le vendite nel 2011 hanno superato i 9 miliardi di euro (1). Le strategie di marketing sono rivolte a giovani popolazioni sportive, le aziende produttrici sono spesso sponsor di manifestazioni sportive e utilizzano atleti agonisti come testimonial; la metà delle bevande energetiche è venduta a persone di 25 anni e più giovani. L’ingrediente principale nelle bevande energetiche è la caffeina, addizionata, per migliorarne l’effetto, con vari ingredienti aggiuntivi per fornire un effetto sinergico o additivo. Nella letteratura scientifica l’efficacia della caffeina, da sola e con varie combinazioni di ingredienti, è stata accertata in relazione alle prestazioni di resistenza. Gli studi hanno dimostrato che la caffeina migliora le prestazioni negli sport a lunga distanza come corsa, bicicletta (2, 3, 4, 5, 6, 7), canottaggio (8), e nuoto (9). Tuttavia, la ricerca è stata equivoca quando esamina l’effetto della caffeina sulle prestazioni di forza e potenza. L’obiettivo di questa review è di fornire una migliore comprensione del ruolo ergogenico che le bevande energetiche a base di caffeina hanno sulla forza, la potenza e le prestazioni nell’esercizio anaerobico.

MECCANISMO D’AZIONE
La caffeina è uno stimolante del sistema nervoso centrale (SNC) e i suoi effetti sono simili, ma ovviamente più deboli, a quelli associati alle anfetamine. La caffeina è utilizzata come ausilio ergogenico dagli atleti che svolgono sia attività aerobiche che anaerobiche. Tuttavia, i meccanismi di azione possono essere molto diversi. Nell’attività aerobica si pensa che la caffeina prolunghi l’esercizio di resistenza grazie all’aumento dell’ossidazione dei grassi per la mobilitazione degli acidi grassi liberati dal tessuto adiposo o depositi di grasso intramuscolare (10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17). Il maggior uso di grassi come fonte di energia primaria rallenta la carenza di glicogeno e ritarda l’affaticamento. Tuttavia, alcuni ricercatori hanno messo in discussione questo meccanismo (18, 19, 20, 21). Nell’esercizio di breve durata ad alta intensità, l’effetto ergogenico primario attribuito alla supplementazione di caffeina è di aumentare la produzione di energia. Gli studi analizzati riportano un certo numero di possibili meccanismi per spiegare l’effetto della caffeina sulle prestazioni di forza-potenza; questi meccanismi comprendono azioni sia sul SNC che sui sistemi neuromuscolari. Uno degli effetti più significativi della caffeina sul SNC è la sua azione di antagonista selettivo dei recettori dell’adenosina, essendo le due molecole strutturalmente simili fra loro. L’adenosina è una sostanza chimica, prodotta in modo naturale, che agisce da messaggero nella regolazione dell’attività cerebrale e modulando lo stato di veglia e di sonno. La caffeina quindi agisce come un inibitore competitivo, ritardando la sensazione di stanchezza e riducendo gli effetti inibitori dell’adenosina (22, 23). In una meta-analisi di Warren et al. (24), è stato suggerito che l’effetto della caffeina sul SNC porterebbe a un miglioramento dell’attivazione muscolare (unità motore). Inoltre, è stato provato che la caffeina ha qualche effetto analgesico, abbassando la soglia di dolore e il rating di sforzo percepito (25, 26, 27). Alcuni studi suggeriscono che l’assunzione di caffeina migliori la relazione eccitazione/contrazione muscolare, interessando sia la trasmissione neuromuscolare che la mobilitazione di ioni calcio intracellulari del reticolo sarcoplasmatico (28). Infine, è stato anche ipotizzato cha la caffeina determini un miglioramento della cinetica degli enzimi regolatori della glicolisi, come la fosforilasi (29).

EFFETTO DELLA CAFFEINA SU PRESTAZIONI DI FORZA E POTENZA
Non vi sono evidenze scientifiche sufficienti a sostenere l’effetto della caffeina come ausilio ergogenico nelle attività anaerobiche di forza e potenza. Diversi studi hanno esaminato l’effetto del consumo di energy drink prima dell’esercizio e hanno dimostrato un aumento significativo del volume della performance (numero di ripetizioni effettuate) nelle prestazioni di potenza (30, 31, 32, 33). Queste bevande energetiche spesso hanno una “matrice energetica” che può contenere caffeina, taurina e glucuronolattone, ma contengono anche ingredienti aggiuntivi come aminoacidi, creatina e betaalanina. Questi ingredienti non sono progettati per fornire una carica d’energia, ma per migliorare il recupero e fornire l’apporto giornaliero necessario per aumentare la resistenza e le prestazioni di potenza. Per quanto riguarda l’effetto di questi mix di sostanze energetiche sull’aumento del volume di allenamento, i risultati di molti studi ne hanno confermato l’efficacia, così come sono stati registrati significativi aumenti di picco e potenza media espressa per ripetizione (34). L’uso di bevande energetiche può anche avere efficacia nel mantenere le prestazioni di forza dopo l’esercizio esaustivo, mentre sembra essere ininfluente sull’espressione di potenza anaerobica durante l’esercizio ad alta intensità.

CAFFEINA E SPRINT, AGILITÀ E TEMPI DI REAZIONE
È stato dimostrato che l’ingestione di caffeina fornisce un effetto ergogenico sulle prestazioni di sprint ripetuti. Schneiker et al. (35) nel loro studio hanno simulato le esigenze fisiologiche richieste in uno sport di squadra in un contesto competitivo; dopo l’ingestione di caffeina hanno riportato miglioramenti significativi nelle prestazioni di sprint. L’ingestione in dosi importanti di bevande energetiche contenenti caffeina sembra anche avere alcuni potenziali effetti benefici sulle prestazioni di agilità e velocità di reazione. Diversi studi hanno dimostrato che le bevande energetiche possono avere un effetto significativo sulla capacità reattiva e aumentare la concentrazione, l’attenzione e la memoria (36, 37).

DOSE-RISPOSTA
La dose utilizzata nella maggior parte degli studi che dimostrano un effetto positivo della supplementazione di caffeina è di 5-6 mg/kg di peso corporeo. Ciò significa che la dose media per una persona di 80 kg sarebbe approssimativamente di 400 mg di caffeina. Per confronto, una tazza di caffè filtrato contiene tra 110 e 150 mg di caffeina (per circa 23 cl); la classica lattina di Coca Cola o Pepsi (33 cl) ne contiene tra i 30 e i 40 mg. Le bevande energetiche in genere contengono tra 75 e 80 mg di caffeina per 23 cl, anche se alcune ne contengono fino al 174 mg per dose. Nessun effetto significativo è stato rilevato per l’assunzione di dosi minori di caffeina.

LA CAFFEINA È DOPING?
Prima del 2004 la World Anti- Doping Agency (WADA) aveva stabilito uno specifico livello di soglia per considerare doping l’assunzione di caffeina, ma questa restrizione fu in seguito eliminata. Attualmente la caffeina non è contemplata nella lista delle sostanze proibite, sia perché fa parte della dieta abituale della popolazione (sportiva e non), sia perché ha tempi di metabolizzazione molto diversi da soggetto a soggetto. La WADA l’ha invece inserita nel suo “programma di monitoraggio”, che comprende le sostanze che non sono vietate nello sport, ma che sono controllate al fine di individuare eventuali modelli di abuso nello sport. Quindi i livelli di caffeina sono ancora testati e riportati nel test delle urine, ma non ne è vietato l’uso. Negli anni 2010 e 2011 non sono stati rilevati modelli specifici di abuso di caffeina nello sport, anche se ne è stato osservato un aumento significativo nella popolazione atletica.

APPLICAZIONI PRATICHE
La caffeina e le bevande energetiche sembrano avere un effetto ergogenico sulla resistenza nelle prestazioni di potenza. In particolare, l’integrazione con caffeina o una bevanda energetica che contiene caffeina e altri ingredienti può migliorare la qualità di un allenamento aumentando il numero di ripetizioni eseguite e la potenza espressa per ripetizione: ciò può avere importanti implicazioni per la resistenza a lungo termine e le possibilità di sviluppo muscolare. L’uso di un integratore ad “alta energia” può influire sulle prestazioni atletiche ritardando fatica e migliorando il tempo di reazione. Così, la caffeina da sola e in combinazione con altri ingredienti sinergici, può fornire un vantaggio competitivo per gli atleti, pur rispettando la dose minima di 5-6 mg/kg di peso corporeo. Non vi è prova convincente che suggerisca che la caffeina abbia una qualche influenza sul SNC e sul sistema neuromuscolare: sono necessarie ulteriori ricerche in questo campo per definire chiaramente i meccanismi di lavoro. Come tutti gli integratori, le bevande energetiche e la supplementazione di caffeina devono essere assunte con cautela. Gli effetti avversi riportati dopo il consumo di energy drink includono insonnia, nervosismo, mal di testa, tachicardia (38). Se si è in presenza di un problema cardiovascolare, la supplementazione con bevande energetiche o caffeina deve essere discussa con il medico.

CARTA D’IDENTITÀ
La caffeina è una xantina, un alcaloide che si trova in diverse piante come i chicchi di caffé e i semi di cacao, le foglie di tè, le bacche di guaranà e le noci di cola. Il contenuto medio di caffeina è di circa 85 mg per 150 ml (1 tazza) nel caffé tostato macinato, di 60 mg nel caffé istantaneo, di 3 mg nel caffé decaffeinato, di 30 mg nella foglia o nella busta di tè, di 20 mg nel tè istantaneo e di 4 mg nel cacao o nella cioccolata calda. Un bicchiere (200 ml) di una bevanda analcolica che contiene caffeina, ha un contenuto medio di caffeina di circa 20-60 mg. La presenza di caffeina, in accordo con la Direttiva Europea 2002/67/CE, deve chiaramente figurare sull’etichetta delle bevande che contengono più di 150 mg/L. Questa norma si applica ad alcune bevande analcoliche e alle bevande energetiche che contengono caffeina, ma non al tè, al caffé, e ai prodotti che ne derivano, supponendo che i consumatori ne siano a conoscenza.

di Mia Dell’Agnello

Pubblicato in Fitmed online 10/2012

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Scoliosi: trattamento riabilitativo in età evolutiva. Un estratto dalle Linee Guida nazionali

La Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione (SIMFER), sulla base delle indicazioni del Ministero della Sanità, ha dato incarico a una Commissione di suoi Soci (vedi BOX) la stesura di Linee Guida sul “Trattamento riabilitativo del paziente in età evolutiva affetto da deformità del rachide”. Le Linee Guida si rivolgono a tutti gli operatori impegnati nel campo della riabilitazione e del trattamento conservativo delle deformità del rachide e sono applicabili a tutti i pazienti di interesse riabilitativo e conservativo affetti dalle patologie di cui sono oggetto. La metodologia seguita si è basata sul recupero e analisi di tutta la bibliografia e letteratura internazionale esistenti. È stata quindi stabilita una scala della forza delle evidenze scientifiche, codificata sulla base delle classiche indicazioni usate per la stesura di Linee Guida (vedi tabella). Schermata 2013-11-25 alle 13.52.57Dato che l’argomento oggetto delle Linee Guida è caratterizzato da una sovrabbondanza di lavori descrittivi e da prassi principalmente basate sul consenso, più che su evidenze scientifiche, si è ritenuto utile ampliare l’ultima voce (E), suddividendola in tre gradazioni diverse di Consenso Scientifico.

DEFINIZIONE
La scoliosi idiopatica è una complessa deformità strutturale della colonna vertebrale che si torce sui tre piani dello spazio:
- sul piano frontale, si manifesta con un movimento di flessione laterale;
- sul piano sagittale, con un’alterazione delle curve, il più spesso provocandone un’inversione;
- sul piano assiale, con un movimento di rotazione.
Per definizione, la scoliosi idiopatica non riconosce una causa nota, e probabilmente nemmeno una causa unica. Da un punto di vista eziopatogenetico, quindi, la deformazione vertebrale provocata dalla scoliosi idiopatica può essere definita come il segno di una sindrome complessa a eziologia multifattoriale. Questa sindrome si manifesta quasi sempre con la sola deformità, ma non si identifica con essa, in quanto con una indagine più approfondita è possibile trovare altri segni sub-clinici che appaiono significativi.
La definizione classica della Scoliosis Research Society, definisce la scoliosi come una curva di più di 10° Cobb sul piano frontale senza considerare il piano laterale, le cui modificazioni incidono significativamente sull’evoluzione della scoliosi e la trattabilità ortesica. In base a questo dato, molti dei lavori pubblicati sull’efficacia del trattamento conservativo della scoliosi (fisioterapia, corsetti gessati, busti) utilizzano come unico parametro la modificazione dei gradi Cobb. Questo aspetto è destinato nel futuro a essere rivisto, in particolare considerando l’importanza della rotazione vertebrale, valutabile sia radiograficamente che clinicamente. Le scoliosi idiopatiche possono essere classificate secondo la localizzazione iniziale della deformità: toraciche, toracolombari, lombari, a doppia curva, e secondo l’età di insorgenza: infantili, giovanili e adolescenziali. Le menomazioni del paziente scoliotico sono classificabili come danni neuromotori, biomeccanici, cardio-respiratori ed estetici. Per quanto riguarda le problematiche relative alle limitazioni delle attività, queste riguardano in gran parte la scoliosi adulta. Il dolore, per esempio, o una significativa riduzione della capacità di sforzo o delle attività della vita quotidiana o professionale non fanno parte delle caratteristiche del giovane paziente scoliotico. Viceversa, ci sono due elementi tipici dell’età evolutiva che pure si riflettono pesantemente anche sull’età adulta: le limitazioni delle attività (disabilità) dovute a motivi psicologici e altre definibili come iatrogene, laddove il ragazzo affetto da scoliosi non viene rispettato in quanto persona colta in un duplice momento delicato, quello della crescita e sviluppo puberale e quello dell’incontro/scontro con il proprio corpo affetto da una forma di patologia che ne mina una struttura portante, che non per niente si chiama “colonna”. Tutti questi elementi devono ovviamente essere valutati in base all’entità della curvatura scoliotica, laddove al di sotto dei 20° Cobb quasi mai ci sono manifestazioni di limitazioni delle attività, che divengono però sempre più importanti con l’aggravarsi della patologia.

IL TRATTAMENTO
Il trattamento della scoliosi ripercorre tutte le fasi tipiche della prevenzione. Quando la patologia è lieve, il trattamento, definito “libero” è una prevenzione dell’evolutività della scoliosi (esercizi con controlli medici periodici) e riguarda la cosiddetta scoliosi minore (di norma al di sotto dei 20° Cobb). La prevenzione dell’evolutività diviene poi terapia per evitare che possa evolvere in scoliosi maggiore. La forma di prevenzione dell’evolutività principalmente applicata sono gli esercizi specifici e la cinesiterapia: si tratta di un lavoro finalizzato al miglioramento di capacità neuromotorie, adattato e controllato sulla base della patologia e delle caratteristiche individuali del singolo paziente. Il complesso degli esercizi è teso a migliorare le capacità specifiche dell’individuo (equilibrio, coordinazione e controllo oculo-manuale) rispettando gli equilibri biomeccanici (l’azione è sui tre piani dello spazio). Un secondo aspetto è quello della prevenzione secondaria, vale a dire del trattamento per evitare i danni conseguenti alla presenza della patologia conclamata. I confini possono essere fatti coincidere con un livello di patologia che richiede di intervenire con una ortesi. Lo scopo primario in questa fase è quello di evitare l’aggravamento della scoliosi, quindi di curare la malattia, ma anche, purtroppo a volte dimenticato, di trattare le menomazioni, di evitare le limitazioni dell’attività (disabilità) e della partecipazione (handicap). Quindi, se l’elemento principe è l’ortesi, il trattamento delle menomazioni e della disabilità sono tipiche dell’intervento riabilitativo, sia cinesiterapico e con esercizi specifici, che psicologico, ma anche educativo. Ovvia l’articolamente questo intervento è interdisciplinare è vede la compartecipazione delle diverse figure del team: fisiatra, ortopedico, fisioterapista, tecnico ortopedico, laureato in scienze motorie, paziente, famiglia. Infine, va considerata la prevenzione terziaria, spesso fatta direttamente coincidere “tout court” con la riabilitazione. Questo momento è tipico del recupero post-intervento e/o del superamento dei danni iatrogeni in età dell’accrescimento. La curvatura scoliotica non strutturata, o paramorfismo, o atteggiamento scoliotico, non è una condizione patologica e non rientra nell’oggetto di queste Linee Guida.

CINESITERAPIA ED ESERCIZI SPECIFICI
Attualmente non c’è evidenza sufficiente per raccomandare o sconsigliare l’utilizzo della cinesiterapia e di esercizi specifici. Peraltro, introducendo accanto ai concetti di efficacia ed efficienza, quello di accettabilità delle terapie, le famiglie hanno dimostrato di preferire l’effettuazione di esercizi specifici a scopo preventivo all’attesa di una eventuale evoluzione da trattare in seguito con corsetto. Inoltre, l’esame della letteratura a disposizione permette di ipotizzare un’efficacia di esercizi specifici nel rallentare l’evolutività delle curve patologiche in pazienti affetti da scoliosi idiopatica con curve minori. Non esistono pubblicazioni scientifiche rigorose sull’efficacia terapeutica dell’uso di manipolazioni, plantari (non rialzi), byte, medicinali convenzionali e omeopatici, agopuntura, accorgimenti alimentari per la correzione della scoliosi idiopatica in età evolutiva.

RACCOMANDAZIONI
- La scelta delle opzioni terapeutiche deve essere fatta dal clinico esperto di patologie vertebrali sulla base di tutti i parametri anamnestici, obiettivi e strumentali (E1).
- Una curvatura scoliotica non strutturata e la scoliosi inferiore ai 10±5° Cobb non devono essere trattate in modo specifico, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E1). Piuttosto, è necessario che siano ricontrollate periodicamente sino al superamento del picco puberale, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali (E2). Si raccomandano, nelle curve minori, gli esercizi specifici come primo gradino di approccio terapeutico alla scoliosi idiopatica per prevenirne l’evolutività (C). – Si raccomanda la costituzione di équipe terapeutiche specifiche (non necessariamente con rapporto di lavoro diretto), con una stretta collaborazione tra medico e rieducatore (E3), specificamente formato ed esperto nel trattamento della scoliosi (E2).
- Gli esercizi devono essere svolti individualmente o, meglio ancora, in piccolo gruppo con programmi individualizzati (E3); se ne raccomanda la continuità, sino alla fine del trattamento (E2). Gli esercizi, individualizzati sulla base delle necessità dei pazienti (E2), devono essere finalizzati a un miglioramento del controllo neuromotorio e posturale del rachide, dell’equilibrio e della propriocezione e a un rinforzo della funzione tonica della muscolatura del tronco (E2). Si raccomanda che gli esercizi non incrementino l’articolarità e la mobilità del rachide, con esclusione della fase di preparazione all’uso di un’ortesi (E2).
- Si raccomanda di evitare per la cinesiterapia l’uso esclusivo di singoli metodi, nessuno dei quali si adatta a tutte le fasi terapeutiche per il ragazzo affetto da scoliosi idiopatica (E2), utilizzando in ogni fase del trattamento il metodo, le tecniche e gli esercizi più idonei a perseguire gli obiettivi terapeutici necessari per il paziente (E2).
- Si raccomandano esercizi per migliorare la funzionalità respiratoria in pazienti affetti da scoliosi idiopatica che ne abbiano necessità (D).

ATTIVITÀ SPORTIVA
L’attività sportiva consente un riequilibrio psico-motorio che è consigliabile per tutti e che deve trovare spazio nell’adolescente scoliotico con le dovute modalità a seconda del tipo di paziente e della gravità ed evolutività della curva. Il paziente scoliotico deve giocare “come e più di tutti gli altri”, anche perché l’attività motoria consente di intervenire sugli aspetti psicologici e sociali correlati alla negatività di immagine del proprio corpo, mantenendo il paziente inserito nel suo gruppo. Il nuoto non è la panacea delle scoliosi e ci sono studi che tendono ad evidenziarne alcuni limiti o addirittura controindicazioni. Perplessità sono state espresse negli anni rispetto alle attività fisiche generalmente mobilizzanti, quali in particolare ginnastica artistica e danza. Quindi, lo sport non deve essere prescritto come un trattamento per la scoliosi idiopatica (E2), ma si raccomanda lo svolgimento di attività sportive di carattere generale per vantaggi aspecifici in termini psicologici, neuromotori e organici generali (E2), anche durante il periodo d’uso di un corsetto (E3). In base all’entità della curva e alla fase evolutiva, a giudizio del clinico esperto di patologie vertebrali, possono essere poste limitazioni rispetto ad alcune particolari attività (E2).

PER APPROFONDIMENTI
SIMFER: www.simfer.it
ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale): www.isico.it Fondazione Don Gnocchi ONLUS: www.dongnocchi.it
GRUPPO DI STUDIO DELLA SCOLIOSI: www.gss.it
ASSOCIAZIONE BACK SCHOOL: www.backschool.it

I MEMBRI DELLA COMMISSIONE
Stefano Negrini, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano e Fondazione Don Gnocchi ONLUS – IRCCS, Milano Lorenzo Aulisa, Clinica Ortopedica, Università degli Studi Cattolica di Roma Claudio Ferraro, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Fraschini, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Stefano Masiero, Clinica Ortopedica, Servizio di Riabilitazione, Università degli Studi di Padova Paolo Simonazzi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Claudio Tedeschi, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Andrea Venturin, Azienda Ospedaliera, Università degli Studi di Padova Claudia Guerra, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Vincenzo Pirola, Azienda Ospedaliera “Salvini”, Garbagnate Milanese Simona Pochintesta, Istituto “Eugenio Medea” IRCCS La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (Co) Umberto Selleri, Azienda Ospedaliera “Bufalini”, Cesena Dinetta Bianchini, Azienda Ospedaliera “Santa Maria”, Reggio Emilia Wanda Bilotta, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Isabella Fusaro, Istituti Ortopedici Rizzoli IRCCS, Bologna Marco Monticane, ISICO (Istituto Scientifico Italiano Colonna vertebrale), Milano 
di Mia Dell’Agnello
Pubblicato su Fitmed online 7/2009

Federasma e il progetto Gina

by _urbanizrFEDERASMA

La Federazione Italiana delle Associazioni di Sostegno ai Malati Asmatici e Allergici è un’organizzazione senza fini di lucro (Onlus), che riunisce le principali associazioni italiane di pazienti impegnate nella lotta contro l’asma e le allergie. Partendo dal presupposto che l’informazione, la gestione e il controllo della malattia rappresentano i tre punti essenziali per la tutela del paziente asmatico e allergico, Federasma mette a disposizione sul proprio sito una serie di pubblicazioni rivolte ai pazienti e al personale sanitario. Fra queste segnaliamo “Asma e sport”, dedicata alla promozione dell’attività sportiva che, al contrario di quanto ritenuto spesso in modo pregiudiziale, può esercitare una notevole azione benefica nei soggetti asmatici. “Le persone con asma, se la malattia è tenuta sotto controllo, possono svolgere qualsiasi attività corrispondente alle proprie possibilità e inclinazioni, compresi gli sport dilettantistici e agonistici. Lo dimostra l’esempio di numerosi atleti con asma che hanno raggiunto il podio olimpico: tra i più celebri, il nuotatore Mark Spitz, che vinse sette medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1972 e il nostro Giorgio Di Centa, trionfatore alle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006 nella 50 km e nella staffetta 4×10 km. I successi di questi atleti devono incoraggiare tutte le persone con asma a non rinunciare ai benefici dell’attività fisica: seguendo alcune regole importanti si può tenere la malattia sotto controllo e prevenire il rischio di crisi di asma durante l’impegno atletico. In linea di massima, gli sport più adatti sono quelli che coinvolgono in maniera regolare e continua i muscoli respiratori, coordinandoli con tutta l’attività muscolare, o quelli che comportano una respirazione particolarmente impegnativa solo per brevi periodi: sport come nuoto, canottaggio, ginnastica artistica, golf risultano più idonei al soggetto asmatico rispetto a quegli sport che richiedono un impegno fisico acuto e prolungato”. Oltre a fornire delle indicazioni generali e precauzionali, che riguardano soprattutto la gestione della malattia in un rapporto fiduciario con il proprio medico, le linee guida individuano i pro e i contro delle principali discipline sportive. Le riportiamo così come sono state pubblicate.

Nuoto. È tra gli sport più indicati per le persone con asma. Non comporta un eccessivo incremento della ventilazione polmonare; la frequenza respiratoria risulta moderata ed è facilmente controllabile attraverso il movimento sincrono e ritmico delle bracciate. L’importante è che sia eseguito in ambiente adeguatamente riscaldato e intervallato da periodi di riposo. Nelle piscine, un’elevata concentrazione di cloro nell’acqua può causare crisi broncospastiche.

Sollevamento pesi, lotta e scherma. Questi sport, basati sulla potenza e sulla destrezza, presentano un basso rischio asmatico in quanto richiedono sforzi intensi ma di breve durata, con scarso incremento della ventilazione.

Sci di fondo. Presenta gli stessi vantaggi del nuoto: ha cioè la caratteristica di impegnare vaste masse muscolari in un movimento armonico e ritmico coordinato con gli atti respiratori. Si tratta quindi di uno sport che può essere praticato con relativa tranquillità da parte delle persone con asma, assumendo le opportune precauzioni per proteggersi dall’aria fredda che può provocare broncospasmo.

Corsa libera. Viene spesso praticata in fase di preparazione atletica e riscaldamento di molte attività sportive ed è quindi una delle discipline più comuni. È una delle attività sportive che possono più facilmente indurre crisi di asma, specie se protratta per 6-8 minuti. Per fortuna, la corsa è sensibile all’effetto allenamento: con la pratica si può trovare un giusto adattamento, arrivando a eseguire un allenamento di base con un buon livello di attività fisica, ma una ridotta ventilazione, riducendo così l’effetto stimolante dell’iperventilazione come causa di broncospasmo.

Atletica leggera. Le più importanti specialità dell’atletica leggera come i 100 e i 200 metri piani, nonché i salti in alto, lungo, triplo e asta che si svolgono prevalentemente in apnea e in un tempo brevissimo, quindi con un ridotto impegno ventilatorio, sono generalmente ben tollerate dai pazienti asmatici.

Canottaggio. Nonostante comporti un’elevata ventilazione, risulta meglio tollerato della corsa.

Vela. È uno sport adatto agli asmatici perché si svolge in un ambiente praticamente privo di allergeni, polvere, pollini e non richiede un elevato livello ventilatorio. Sono da tenere presenti le brusche variazioni climatiche, in particolare la possibilità di esposizione al freddo.

Sport di squadra. Il calcio, la pallacanestro, la pallamano, la pallavolo, l’hockey a rotelle e su prato, richiedono corse non continuative alternate a periodi di sosta e possono quindi essere praticati dai pazienti asmatici, previa attenta valutazione da parte del medico degli indici di funzionalità respiratoria.

Sport ad alta quota. La persona con asma che si reca in montagna, soprattutto nella stagione fredda, deve essere consigliata a effettuare un buon allenamento di base, in modo da ridurre l’iperventilazione, e un breve periodo di riscaldamento. È consigliabile che i pazienti asmatici anche giovani, con funzione respiratoria più compromessa, non superino i 2000 metri, se non dopo un’adeguata broncodilatazione farmacologica. Non è prudente la risalita con mezzi meccanici oltre i 3000 metri, soprattutto quando il soggetto asmatico è appena giunto dalla pianura: la mancanza di un acclimatamento potrebbe indurre episodi broncospastici.

GINA: INIZIATIVA GLOBALE PER L’ASMA

Il GINA (The Global Initiative for Asthma – Iniziativa Globale per l’Asma) opera dal 1993. Il suo obiettivo primario consiste nel lavorare a stretto contatto con gli operatori e il personale sanitario nel mondo per ridurre prevalenza, morbilità e mortalità dell’asma. Nel sito italiano dell’associazione sono disponibili una serie di pubblicazioni che contengono informazioni su epidemiologia, patogenesi, prevenzione e dati socio-economici sull’asma, nonché le linee guida internazionali adattate alla realtà italiana e aggiornate al 2010. Le linee guida offrono un quadro completo della patologia (epidemiologia, impatto socio-economico, fattori di rischio, fisiopatologia, diagnosi e monitoraggio dell’asma, valutazione e controllo, prevenzione e riduzione dei fattori sensibilizzanti e scatenanti, terapia farmacologia, educazione del paziente) e sono state pubblicate con l’intento di informare tutte le persone che si occupano di soggetti asmatici, in modo da favorirne l’applicazione nella pratica quotidiana. L’educazione del paziente risulta infatti fondamentale per la gestione ottimale della malattia e coinvolge anche personale non sanitario, purchè addestrato, in particolare nei confronti dei bambini/ adolescenti in età scolare. Ancora una volta è evidenziato il ruolo che l’attività fisica svolge nella vita dei soggetti asmatici, soprattutto nei bambini e nei giovani, anche perché, fra i fattori di rischio individuali che predispongono all’asma ritroviamo, ancora una volta, obesità e sedentarietà. Fino agli anni ’90 il trend di diffusione dell’asma è stato in crescita, dopo di che sembrava essersi stabilizzato; ma negli ultimi anni si sono registrati nuovi aumenti, sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. I motivi sono differenti, ma uno di questi è sicuramente il contingente aumento di popolazione obesa, nella quale è stata rilevata un’incidenza di asma maggiore rispetto alla popolazione normale (correlata al BMI), e una più difficile gestione.

 

di Mia Dell’Agnello
Pubblicato in Fitmed online 9-2010